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I vent’anni di The Wire, il grande romanzo americano

Il 2 giugno del 2002 Hbo trasmetteva l’episodio pilota di una serie che all’epoca non ottenne nessun successo e che nel futuro avrebbe cambiato per sempre la storia della tv.

di Francesco Gerardi

Ogni volta che rivedo The Wire dall’inizio alla fine mi tornano sempre in mente le parole con le quali Preminger descrisse Roma città aperta di Rossellini: «La storia del cinema si divide in due ere: una prima e una dopo Roma città aperta». È intrigante pensare a quanto spesso un cambio di paradigma nella storia delle arti sia portato da opere che parlano di guerra: Roma città aperta nel cinema, Maus nel fumetto, L’arcobaleno della gravità in letteratura, Guernica nell’arte figurativa, e ovviamente The Wire, che in tv ha portato la war on drugs americana. Ieri la serie di David Simon ed Ed Burns ha compiuto vent’anni: l’episodio pilota veniva trasmesso il 2 giugno del 2002 su Hbo, seguito da pochissime persone, come d’altronde i successivi cinquantanove.

Alla fine della prima stagione della serie, in molti cercarono le ragioni dell’insuccesso, increduli di fronte al fatto che un’opera d’arte dovesse affidare le sue speranze di sopravvivenza agli appelli a mezzo stampa dei critici e alle petizioni on e offline dei fan. Alcuni queste ragioni le trovarono in una supposta scarsa rappresentatività: un giornalista del Baltimore Sun (David Simon) che assieme a un agente della polizia di Baltimora (Ed Burns) si mette a raccontare i bassifondi squallidi e violenti e tragici ed eroici della città che all’epoca aveva il più alto tasso di omicidi degli Stati Uniti d’America. E, come se non bastasse, questa storia la raccontano usando un vernacolo locale (il bawlmore accent) incomprensibile al di fuori delle strade in cui si muovono i suoi protagonisti. Internet all’epoca non era ancora quella forza capace di trasformare una serie di nicchia come Succession in un fenomeno pop grazie all’insistenza del passaparola. Chi di tv scriveva parlava di The Wire come l’ultimo erede di tutte le tradizioni letterarie americane: Simon e Burns facevano parlare i loro personaggi come li avrebbe fatti parlare Twain se quest’ultimo avesse fatto lo sceneggiatore per la tv. Raccontavano il fronte di una guerra come avrebbe fatto Hemingway se i suoi dispacci li avesse inviati dalle case popolari di Baltimora. Trattavano i conflitti sociali come avrebbe fatto Steinbeck se lo scrittore avesse deciso di dedicarsi all’eroina del Maryland invece che alle arance della California. Hanno messo assieme Traffic di Soderbergh e Nypd Blue di Bochco e Milch, portando entrambi oltre i loro limiti. Nulla di tutto questo servì e mentre andava in onda The Wire, per moltissimi, rimase l’ennesima serie di poliziotti bianchi che danno la caccia a criminali neri. Negli anni, per Simon la cosa è diventata una specie di barzelletta. Nel 2018 New York Review gli dedicò un profilo in cui lo si descriveva come «the guy who wouldn’t write a hit». Lui alla fine al successo di pubblico ci ha rinunciato (il suo rapporto con il pubblico negli anni non ha fatto altro che peggiorare, ormai ci sono saggi brevi che raccolgono i migliori insulti rivolti a chiunque si azzardi a rompergli i coglioni su Twitter), si è rassegnato a quello postumo. «Il mio fascino è questo, è basato sul fatto che nessuno guarda le cose che faccio mentre vanno in onda».

Tra i pochi che guardarono la serie mentre andava in onda c’era un senatore dell’Illinois di nome Barack Obama. Il futuro Presidente si è sempre detto fan di The Wire e, quando negli Stati Uniti si è (ri)cominciato a parlare di police brutality, di defund the police e di black lives matter, insistette con il suo staff per organizzare un’intervista con David Simon. Un’intervista in cui era lui, Barack Obama, il Presidente degli Stati Uniti d’America, a fare domande a David Simon, ex giornalista e sceneggiatore tv, su una possibile riforma delle forze dell’ordine americane. «Penso che non sia solo uno dei migliori show televisivi, ma una tra le più importanti opere d’arte degli ultimi vent’anni», così Obama cominciò l’intervista. Come tutti, anche lui aveva un personaggio preferito e come tutti anche il suo era Omar Little: «Voglio dire, quel tipo è incredibile, no?» («temevo mi avrebbe risposto così», fu il commento di Simon). È quasi inevitabile che la risposta sia questa: Omar rappresenta tutto ciò che ha reso The Wire una cosa diversa e speciale. Era un personaggio di finzione basato su una persona vera, lo stick up artist Donnie Andrews, una vita passata a derubare i trafficanti di droga e 17 anni trascorsi in carcere per, tra le altre cose, omicidio. Una storia vera che The Wire trasformò, romanzandola, in epopea, grazie a dialoghi tarantiniani e interpretazioni irripetibili. Michael Kenneth Williams, che a Omar regalò un volto sfregiato e tragico, è l’attore al quale si pensa sempre quando si parla della serie (ma provate a immaginare anche la carriera di Idris Elba senza Stringer Bell o di Michael B. Jordan senza Wallace). Succede adesso ancora più di prima, per via di come Williams ha vissuto e, soprattutto, di come è morto. Dopo la notizia della sua scomparsa, Simon scrisse un pezzo per il New York Times in cui diceva che l’attore, all’inizio delle riprese di tutte le stagioni di The Wire, gli ripeteva sempre la stessa domanda: «Ma cosa lo facciamo a fare?», gli chiedeva, frustrato dall’indifferenza e dall’insuccesso.

The Wire non è mai stata denuncia: cronaca, indagine, reportage, nostalgia, esperimento sì, ma mai denuncia. È per questo che è stata una delle serie più “accademiche” della storia della tv: a Harvard ci costruirono attorno un corso sulla urban inequality, l’università di Paris-Nanterre la scelse per aiutare gli studenti ad acquisire un «punto di vista critico sulla vita urbana negli Stati Uniti». E in effetti The Wire ha sempre avuto un approccio alla materia quasi scientifico, nonostante in questi venti anni sia arrivata a essere uno dei candidati al titolo di Grande Romanzo Americano. Simon si è sempre arrabbiato moltissimo con quelli che dicevano che la sua era una serie “difficile” e “fredda”. Ma che altri aggettivi si potevano usare per descriverne certe parti? The Wire è davvero una serie difficile, da certi punti di vista persino pedante. Costruisce intere stagioni sulla logistica dello spaccio di droga, sulla tecnologia delle intercettazioni telefoniche, sui software usati nel carico-scarico merci dai portuali, sulle storture burocratiche dei distretti scolastici e sulle perversioni populiste della media culture. C’è un’intera scena in uno dei suoi episodi più belli in cui un vecchio giornalista spiega a una giovane collega perché è sbagliato scrivere che durante un incendio in un condominio i pompieri hanno evacuato tutti gli inquilini: si evacuano gli edifici, non le persone. The Wire è una serie difficile, costruita sui dettagli e su tutto ciò che consegue: impegno, dedizione, attenzione, accumulo, stratificazione. Una serie “vecchia” nei suoi meccanismi narrativi, fondata sul piacere centellinato dell’episodio settimanale e della ricompensa finale. I fan della prima ora di The Wire condividevano questa consapevolezza: la gioia della visione di questa serie veniva dalla certezza che alla fine della fatica, ma solo alla fine, avrebbero capito tutto. Gioito di tutto. Non per niente, una delle cose per le quali la serie è ricordata sono i (meravigliosi) montaggi musicali che chiudevano ogni stagione.

In questi vent’anni, The Wire ha esercitato un’influenza che è andata oltre il tempo, lo spazio e i generi. Un film come Sicario non sarebbe mai esistito senza la serie di Simon e Burns. Sollima non si sarebbe mai messo a scrivere Gomorra senza il precedente americano. Kendrick Lamar non avrebbe mai potuto istituzionalizzare la poetica del ghetto senza aver prima visto quel divano arancione abbandonato al centro di una piazzetta tra le case popolari di Baltimora. Nel 2010, Jon Gnarr fu eletto a sorpresa sindaco di Reykjavík e nella sua prima intervista dopo la vittoria si mise a spiegare perché «It’s all in the game» era la sua citazione preferita. Nel 2011, su El Pais Mario Vargas Llosa ha scritto che quello che ha visto in The Wire «no lo había visto nunca en una serie de televisión». Nel 2012 Slavoj Žižek ha tenuto una conferenza all’Università di Londra intitolata “The Wire or the clash of civilisations in one country”. Alla fine, quindi, anche se postuma, anche se tardiva, la risposta a quella domanda che Michael Kenneth Williams ripeteva in continuazione a David Simon è arrivata.