Cultura | Letteratura

Verso lo Strega: Veronica Raimo

Conversazione con l’autrice di Niente di vero, terza intervista della nostra serie dedicata ai candidati al Premio Strega 2022.

di Alcide Pierantozzi

Chissà se esiste distinzione tra lo scrittore e la sua persona. Per Garboli, ad esempio, i libri di Natalia Ginzburg non erano più funzionali alla conoscenza della Ginzburg di quanto non lo fosse il suo modo di rispondere al telefono, o di salire le scale. Veronica Raimo, nel suo romanzo Niente di vero, prende in esame il palinsesto di una vita (probabilmente la sua, ma poco importa) per smontarlo e ricombinarlo come un testo letterario. E come per ogni testo letterario che si rispetti, il controcanto della verità è sempre il rifiuto della verità. In queste pagine c’è il contingente di una famiglia di cui il lettore si innamora subito, c’è l’euforia dell’adolescenza, ci sono il sesso e l’amicizia. Tutto potrebbe essere vero o inventato e siamo dalla parte opposta del romanzo di formazione, ma anche parecchio lontani dall’autofiction: in un passato rivissuto per sovrapposizioni e frammenti, molti eventi centrali come la violenza e il lutto sembrano affiorare da una quinta enigmatica, mentre in primo piano avviene il disoccultamento di altre vicende luminose e ambivalenti come parabole, che sembrano essere state salvate un istante prima della loro scomparsa.

Quella della scrittrice protagonista è una voce che non scandaglia mai per intero i propri ricordi, ma capta particolari e sfumature sempre inediti e sorprendenti, come se per chi narra il confronto non fosse tanto con i propri ricordi personali, ma col senso stesso del ricordare. Tutti, in fondo, tentiamo di modificare la cifra della nostra esistenza riscrivendola spesso a parole, quando ci raccontiamo agli altri, evidenziamo alcune tracce e ne seppelliamo altre. Ma Veronica Raimo è una scrittrice più vicina a Ingeborg Bachmann che al Saramago de Le piccole memorie, e la sua scrittura mette in discussione ogni mitologia sull’interiorità, ogni residuo senso del pudore e ogni retorica psicanalitica. Ne affiora un romanzo dalla nudità devastante, in grado di aprirsi alla comicità e al rimpianto, alla sensualità e agli umori del corpo, alla spietatezza e all’angelicità di uno sguardo che non si lascia imbrigliare da nessuna rete e ci fa dire: ma davvero questa cosa si poteva raccontare così?

A pochi mesi dalla finale del premio Strega, cui il libro è candidato, le abbiamo chiesto di raccontarci com’è nato Niente di vero e come sta vivendo il suo grande successo.

So che ti piace scrivere in luoghi particolarmente caotici.
Se sono in un ambiente molesto riesco ad alienarmi, che è diverso dal concentrarsi, e al tempo stesso rimango ricettiva su quello che accade intorno. Può capitare che una frase detta da qualcuno o un elemento qualsiasi del contesto finiscano nella pagina o inneschino un ragionamento che mi serve per la scrittura.

Aspetti l’imprevisto?
Ho bisogno che succedano delle cose, anche stupide, banalissime, ripetitive (di solito è così), ma devo sentirmi esposta a questa intrusione minima del reale e a una possibilità dell’inatteso. Se sono dentro una stanza, da sola, nel silenzio, nell’ordine, se ho già il controllo di tutto, non posso aspettarmi niente e quindi non riesco a scrivere.

Quindi non ascolti musica?
Quando lavoro no, proprio perché mi piace scrivere fuori, al bar, circondata da persone. Ho bisogno di una distrazione più diffusa, e la musica non è quel tipo di distrazione.

Te lo chiedo perché so che la musica ha avuto un ruolo consistente nella tua vita. Te ne sei occupata e ne hai scritto.
Mi capita di ascoltarla quando traduco, ma lì in generale non sopporto niente che abbia un testo, altrimenti mi fisso sulle parole e non riesco a lavorare. In realtà è uno dei periodi in cui ascolto meno musica in assoluto, non so nemmeno bene perché. Di sicuro scopro meno cose di prima, e le cerco meno. Mi sono mancati tantissimo i concerti durante il lockdown, ero convinta fosse la mancanza più forte di tutte, ma ora che si torna a suonare dal vivo, praticamente non vado mai a sentire nessuno.

Ultimo concerto?
Sono andata lo scorso dicembre al Fanfulla a sentire Blak Saagan e, per quanto l’esperienza in sé non sia stata esaltante, mi capita di risentirlo abbastanza spesso perché è stato appunto uno dei pochissimi concerti visti di recente. Poi al momento sto ascoltando l’ultimo disco di Aldous Harding: bello…

A proposito di bar, nel tuo libro la protagonista a un certo punto incontra un barista che scrive poesie, c’è un’attrazione reciproca ma lui comincia a ignorarla quando scopre che è una scrittrice pubblicata. Esistono ancora figure così anni ’70, direi, un po’ alla Detective selvaggi, che rifiutano il mercato considerando “venduto” chiunque vi si avvicini?
Di sicuro ne ho incontrati parecchi pieni di rancore, per cui questa esclusione dal mondo editoriale non era esattamente una scelta. Però certo, magari non avevano vent’anni.

La protagonista ne sembra attratta.
Sì, sicuramente la protagonista è attratta da questo aspetto, che per semplificare chiamerei bohéme, come ne sono attratta io, ho ancora totalmente quel tipo di fascinazione, la cerco nelle persone che mi attraggono, nei posti che frequento o nei baretti di elezione. È una fascinazione sia etica che estetica, anche se può sembrare una posa; ma per dire, dovendo scegliere tra un cocktail party e una festa sfasciona di debosciati non avrei dubbi su cosa scegliere. Per tanti anni Withnail and I è stato il mio film feticcio, e ogni volta che arrivava la fine e “I” si vestiva bene perché aveva ottenuto la parte e quindi doveva assumere la responsabilità di essere un attore per davvero, io stavo malissimo, mi prendeva il magone, la sentivo quella sofferenza. E la sento ancora come forma di nostalgia per un’età indefinita della vita, non è soltanto il rimpianto per la giovinezza, è proprio il rimpianto per quella forma di indeterminatezza. L’ho amata molto e la amo ancora.

ⓢ «Nel nostro passato siamo stati qualcun altro», scrive Julian Jaynes ne Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza. Questo, mi pare, sia il punto che nel tuo romanzo porti allo stremo del discorso. Il conflitto non è tra te e i tuoi ricordi personali, ma tra te e il ricordare. La bellezza del libro, la sua novità, sta proprio in questa diffidenza verso il ricordare. Per questo si intitola Niente di vero?
In realtà il titolo di lavorazione era L’età dell’impostura, era il titolo con cui avevo mandato il romanzo in lettura e che non mi dispiaceva. A me sembrava un titolo ironico perché parodiava L’età dell’innocenza, ma a quanto pare ci coglievo solo io questo aspetto ironico. Sia a Einaudi che ad altri sembrava un titolo inutilmente pretenzioso che c’entrava poco con il tono del libro. Poi Niente di vero è venuto fuori in una telefonata con Marco Rossari in cui cazzeggiavamo su possibili titoli alternativi (eviterei di dire che “facevamo brainstorming”). Insomma, era un titolo che giocava con lo statuto ambiguo della verità romanzesca ma anche con il mio nome/soprannome. Lì per lì mi era sembrato il giusto esito di un cazzeggio e non l’avevo preso molto sul serio, ma il giorno dopo a ripensarci mi sembrava che funzionasse, anzi, mi sembrava proprio un buon titolo.

Di solito i lettori di romanzi hanno la tendenza bipolare a considerare tutto vero e tutto inventato allo stesso tempo. Tu un po’ ci giochi con questa ambiguità.
Oggi nelle presentazioni mi chiedono spesso: “come mai questo titolo?” È ovviamente una domanda che si può fare su qualsiasi titolo, e si possono costruire e inventare narrazioni a riguardo, che non sono di per sé falsificazioni, perché – come accade quasi sempre – tutto quello che avviene dopo la pubblicazione comunque si trasforma in una storia a sé, si scoprono cose, si riflette sul processo che ha portato a quel libro (o a quel titolo). Sono molto d’accordo su quello che dici rispetto al fatto che chi legge abbia, o debba avere, la capacità bipolare di pensare che sia tutto vero e che sia tutto inventato, infatti questo titolo sarebbe stato meno sensato se non ci fosse dietro anche il riferimento al mio nome.

Sai che lo noto solo adesso?
Affermare che non c’è niente di “Vero”, il mio soprannome, aumenta il livello di indeterminatezza e la cosa mi piace. E non c’è niente di me proprio per quello di cui parlavi: perché siamo stati qualcun altro.

Qual è stato il tuo rapporto con la narrativa di autofiction? Da lettrice ti interessava? Non mi riferisco alle autobiografie dichiarate, ma a tutto quello che è successo in Italia da Troppi paradisi in poi…
Direi che sono successe cose anche prima di Troppi paradisi. Troppi paradisi è un libro che ho letto più di una volta e che considero importante, ma non lo vedo come uno spartiacque o un libro fondativo di un genere. Certo, c’è quella frase, «Mi chiamo Walter Siti, come tutti», che ha l’aura di uno statement, e lo è a tutti gli effetti; in più è un incipit formidabile. Ma l’autofiction ovviamente esisteva prima di Siti e comunque è una categoria talmente inclusiva e porosa che al suo interno ci sono esperimenti che mi interessano e altri no, o più banalmente libri che ho amato e libri che non ho amato. Come nel caso di Siti, mi interessa quando la scrittura prova a interrogarsi sui meccanismi che riguardano il mezzo stesso, anche senza un dispositivo apertamente meta-letterario.

Qualche esempio?
Amo il lavoro che ha fatto Chris Kraus in I love Dick o anche J.M. Coetzee in Tempo d’estate, per fare due esempi molto diversi tra loro. In generale è una cosa che amo in tutte le forme espressive, al di là del fatto che ci si trovi all’interno di un modello da autofiction. L’affabulazione in sé, gli scrittori e le scrittrici che sono interessati alla costruzione della trama, dei personaggi, che fanno le loro ricerche per avere tutti questi elementi già preordinati prima di cominciare a scrivere, mi affascinano meno. Insomma, non sono sedotta dalle forme di narrazione dove deve sparire tutto affinché rimanga questa sorta di “incanto” della letteratura. Persino per quanto riguarda la fantascienza è così, non me ne frega niente di essere trasportata in un altro mondo, voglio vedere che cosa ha fatto l’autore o l’autrice. Non cerco una forma di magia nei libri, ma proprio il contrario. A maggior ragione questo vale nell’autofiction: quando sento che chi scrive sta utilizzando i mezzi affabulatori dell’empatia invece che la sua forma di conflittualità rispetto al mezzo che usa, sento una forma di imbonimento, e perdo interesse. Cioè, a quel punto preferirei piuttosto essere raggirata.

Però il tuo mi è parso un “libro d’anima”, per dirla con Cristina Campo. Non mi sono soffermato neppure un secondo a riflettere sulla sua struttura. Ti leggo come se leggessi una lettera indirizzata a un dio, e non a un amico.
Ma infatti quello che intendevo non è la presenza esplicita di una dimensione “meta” (mi rendo conto che forse oggi non si può più usare questo termine senza che sembri sinistramente connotato) o di un ingranaggio postmoderno. Anzi, in questo senso, a me sembra che tanta letteratura americana degli anni Novanta, che ci era sembrata rivoluzionaria e virtuosissima, sia invecchiata male.

Quindi cosa intendi per un “meta” non esplicitato?
Ecco, ho la sensazione che alcuni scrittori e scrittrici allestiscano un romanzo come fosse una sorta di teatro delle meraviglie, e questa cosa mi allontana. Quando vedo che preparano i loro personaggetti, li pettinano, li vestono di tutto punto e gli dicono di fare ciao con la manina, non è che smanio così tanto dalla voglia di conoscerli. È come se li vedessi fin troppo organici al loro mondo di finzione, elementi di un rendering che acquista valore in conformità allo scopo per il quale è stato progettato.

Cosa ti aspetti invece da chi scrive?
Mi aspetto sempre una condizione esistenziale di dubbio nel tentare di fare qualcosa, e visto che tu hai tirato fuori termini religiosi, per me questa condizione di dubbio permette un’anima, anche se non so se per anima intendiamo la stessa cosa. La latenza di questo dubbio riverbera nelle pagine e crea un territorio lacunoso, crea dei vuoti e quindi un movimento, scongiura l’organicità statica di quel rendering. Possono sembrare termini opposti: rendering e magia, ma in realtà sono molto simili, implicano comunque l’adesione a un sistema, a un universo di per sé armonico. Qualche giorno fa presentavo il libro di Vincenzo Latronico, Le perfezioni, e lui faceva una riflessione interessante a proposito di una specificità del mezzo letterario: quella di poter al tempo stesso sovradeterminare e sottodeterminare. Mi sembra un buon modo di porre la questione. In questo orizzonte di possibilità tra sovra e sotto-determinazione si ha tutto lo spazio di sperimentare con la scrittura, e mi rendo conto che negli ultimi anni ho provato a muovermi in quello spazio.

Il libro fa anche molto ridere, ma è come se non volesse far ridere. Era una tua idea sin dall’inizio quella di usare un registro così corrosivo (non lo definirei ironico) o ti ci sei ritrovata per caso?
Direi entrambe le cose. Il libro è nato tautologicamente dall’inizio. Mi succede sempre così, scrivo una frase che poi resta l’incipit, non so quasi mai cosa sto per scrivere, non ho in mente una storia, un progetto, ma è come se sapessi che quella frase lì mi porterà da qualche parte. E l’incipit aveva questo registro tra il comico e il grottesco: «Mio fratello muore tante volte al mese». Ho scritto quelle che poi sarebbero rimaste le prime pagine del libro, e il tono era quello lì. In un certo senso ero sorpresa, ma poi mi sono resa conto che negli ultimi anni mi era capitato spesso di scrivere pezzi con un registro più comico o satirico, in generale erano pezzi o di non-fiction o monologhi per il teatro. Alcuni di quei pezzi sono confluiti nel romanzo. Il distanziamento che mi dava da un lato la non-fiction e dall’altro il fatto di avere un’interprete che interpretasse i monologhi (perché erano pensati per un’attrice) mi permetteva di sperimentare in questo senso, forse mi sentivo più protetta, più schermata, non lo so.

Una componente ironica, comunque, c’è stata in ogni tuo libro…
Sì, anche in Miden ad esempio, ed è una cosa che non è mai venuta fuori tanto, anzi a memoria direi che solo Clara Miranda Scherfig mi aveva fatto delle domande a riguardo in un’intervista, quindi gliene sono molto grata.

Il tuo non è un libro rassicurante, non è incasellabile nemmeno “politicamente”, direi, e soprattutto rifiuta ogni genere di ghettizzazione culturale (femminismo, comunità queer, luoghi comuni sul passaggio dall’infanzia all’età adulta). È un libro così tuo che chi lo apprezza è come se ti dicesse: mi piaci tu, mi piace il tuo modo di abitare questa Terra. Te lo aspettavi che sarebbe piaciuto così tanto?
No, non me lo aspettavo, ed è una cosa che è successa da subito, il libro è immediatamente uscito fuori dalla cosiddetta “bolla”, quella che al tempo stesso ci conforta e ci crea frustrazione. Ma non so perché sia successo. Non avendo Instagram, ad esempio, non avevo idea di quanto quel canale seguisse traiettorie sue innescando il passaparola che tutti gli scrittori e le scrittrici si augurano. In un certo senso, questo libro è percepito come un esordio, e ovviamente sono felice che stia andando bene, ma un po’ mi deprime pure visto che è il mio quarto romanzo e ora ho la sensazione che la mia identità letteraria sia molto schiacciata su Niente di vero. Però non so rispondere alla tua domanda, e penso anche che non voglio trovare una risposta e nemmeno cercarla troppo perché temo che finirebbe per condizionarmi, cioè mi metterebbe nella condizione di dover ripetere una formula. Ecco, una cosa del genere mi angoscerebbe parecchio. Quindi non voglio saperlo fino in fondo perché questo libro stia piacendo più degli altri.