Hype ↓
00:32 lunedì 20 ottobre 2025
Hollywood non riesce a capire se Una battaglia dopo l’altra è un flop o un successo Il film di Anderson sta incassando molto più del previsto, ma per il produttore Warner Bros. resterà una perdita di 100 milioni di dollari. 
La Corte di giustizia europea ha stabilito che gli animali sono bagagli e quindi può capitare che le compagnie aeree li perdano Il risarcimento per il loro smarrimento è quindi lo stesso di quello per una valigia, dice una sentenza della Corte di giustizia dell'Unione Europea.
È uscito il memoir postumo di Virginia Giuffre, la principale accusatrice di Jeffrey Epstein Si intitola Nobody’s Girl e racconta tutti gli abusi e le violenze subiti da Giuffré per mano di Epstein e dei suoi "clienti".
È morto Paul Daniel “Ace” Frehley, il fondatore e primo chitarrista dei KISS Spaceman, l'altro nome con cui era conosciuto, aveva 74 anni e fino all'ultimo ha continuato a suonare dal vivo.
Dell’attentato a Sigfrido Ranucci sta parlando molto anche la stampa estera La notizia è stata ripresa e approfondita da Le Monde, il New York Times, il Washington Post, Euronews e l’agenzia di stampa Reuters.
Oltre alle bandiere di One Piece, nelle proteste in Usa è spuntato un altro strano simbolo: i costumi gonfiabili da animale Costumi da rana, da dinosauro, da unicorno: se ne vedono diversi in tutte le città in cui si protesta con Trump e contro l'Ice.
Secondo Christopher Nolan, non c’è un attore che quest’anno abbia offerto un’interpretazione migliore di The Rock in The Smashing Machine Quello del regista è il più importante endorsement ricevuto da The Rock nella sua rincorsa all'Oscar per il Miglior attore protagonista.
Dopo 65 anni di pubblicazione, Il Vernacoliere chiude ma non esclude il ritorno Lo ha annunciato su Facebook il fondatore e direttore Mario Cardinali, che ha detto di essere «un po' stanchino» e spiegato la situazione di crisi del giornale.

Work of Art

Quando il format di massa incontra l'arte contemporanea

03 Novembre 2011

Mi ricordo che tanti anni fa sulla RAI c’era un programma in cui dieci concorrenti, tutti della stessa professione, si sfidavano per vedere chi era il migliore a fare quel mestiere lì. Onestamente non mi ricordo il titolo (può essere “I Professionisti”? Google non mi aiuta), ma mi pare conducesse Frizzi. Ad ogni modo c’era pure la puntata sugli artisti, con Arnaldo Pomodoro in mezzo alla giuria – che ai tempi non conoscevo di fama, ma uno che si chiama “pomodoro” se lo senti nominare a dieci anni non te lo scordi più. Allora mi aveva affascinato osservare gente che si affannava a fare sculture astratte in due minuti, che il suddetto Pomodoro e gli altri anonimi giurati valutavano in base a criteri a me oscuri. Negli anni successivi non mi è mai più capitato di vedere l’arte contemporanea in televisione, e mentre io iniziavo ad andare alle mostre e ad assorbire un certo tipo di estetica dei giorni nostri, mamma RAI e papà Mediaset al massimo mi concedevano uno Sgarbi o un Daverio, prova della credenza popolare che se ti piace l’arte o sei schizofrenico oppure porti il cravattino.

L’anno scorso, tramite conoscenze slegate dalle mie frequentazioni para-artistiche (la mia ragazza), mi sono imbattuto in Work of Art. Il programma è trasmesso su Bravo, un canale via cavo inizialmente dedito al cinema indipendente, ma esploso poi con reality estremamente gay-friendly come Queer Eye for the Straight Guy (che da noi è diventato I Fantastici Cinque, su La7) e Project Runway, popolare talent show a tema fashion condotto da Heidi Klum e adesso in onda su Lifetime. Secondo Entertainment Weekly, gli show di Bravo mischiano “cultura alta e scrupoli bassi”, e Work of Art è forse l’esempio più calzante tra quelli sopracitati. Modellato sul modello di Project Runway, lo show vede un numero via via decrescente di artisti di varia estrazione (da quelli avviati a quelli più amatoriali) contendersi una personale al Brooklyn Museum e un sacco di premi messi lì dai vari sponsor.

La prima stagione l’avevo trovata emozionante per due ragioni. Uno, l’estetica delle opere che i concorrenti devono realizzare a tempo record è quella contemporanea, con riferimenti più o meno impliciti ad artisti famosi (tipo Andres Serrano e David LaChapelle) che, ogni tanto, vengono anche a fare da giudici extra al programma. Due, quelli che fin dall’inizio potevano sembrare artisti più maturi e sicuri della propria poetica hanno spesso ceduto all’incapacità di declinare il proprio talento in contesti fuori dalla propria comfort zone (sfide di gruppo, materiali diversi, etc). Gente come l’irritante Miles, lodato dai giudici durante tutto il corso del programma, si è poi trovata in finale senza niente da dire (ad eccezione delle proprie cerebrali cripticità concettuali), svergognato da personalità più semplici come Abdi (parecchio ingenuotto all’inizio ma decisamente maturato). Per non parlare della procace ma furbetta Jaclyn, ex assistente di Jeff Koons che le ha provate un po’ tutte per sfangarla, fallendo però miseramente.

In sostanza, in Work of Art l’arte contemporanea, normalmente legittimata dalle proprie nicchie di autosufficienza, viene sradicata dal white cube e messa a processo tutta insieme, con le proprie contraddizioni e le inevitabili frizioni. Circoli altrimenti non comunicanti devono rendere conto allo stesso pubblico, e se l’artista da un lato deve essere se stesso, deve anche adattarsi e pedalare. Arruffianarsi chi guarda non serve, perché la giuria è composta da critici, galleristi e personaggi autorevoli nel campo, e non ci sono contentini populistici tipo il televoto. Ma l’ombra sinistra della narrazione televisiva è comunque sempre presente, a partire dalla drastica frase “Your work of art didn’t work for us”, che congeda gli eliminati. Inoltre, i ritmi e alcune dinamiche dello show non fanno decisamente bene all’arte: di sicuro non giovano i tempi ristretti e le sfide un po’ troppo “compitino”, ma anche la preponderanza di galleristi e critici sui curatori, figure pressoché assenti dal programma, tende ad appiattire il punto di vista generale. Il tutto risulta comunque sorprendentemente costruttivo, se non altro per la siderale distanza dai drammi artificiali e dalle beghe di condominio di Amici di Maria De Filippi, ma è chiaro che il discorso artistico ad ampio respiro cede il passo all’impatto immediato e alla logica di mercato (il mentore dei partecipanti è Simon de Pury, presidente della famosa casa d’aste.

Ad ogni modo, all’inizio della seconda stagione, Work of Art continua a essere interessante. Già dalla scelta dei concorrenti si capisce quali narrative di andranno a sviluppare: c’è l’artista pop-nerd che sa parlare bene del proprio lavoro (ma solo per dire “abbasso l’arte alta”); c’è l’artista afroamericano che si occupa di questioni razziali; c’è l’hipster Lola, tette fuori già dall’episodio due; e c’e(ra) Ugo il belloccio designer francese, defenestrato al primo impatto per la propria incapacità di andare oltre a degli scarabocchi vergognosamente alla Keith Haring. Si preannuncia della gustosa televisione, se non della grande arte.

Leggi anche ↓

Ripensare tutto

Le storie, le interviste, i personaggi del nuovo numero di Rivista Studio.

Il surreale identikit di uno degli autori dell’attentato a Darya Dugina diffuso dai servizi segreti russi

La Nasa è riuscita a registrare il rumore emesso da un buco nero

Un algoritmo per salvare il mondo

Come funziona Jigsaw, la divisione (poco conosciuta) di Google che sta cercando di mettere la potenza di calcolo digitale del motore di ricerca al servizio della democrazia, contro disinformazione, manipolazioni elettorali, radicalizzazioni e abusi.

Odessa ex città aperta

Reportage dalla "capitale del sud" dell'Ucraina, città in cui la guerra ha imposto un dibattito difficile e conflittuale sul passato del Paese, tra il desiderio di liberarsi dai segni dell'imperialismo russo e la paura di abbandonare così una parte della propria storia.