Ben 13 secondi di video che anticipano la terza stagione, in arrivo nel mese di aprile, in cui si vedono tutti i protagonisti e le protagoniste.
È un libro per certi versi timido, L’uso della foto. Il soggetto di cui si parla sembra sempre altrove, come se volesse negarsi all’obiettivo che cerca di catturarlo, alla penna che si avvicina a descriverlo ma poi non affonda, devia, prende altre strade.
Pubblicato lo scorso mese da L’Orma Editore con traduzione di Lorenzo Flabbi, L’uso della foto è in realtà un libro di vent’anni fa che l’autrice premio Nobel Annie Ernaux ha scritto insieme al giornalista Marc Marie, suo amante per alcuni mesi. È composto da quattordici fotografie scattate fra il marzo del 2003 e il gennaio del 2004, immagini che testimoniano quel che resta dell’amore quando l’amore è stato consumato, la fragile tenerezza degli abiti abbandonati sul pavimento e delle stanze disordinate, buttate all’aria, che nessuno si preoccupa di tenere in ordine quando c’è una passione che divampa, e reclama spazio. «Mi capitava spesso», scrive Ernaux in apertura, «sin dall’inizio della nostra relazione, di restare affascinata nel ritrovare al mattino la tavola non sparecchiata della sera prima, le sedie spostate, i vestiti aggrovigliati, buttati a terra alla rinfusa nel fare l’amore. Il paesaggio era ogni volta diverso. Doverlo distruggere, quando ognuno raccoglieva le proprie cose, mi stringeva il cuore. Avevo l’impressione di cancellare l’unica traccia oggettiva del nostro piacere».
Un racconto cristallizzato
Nella poetica di Ernaux la scrittura è un tentativo di illuminare il passato e offrirgli un senso nuovo. Tutti i suoi lavori sono autobiografici, molti si concentrano sugli anni della giovinezza e sono stati scritti a decenni di distanza dai fatti narrati, ma qui manca un elemento cardine: non c’è il filtro della memoria. L’uso della foto è stato scritto in presa diretta, spinto più dall’urgenza di cristallizzare il presente che dal desiderio di osservare con sguardo inedito, ermeneutico, i fatti già trascorsi.
Ciascuna delle quattordici immagini – una selezione operata su una quarantina di fotografie – è corredata da una descrizione di Ernaux e una di Marie, che raccontano cos’è accaduto subito prima e subito dopo, il contesto in cui è stata scattata, le stanze d’albergo, i ristoranti dove avevano appena cenato o la scomodità di certi stivaletti difficili da slacciare, che arrivano a ricordare le loro infanzie, le famiglie d’origine, i grandi magazzini dove era stato acquistato, coi saldi, un reggiseno di pizzo colorato.
L’uso della foto è anche, di fatto, un gioco tra amanti: Ernaux e Marie scrivevano da soli, senza far leggere nulla all’altro e domandandosi spesso “Cosa starà scrivendo di me?”. Colgono elementi differenti della medesima scena, e nel tentativo di comporre un’opera unitaria non fanno che esplicitare la distanza irriducibile che sempre resiste fra due esseri umani, anche quando a unirli c’è una passione sbocciata da poco.
Libri politici e discreti
Ernaux ha esplorato spesso il sentimento amoroso. In Passione semplice, Un ragazzo, Perdersi, che a differenza di L’uso della foto non sono affatto libri timidi, Ernaux ausculta i palpiti del proprio cuore, ogni minima angoscia o effimero entusiasmo, e squaderna sotto gli occhi dei lettori la propria radiografia emotiva. Qui, invece, di sentimenti non si parla quasi mai – solo alcuni accenni alla ex compagna di lui, qualche vaga gelosia, niente di più. Questo è un libro che parla di corpi – e noi possiamo solo immaginarli, avviluppati e felici nella cornice esclusa dall’inquadratura, mentre fanno l’amore, perché di fatto non si mostrano mai. Neanche una mano, neppure la rotondità di un fianco. Al loro posto, solo gli indumenti che portano ancora le impronte di chi li abitava poco prima. I vestitini leggeri di lei, o i pantaloni di tessuto grezzo di lui, sono i testimoni più fedeli del momento in cui i corpi, vivi e appassionati, sono esplosi di desiderio: è successo davvero, sembrano dirci le fotografie, questo è quello che resta.
Quei reggiseni svuotati che compaiono spesso in primo piano, all’apice della montagnetta di abiti, rimandano però al vero, nascosto, protagonista del libro: il cancro. Mentre Ernaux scrive, fotografa e si gode la sua storia d’amore con Marie, è infatti in cura per un tumore al seno. Quando i due escono a cena per la prima volta lei glielo dice subito, come se volesse testare la tenuta del suo desiderio, che dovrà essere più forte di tutto, anche del timore della morte. «Ho un cancro», gli dice, e, subito dopo, «Vorrei andare a Venezia con te».

Non c’è retorica nel modo in cui Ernaux e Marie parlano della malattia: «Ti sei fatta venire il cancro solo per poterne scrivere», le dice lui. Il corpo malato non viene taciuto, né edulcorato, si racconta per quello che è: interamente glabro, dall’incarnato cereo, il capo protetto da una parrucca, attraversato da un sistema di tubi e sacche per la chemio, marchiato da un catetere sotto la clavicola, il capezzolo bruciato dalla radioterapia.
Credo che l’aspetto più potente della scrittura di Ernaux sia il fatto di essere profondamente politica senza mai dichiararlo, senza redigere manifesti. È così nella Donna gelata, che di fatto è un’introduzione al femminismo, in Memorie di ragazza, dove si tematizza il consenso, nell’Evento, dove il diritto all’aborto diventa battaglia sociale e di genere, in Una donna e Il posto, che dietro ai racconti sui genitori nascondono una profonda riflessione sull’identità di classe. Nell’Uso della foto è il corpo malato a prendersi lo spazio, un corpo femminile che, segnato dalla malattia ma anche dall’età – quando scrive, Ernaux ha sessantatré anni –, reclama il proprio desiderio, il proprio piacere, con la medesima sicura pacatezza con cui rivendicherebbe l’ossigeno per respirare, o il cibo di cui nutrirsi. Non fa mai chiasso, la scrittura di Ernaux, ma è raro che indietreggi. «In Francia», scrive, «l’11 per cento delle donne ha avuto o ha un cancro al seno. Più di tre milioni di donne. Tre milioni di seni suturati, scannerizzati, marcati da disegni rossi e blu, irradiati, ricostruiti, nascosti sotto camicette e t-shirt, invisibili. Bisognerà pure osare mostrarli un giorno, in effetti. [Scrivere del mio, fa parte di questo svelamento]».
La fotografia come testimonianza
Per André Bazin la fotografia nasce dall’esigenza di sottrarre la vita alla morte conservandone una testimonianza, una traccia luminosa su pellicola che resista allo scorrere del tempo: questa cosa è successa, dicono le fotografie, questa persona è esistita su questa terra. Roland Barthes, dopo di lui, ha invece esplicitato il paradosso intrinseco al medium fotografico. Se da un lato certifica l’esistenza dell’oggetto immortalato, dall’altro rappresenta la prova irrefutabile che quel momento è andato, perduto per sempre, in fin dei conti anch’esso defunto: «Ciò che la fotografia riproduce all’infinito è un evento che non si ripeterà mai più». Ogni scatto è perciò anche un memento mori: attesta la presenza di un pezzo di realtà che porta dentro di sé le condizioni della sua stessa mortalità, che presto o tardi si farà assenza e figura fantasmatica. «È come una perdita che stia guadagnando velocità», scrive Ernaux, «Invece di frenarla, la moltiplicazione delle immagini dà la sensazione di scavarne ancora di più il vuoto».
Nell’Uso della foto l’autrice, con la complicità del suo amante, intreccia un dialogo con la morte – che non si può scrivere, né fotografare – a partire dalla posizione liminare del suo corpo malato e desiderante, che si nega all’obiettivo ed è combattuto tra due istanze: da un lato il pensiero stesso della morte, dall’altro il richiamo inesorabile del piacere. Fra i due, lo spazio della vita che ancora rimane, e che si fa arte: «Se, in una forma o in un’altra, l’ombra del nulla non aleggia sulla scrittura, allora non c’è niente che possa valere davvero all’uso dei viventi».
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