Cultura | Letteratura

In viaggio con William T. Vollmann

Quattro giorni in compagnia dello scrittore americano, tra treni, disegnini erotici, bicchieri di grappa, Cesare Pavese e David Foster Wallace.

di Gianluca Herold

Gay street, Roma (11 luglio 2023)
Ed eccomi qui, seduto all’aperto in un bar a due passi da un Colosseo pallido e rovente, a pensare che William T. Vollmann sembra il tipo che da piccolo è caduto in un pentolone di ecstasy. Cito da Treccani: «Gli effetti clinici sono: euforia, sensazione di completo benessere, aumento di intensità di tutte le percezioni sensoriali, disinibizione, aumento dell’empatia». Mr. Vollmann («Oh, please, just Bill») vive costantemente in questo stato di beata curiosità. Sorridente, alto e corpulento dentro a una camicia grigia due o tre taglie più grandi, mostra un interesse sincero nei confronti di qualsiasi cosa gli capiti a tiro. Una sorta di Obelix della curiosità. Per lui è del tutto normale giocherellare con la nebbiolina artificiale tipica dei locali del centro e un attimo dopo guardarti coi suoi occhi azzurri leggermente asimmetrici, privi di sopracciglia, e chiederti, nell’ordine: cos’hai fatto oggi, se vuoi assaggiare le sue patate arrosto, qual è il tuo superalcolico preferito, se per caso hai letto Temporale d’estate di Pavese, quando hai bevuto grappa per la prima volta, se dopo il suo intervento al Festival Letterature di Roma ti va di fermarti a bere qualche grappetta con lui. Insomma, la grappa gli piace parecchio e si rivolge a me come se non mi avesse appena incontrato per la prima volta. Come se non dovessi essere io, che lo seguirò per i prossimi quattro giorni, a dover rompere il ghiaccio a colpi di domande. Devo aver messo su un’espressione eloquente, tra il sorpreso e lo stordito, perché quando ci salutiamo, Alexander Simon, il suo agente tedesco, mi si avvicina sornione e mi dice: «Già. In Germania sai come lo chiamiamo? “Mr. How about you”. Gli fai una domanda e lui subito che te la restituisce chiedendoti cosa ne pensi tu».

Salaborsa, Bologna (12 luglio 2023)
Nonostante le sue dediche siano piuttosto elaborate, con tanto di firma, intestazione personalizzata (per Giada: «To my jade goddess, from your friend Bill») e disegnino erotico vagamente picassiano, durante i firmacopie Bill non usa mezzucci frusti e dozzinali, tipo guardare mentre scrive. Non ne ha bisogno. Per lui è un gesto così naturale che potrebbe farlo «al buio, o nella giungla, o mentre ti sparano addosso» – tutte situazioni in cui in effetti si è ritrovato. No, preferisce fissare con quel suo sguardo glabro e divergente la persona che ha di fronte e chiederle qualunque cosa, da quanti libri ha nella sua libreria a se ha mai assaggiato i grilli (non sanno di «nothing», aggiunge ammiccando con una serietà spiazzante, «just crunch-crunch»). Soprattutto chiede a ognuno se vuole fermarsi a bere una grappa nel pub vicino. Per alcuni l’invito suona così strano da convincerli di aver capito male, occhieggiano i capitelli liberty alle sue spalle, masticano qualche scusa per il cattivo inglese, prendono la propria copia e poi si congedano con un sorrisetto confuso. Tutti gli altri si mettono qualche metro più in là, e aspettano. La carovana di gente che si avvia verso il Celtic Druid di Bologna, un’ora dopo, potrebbe giocare tranquillamente una partita di calcio con tanto di riserve, arbitro, guardalinee e tutto il resto, e io lo osservo da dietro, Bill, il suo modo bizzarro di muoversi nello spazio. Cammina ciondolando un po’ sui lati e avanzando a scossoni, le braccia rigide coi pugni chiusi attorno al pollice, come se usasse troppo il busto per indirizzare il resto del corpo, come se si trovasse perennemente su un treno merci in movimento.

Frecciarossa 8509, Bologna-Rovereto (13 luglio 2023)
Viaggiare con William T. Vollmann quando fa le sue ricerche dev’essere come suonare una jam session con Jimi Hendrix, ma oggi non ci sono ricerche da fare, c’è solo da lasciarsi portare con dolcezza fino alla prossima tappa. Dormicchiare, lavorare un po’, guardare fuori dal finestrino il paesaggio sbiancato dal sole. Bill ha tutta una geografia di tic, soprattutto quando si sente osservato (il colpetto alla stanghetta degli occhiali, la testa che si torce di lato, la bocca che si stira fino a far scomparire le labbra), che però stranamente viene meno nel momento in cui ti parla a quattr’occhi.

«Dunque. I miei genitori viaggiavano parecchio quando ero piccolo. Non avevamo molti soldi, e mio padre doveva muoversi di continuo per lavoro. Questa è una delle ragioni per cui è stato difficile farmi amici per un bel pezzo. Mi ricordo che avevo, sì, credo tre o quattro anni, vivevamo a Los Angeles in una casa piuttosto scadente, le pareti color verde militare, molto calda, senza aria condizionata. Uscii fuori e mia mamma mi tolse le scarpe e camminai scalzo, mi ricordo quanto fosse bella quella sensazione, e c’era un impianto sperimentale dove studiavano i delfini, lì di fianco, e passammo davanti e li vidi saltare e fare i loro versetti. Credo sia questo il primo dei miei ricordi.»

«Ce n’è qualcuno che preferiresti non avere?»

«No, perché tutti, anche quelli molto tristi, o quelli in cui sono stato una brutta persona, determinano quello che sono. Posso far finta di essere giovane e attraente, posso mettermi un vestito e far finta di essere una donna…»

«Beh, questo l’hai fatto davvero…»

«Sì, ed è stato grandioso. Ma chi sono davvero? Tra le altre cose, sono un uomo che per un periodo ha fatto finta di essere una donna per scrivere un libro, sono un ragazzino di nove anni la cui sorella di sei è affogata sotto la sua supervisione, sono un padre che – ma sarei più felice se lo dimenticassi? Forse, ma non voglio dimenticarlo, perché questo sono.»

«E quale vorresti fosse il tuo ultimo ricordo?»

«Quando arriverà il mio momento spero di trovarmi tra le braccia di una donna.»

Ecco, dobbiamo parlare della passione di Bill per le donne. Perché nessuna, dico nessuna, sfugge alla sua adulazione («You are the grappa of my heart»; «Oh, what a black Madonna!»; e poi la più elaborata, declamata in ginocchio: «Se entrassi nel Partenone le statue delle divinità andrebbero in mille pezzi»). Quando gli faccio notare che i tempi sono cambiati, che se mi rivolgessi in quel modo a una ragazza appena conosciuta susciterei quantomeno un’espressione di sufficienza, se non di compassione, mi risponde che può darsi che lo tollerino perché ha quasi sessantaquattro anni, sì. Ormai ha un piede nella fossa.

«Sai, saresti uno dei pochi scrittori che non hanno fatto una brutta fine. Cos’è che non ti attrae del suicidio o delle droghe?»

(ride)

«Forse è solo che non ne ho ancora avuto il coraggio. Però penso che in fondo il suicidio sia il modo migliore di andarsene, perché non abbiamo il controllo sulla morte, a meno che, appunto, ce la diamo da soli. Come Pavese, lui sì che è uno di quei tipi fortunati che ha visto esaudito il suo ultimo desiderio! (ride) Spesso la morte invece è piena di dolore totalmente non necessario. Il suidicio assistito dovrebbe essere universale, economico e idealmente divertente.»

«E le droghe?»

«Cosa penso? Beh, penso che ce ne dovrebbero essere di più. Ma non ne sono attratto nel senso della dipendenza. Tutti hanno una dipendenza da qualcosa, io ce l’ho dal mio lavoro.»

Mentre chiacchieriamo lo osservo con attenzione e non riesco a non pensare di trovarmi di fronte a una delle persone più strane e interessanti che abbia mai incontrato. C’è qualcosa di genuinamente infantile nel suo modo di rapportarsi col mondo. Di tenero, oserei. Adesso per esempio ha appena parlato della sua morte, e l’ha fatto con una lucidità e un’ironia rare, ma non appena c’è un attimo di silenzio indica il mio taccuino e dice: «Oooh, that’s a very nice notebook, Gianluca!», come se avesse visto un fiore irresistibile. E quando rialziamo lo sguardo non posso fare a meno di notare l’aria da avventuriero, il suo vago aspetto da terrorista fai-da-te con gli occhiali tenuti insieme con lo scotch e i capelli che sembrano tagliati col trinciapollo, la sua tenuta da viaggio che ricorda più un giubbotto rivestito di esplosivo al plastico che un gilet da pesca (e infatti mi dice che gli è capitato di essere fermato dalla polizia, pensavano fosse armato). E allora sarebbe facile partire da qui per porgli delle domande sul suo passato da sospettato dell’Fbi nel caso Unabomber (oltre settecento pagine di fascicolo su di lui), o da reporter di guerra miracolato, o più semplicemente da scrittore che ha frequentato tutto lo spettro umano, dagli skinhead di San Francisco alle prostitute di mezzo sud-est asiatico. Ma durante una breve pausa do un’occhiata ai miei appunti e scopro di non aver buttato giù nemmeno una domanda su argomenti di questo tipo, che invece di solito riempiono profili, interviste e quarte di copertina. Forse mentre mi preparavo cercavo di essere originale? O forse è la mia personale soluzione al problema di dover scrivere un reportage su uno come Bill?

Ovunque (1959-2023)
Voglio dire. Bill è uno che, appena ventenne, va in Afghanistan per affiancare i mujaheddin contro i russi (diarrea fulminante, si ritrova a essere un peso per i soldati che dovrebbe aiutare) e scrivere Afghanistan Picture Show, il suo esordio letterario. Ed è solo l’inizio di una carriera contraddistinta da due cose, soprattutto: l’esperienza diretta, anche estrema, come metodo; l’enciclopedismo selvaggio come esito. Per capire la prima basta prendere in mano L’atlante, il suo ultimo libro pubblicato da Minimum Fax, quello che sta presentando in questi giorni in Italia, dove Bill va a caccia di trichechi con gli Inuit nel nord del Canada, libera una prostituta bambina thailandese, sopravvive a un attentato in cui muoiono due amici giornalisti a Spalato, fuma crack con una prostituta di San Francisco. E direi che possiamo fermarci qui, a nemmeno metà di uno dei suoi innumerevoli libri. Per scriverne altri prende treni merci in corsa (Riding Toward Everywhere), si traveste da donna (The Book of Dolores), va a Fukushima subito dopo il disastro nucleare (La zona proibita) e arriva a tanto così dall’assideramento al Polo Nord (I fucili, dove tra l’altro racconta come si è giocato le sopracciglia: domando un incendio). Per questo quando dice che tutto sommato non gli dispiacerebbe farsi un giretto all’inferno, così, per intervistare Satana, io gli credo.

Bill è un viaggiatore compulsivo e spericolato (lui dice di no, che quando i suoi due amici giornalisti furono uccisi in Bosnia fu l’unico a mettersi il giubbotto antiproiettile, tra le loro risate. «Uno fu colpito alla testa, quindi sarebbe stato inutile, ma l’altro fu colpito al cuore, si sarebbe salvato»), d’accordo, ma tutto questo in fondo sarebbe irrilevante se non fosse anche uno scrittore immenso. E veniamo all’enciclopedismo selvaggio. Perché Bill fa saltare tutti i generi letterari, mescolando fiction e autofiction, saggio storico e reportage, allegando note, fonti, tabelle, foto – e lo fa in una quantità semplicemente incalcolabile di pagine. L’aggettivo “immenso”, dunque, va preso anche etimologicamente, nel senso di “non misurabile”. Se mettiamo assieme Europe Central (un’opera mondo sulla Seconda guerra mondiale vincitrice nel 2005 del National Book Award), The Royal Family (un romanzo sulla ricerca della fantomatica Queen of Whores di San Francisco, i cui fluidi corporei danno un’assuefazione simile all’eroina) e Come un’onda che sale e che scende (un saggio che cerca di chiarire se e quando è legittimo ricorrere alla violenza), solo con queste tre opere arriviamo a un totale di oltre cinquemila. Poi c’è tutto il resto, tra cui il ciclo dei cosiddetti Seven Dreams, ancora in corso di pubblicazione (sette romanzi che raccontano da sette punti di vista diversi la conquista dell’America del Nord). Bill scrive così tanto da essersi procurato negli anni la sindrome del tunnel carpale, e più di recente il licenziamento da parte di Viking, il suo editore americano, esasperato da quei manoscritti grossi come enciclopedie settecentesche, quasi impiazzabili sul mercato editoriale. Oltre, naturalmente, all’invidia dei colleghi: «La mia più grande nevrosi si chiama William T. Vollmann», diceva David Foster Wallace.

(Quando glielo faccio notare, e gli domando cosa pensa di DFW, mi dice che oh, well, si erano frequentati per un certo periodo, anche con Jonathan Franzen, e quindi non si è sorpreso quando ha saputo del suo suicidio. «Aveva un bisogno disperato d’amore, e niente avrebbe mai potuto colmare quel vuoto. Sta meglio da morto che da vivo.» «Ma c’era una sorta di competizione tra di voi?» Pausa. «Io sono vivo, lui è morto.» E non riesco a capire se è solo black humour oppure ci sia qualcosa di più.)

Frecciarossa 8509, Bologna-Rovereto (13 luglio 2023)
Tutto questo senza usare internet «perché serve solo a sorvegliarci o a venderci roba o a vendere i nostri dati ai governi», e nemmeno il telefono cellulare «perché poi dovrei rispondere». E allora sì, può essere che mi sia inconsciamente accodato a DFW. Dev’essere stato un sottile meccanismo di autodifesa – niente domande sulle peripezie, niente domande sulla prolificità leggendaria – nel tentativo di sottrarmi a una larger than lifeness impossibile da ritrarre in tutta la sua grandezza. Provo a rimediare adesso, improvvisando.

«Blocco dello scrittore, mai?»

«No, sono sempre su più progetti contemporaneamente, quindi se non so come andare avanti con uno lo metto da parte per un po’ e lavoro su un altro.»

«Quante cose scrivi contemporaneamente?»

«Adesso solo tre o quattro.»

«E in passato?»

«Oh, anche dieci.»

«Ma come diavolo fai a scrivere così tanto?»

«È quello che mi piace fare, ed è quello in cui sono bravo. Una compulsione, credo. Fin da quando avevo cinque o sei anni.»

«Che tipo eri, da bambino?»

«Leggevo un sacco di libri, e non ho avuto un vero amico fino ai dodici, tredici anni, perché viaggiavamo spesso. Inoltre avevo un problema agli occhi, ero strabico. Poi a quarant’anni partecipai a una sorta di esperimento etico, ti pagavano e io avevo bisogno di soldi. Mi misero degli elettrodi e venne fuori che mi manca questo nervo del cervello e che tutto quello che vedo è a due dimensioni, senza profondità, sì, come una fotografia. Ma fino a quel momento non lo sapevo. Alle elementari quando giocavamo mi mettevo fuori dal campo e speravo sempre che non mi arrivasse la palla, volevo solo essere invisibile, e quando mi arrivava e la prendevo – cioè, credevo di prenderla – mi ritrovavo col naso sanguinante e tutti che mi facevano buuu e dicevano “vedi, non dovevamo sceglierlo in squadra”, ma nessuno mi aveva scelto, ero semplicemente l’ultimo rimasto. E allora leggevo, ma anche questa cosa mi si ritorse contro, perché una volta fui l’unico a riuscire a fare lo spelling di “bacteria” e tornai a casa pieno di lividi. Mi dissi ok, ci ho provato, mollo. Non posso essere come gli altri, tanto vale essere me stesso. Allo stesso modo, quando Viking mi ha licenziato, è stato un sollievo. Stavano cercando di farmi fare quello che volevano loro, ma non mi sarebbe mai riuscito bene. L’unico modo per essere felice è fare le cose a modo mio. E anche oggi ci sono molte cose che non mi riescono – non posso guidare o tagliare l’erba del prato come si deve. Ma se una divinità mi dicesse (voce enfatica e caritatevole): “Oh Bill, vuoi che ti faccia vedere in tre dimensioni?”, direi di no, no grazie, perché la scrittura è la mia terza dimensione.»

«E se non fossi uno scrittore, cosa saresti?»

«Mmm, non ci ho mai… Beh, la mia più grande ambizione quando scrivo è aiutare la gente. Perciò, sì, forse mi piacerebbe lavorare con la Croce Rossa internazionale, o qualcosa del genere. Oppure coi rifugiati.»

La sua più grande ambizione quando scrive è aiutare la gente. Eppure i suoi libri sono belli lunghi, e anche parecchio complessi. Sono l’equivalente di una lunga passeggiata in montagna: la fatica, certo, può essere ripagata dal panorama mozzafiato, ma può anche scoraggiare.

«Non credi che scrivendo in maniera più semplice e concisa raggiungeresti più persone?»

«A-ha, ma se porti le medicine ai rifugiati non ti preoccupi troppo del colore delle pillole, no?»

«È per questo che non accetti editing?»

«Sì, ma faccio finta. Quando mi arrivano le bozze coi commenti dell’editor rispondo sempre “oh, grazie mille per i preziosi consigli”, ma in realtà non li leggo.»

«Perché?»

«I miei libri sono come figli, e ogni genitore vuole che il proprio figlio abbia una buona vita, e lunga, tutto qui. Se qualcuno viene e ti dice che tuo figlio è troppo alto, che bisogna intervenire, tu dici “neanche per idea, col cavolo”. Non per il tuo bene, ma per il bene del bambino. Deve vivere la sua vita nel modo che vuole.»

«Ed è per questo che Viking si è rifiutato di pubblicare il tuo ultimo libro?»

(«Ehi Bill, ecco il tuo manoscritto. È un po’ lunghetto, ma la buona notizia è che ti abbiamo lasciato delle note per tagliarlo.» Lui ha annuito compreso e poi l’ha riconsegnato quattrocento pagine più lungo, per un totale di circa tremilacinque. Il protagonista nasce a pagina ottocento. Luca Briasco, il suo editor italiano, sta cercando di mettere insieme tre o quattro Paesi per accedere a dei fondi europei, così da tradurlo e pubblicarlo almeno da noi, questo romanzo che dovrebbe chiamarsi A Table for Fortune e parlare dell’esperienza di Bill negli anni in cui ha dormito nei campi per senzatetto, oltre che, ehm, della Cia, dell’11 settembre e della tortura. Come potete ben immaginare, dunque, la lunghezza potrebbe non essere l’unico ostacolo.)

«Sì, qualcosa del genere. Sono stato licenziato.» (ride)

«E adesso?»

«Negli ultimi due anni è stata dura. A causa del licenziamento da parte di Viking, ma non solo. L’anno scorso è morta mia figlia. Era un’alcolista, ed era quello che voleva, ammazzarsi con l’alcol, e ce l’ha fatta. Non ho potuto fare nulla, se non cacciarla di casa. Non un gran risultato. Dopo che è morta ho trascorso quasi tutto il 2022 e parte del 2023 a letto, fissando il muro, quindi la mia situazione finanziaria non è delle migliori. Se dovesse andare avanti così dovrò ricorrere alla previdenza sociale, e se non dovesse bastare – non so, forse venderò lo studio. Ma qualsiasi cosa succeda non sono preoccupato, i soldi non sono mai stati importanti.»

Museo Civico, Rovereto (13 luglio)
E poi succede una cosa strana. Di fronte al pubblico del Museo Civico di Rovereto, Bill sta parlando di vocazione, di come vorrebbe che la sua scrittura aiutasse le persone e di come allo stesso tempo sia più facile armare una persona che aiutarla, è una cosa tristissima ma è così, e prima o poi bisogna fare i conti con la propria impotenza. Poi però, con la sua voce profonda e un po’ strascicata, da cacciatore di taglie buono, aggiunge: «We can never do enough, but we can aaalways love». È una frase che gli ho già visto scrivere durante un firmacopie. Avevo pensato che fosse carina, un po’ melensa forse, ma tutto sommato calda e semplice come una coperta di lana. Che fa bene, insomma. Solo che adesso non mi lascia scampo. Tutta una galassia di dettagli che ho raccolto parlando con lui negli ultimi tre giorni, e che fino a questo momento mi erano sembrati innocui singolarmente, mi crollano addosso. L’eccezionalità, la bizzarria, la solitudine. La fermezza nel voler aiutare gli altri, l’impossibilità a farlo in un modo diverso dal proprio. Ne sento il peso, sento il peso che ogni giorno Bill porta sulle spalle per essere quello che è e fare quello che fa, un peso che con la scrittura ha scelto di portare anche per gli altri, nonostante tutto, come un Atlante condannato a sostenere il dolore del mondo. E mi commuovo.

Stazione, Brescia (14 luglio 2023)
L’ultima domanda che mi rivolge Bill è spiazzante tanto quanto la prima. Con un piede sul predellino del Frecciarossa mi chiede quanti libri potrebbe contenere la mia borsa, dieci chili? Non sono in grado di rispondere. I treni fischiano e stridono sui binari mentre sono alle prese con una sbronza solenne («Oooh, that grappa was nice and firing!»), e in stazione il venticello porta con sé uno strano odore di letame. Dopo i saluti mi avvio lungo la banchina con la sensazione che potrei non rivederlo mai più, i suoi recapiti sono troppo scarni e farraginosi. E poi chissà, potrebbe finire male in una delle sue gite eccentriche. Un po’ per noia, un po’ per nostalgia, incomincio a riascoltare le interviste che gli ho fatto durante i vari spostamenti e mi rendo conto che sì, è vero: per ogni mia domanda, Mr. How about you me ne ha rivolte due, tre, quattro, cinque.