Cultura | Coronavirus

La guerra delle parole

Perché è sempre più difficile trovare corrispondenze tra realtà e linguaggio, specie dopo la pandemia.

di Andrea Beltrama

Mika Baumeister via Unsplash

Il rapporto tra parole e realtà ci affascina da sempre. Cosa c’è dietro i nomi che diamo alle cose? Cosa cambierebbe se chiamassimo la stessa cosa in un modo diverso? Sarebbe veramente la stessa cosa? Dai Greci agli Scolastici Medievali, da Shakespeare a Umberto Eco, domande del genere si sono incarnate profondamente nel pensiero scientifico e letterario, articolandosi in una complessa rete di posizioni. Come il realismo di Giulietta, secondo cui una rosa (e pure Romeo) continuerebbe a essere tale anche se venisse chiamata con qualsiasi altro nome, in linea con una visione in cui i nomi sono delle inerti etichette che vengono appiccicate a una indipendente. Oppure la fluidità della teoria dei giochi linguistici di Wittgenstein, secondo cui le parole, attraverso l’uso che ne facciamo, contribuiscono a ridefinire e ri-trasformare la realtà e la nostra esperienza di essa. Una posizione che ha profondamente ispirato le scienze umanistiche e sociali nel ventesimo secolo, e pure l’operato di decine e decine di agenzie di marketing.

Pur tramandandosi da secoli, la questione ha assunto negli ultimi mesi una forza d’urto inedita. Rompendo i confini delle dispute accademiche – tanto fondamentali quanto fini a sé stesse – e trasformandosi in pervasiva preoccupazione quotidiana. Effetto inevitabile della pandemia, che ci rovesciato addosso una quantità infinita di cose mai viste prima, e che necessitavano urgentemente di un battesimo – a partire dal Coronavirus stesso. Le prime avvisaglie si sono viste a marzo del 2020. In settimane dominate da panico e incredulità, Donald Trump usò una conferenza stampa alla Casa Bianca per dichiararsi pronto a sconfiggere il Chinese Virus – un plateale atto di ri-denominazione immortalato in una storica immagine da un fotografo del Washington Post, che catturò lo scarabocchio cui il termine vecchio veniva sostituito da quello nuovo sui fogli del discorso. Quel modo di riferirsi al Covid – come il meno famoso ma altrettanto sconcertante kung-flu – era ovviamente molto più di una vuota etichetta. Riusciva a essere al tempo stesso uno scaricamento di responsabilità sulle spalle altrui; una strizzata d’occhio al becero patriottismo dell’elettorato; e un gesto razzista nemmeno troppo implicito, diventato poi simbolo dell’inerme reazione alla pandemia del governo Trump.

Da quel momento in poi, trovare nomi per riferirsi alla realtà è diventato un grattacapo quotidiano, intensificatosi ulteriormente con l’avvento dei vaccini. Il primo è stato Astrazeneca, il cui nome è ufficialmente stato cambiato con Vaxzevria alla fine del marzo scorso. Un gesto che a molti è sembrato una mossa della disperazione per reagire alla nota bufera che ha accompagnato la campagna per la vaccinazione, ma che la casa farmaceutica ha definito “importante a livello di comunicazione”, specificando però che la “formula del vaccino rimane invariata”. Una strizzata d’occhio al realismo di Giulietta, oltre che un involontario tributo alla celebre dottrina del filosofo del linguaggio Hilary Putnam. Quella secondo cui, su un’ipotetica Terra Gemella con un liquido apparentemente identico all’acqua terrestre ma con formula chimica XYZ invece che H2O, il termine “acqua” avrebbe a tutti gli effetti un significato diverso da quello che ha sulla Terra originale. Poi è arrivata Pfizer con il nome “Comirnaty”, scelto con l’intento di comunicare simultaneamente un riferimento alla tecnologia mRNA usata dal vaccino, oltre che alle parole “immunity” e “community”. Una decisione che ha attirato diverse critiche, dettagliate in una ricca analisi da Lisa Davidson, professoressa di linguistica alla New York University: scarsa immediatezza; ortografia complessa; e soprattutto una sequenza di suoni molto rara in inglese, che potrebbe spingere molti a percepire il nome come qualcosa di estraneo alla lingua, e minarne dunque la credibilità.

L’avvento della pandemia ci ha pure costretto a rivisitare appellativi che davamo per scontati, e si sono ritrovati, loro malgrado, al centro di associazioni impreviste. Come quella della birra Corona, classica icona di sogni tropicali a stampo messicano che, secondo un recente sondaggio, un americano su tre si è dichiarato determinato a non comprare più. O la variante Delta, il cui nome è identico a quello della nota compagnia aerea con sede ad Atlanta, negli Usa. E infatti, a partire dal CEO Ed Bastian, in tutta la comunicazione interna all’azienda si fa riferimento alla variante come “B.1.617.2”, un appellativo che un dirigente ha scherzosamente definito «più semplice da ricordare». Pur diversi, sono entrambi casi che svelano bene il tremendo potere evocativo dei nomi, e dunque anche la straordinaria instabilità delle associazioni che si portano dietro. Un problema evidentemente importante per chi deve vendere un prodotto, ma che pone anche serie questioni etiche quando apre il campo a possibili atti di discriminazione. Esattamente il motivo che aveva portato l’OMS a usare le lettere dell’alfabeto greco per riferirsi alle varianti, invece del paese d’origine.

Preoccupazioni simili sono anche quelle che portano ciclicamente a rivedere certi registri istituzionali, sovvertendo formule ormai cristallizzate in nome di una maggiore sensibilità verso i soggetti coinvolti. Come la sostituzione di spazzino come operatore ecologico in Italiano, fattasi progressivamente strada negli anni ’90. Oppure la proposta del governo di Biden di usare il termine non-citizen al posto del terrificante alien per riferirsi a chi non è in possesso del passaporto americano, eliminando una perversione linguistica che è ben nota a chiunque si sia trovato a fare i conti con le leggi di immigrazione negli Stati Uniti. Dove persino chi ha la fortuna di entrare nel paese con una green card, uno status secondo solo alla cittadinanza, alla dogana dell’aeroporto si trova il passaporto stampato con il timbro ARC – Alien Resident Card – quasi fosse un extraterrestre appena sbarcato su un pianeta non proprio. Eppure, se sostituire il termine potrebbe indubbiamente aiutare a ridurre i toni antagonistici della norma, iniziative di questo genere corrono sempre il rischio di essere bollate come puramente ornamentali. Se non addirittura ipocrite, in casi in cui non vengano accompagnate da revisioni più sostanziali delle leggi. Una logica spesso usata da chi oppone resistenza a questi cambiamenti in nome della lotta al politicamente corretto.

Una serie di casi di studio che, pur aumentando la confusione di un’epoca già altamente caotica, ci ha messo di fronte alla complessità che si cela dietro alla questione. Facendoci toccare con mano l’antica tensione dialettica tra due elementi che rendono il linguaggio un oggetto così affascinante, e per certi versi misterioso: da una parte, l’intuizione che là fuori esista una realtà a sé stante, la cui esistenza è indipendente dal modo in cui la descriviamo; all’altra, la constatazione che i nomi delle cose non sono quasi mai semplici etichette, ma gesti sociali veri e propri. Che guidano il modo in cui interpretiamo il mondo, e senza i quali sarebbe molto difficile concepirlo.