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Cosa significano bellezza e bruttezza nell’era di internet?

Una parte sempre maggiore della nostra estetica passa dagli schermi dello smartphone, dai filtri Instagram, dai microtrend TikTok: nell'epoca in cui viviamo circondati dagli schermi, la bellezza si è trasformata in fotogenia.

di Clara Mazzoleni

Ho iniziato a sospettare di essere brutta quando ho acquistato il mio primo iPhone, nel 2017, e ne ho avuto la conferma nel 2020, durante il lockdown. In realtà, avrei potuto capirlo prima, captare dei segnali. Ad esempio il fatto di non piacere ai maschi tanto quanto le mie amiche. Che le mie amiche fossero più belle di me, però, lo sapevo: i capelli, il taglio degli occhi, la bocca, il naso, i denti, il seno, le gambe, i piedi. Le dividevo in frammenti che confrontavo ai miei, e ogni volta la mia situazione si rivelava peggiore: asimmetrie, storture, errori, difetti, forme irregolari, carenza dove avrebbe dovuto esserci abbondanza e viceversa. La realtà, però, mi rassicurava. Il ragazzo con cui stavo mi diceva che ero bellissima e anche mia madre e anche le mie amiche, proprio loro. In più subivo continuamente cat calling, che per me valeva come la versione analogica dei like di un follower sconosciuto. Quindi, pensavo, forse non ero bella come le mie migliori amiche ma di sicuro non potevo considerarmi stabilmente e irrimediabilmente brutta. Poi, nel 2017, ho comprato il mio primo iPhone. Fino a quell’anno avevo vissuto serenamente usando una schifezza di telefono con una fotocamera scadente che faceva foto nebulose e lattiginose, misteriose, bellissime. La fotocamera dell’iPhone, invece, aveva una precisione che mi era sembrata pornografica, trash, i colori sgargianti e le texture troppo definite. Le mie amiche creavano gruppi su WhatsApp e mandavano i loro selfie. Anche io mandavo i miei selfie, per partecipare, ma ogni volta dopo aver condiviso la foto venivo assalita da una sensazione odiosa: nella mia faccia c’era qualcosa di sbagliato. Se qualcuno mi faceva una foto o un video, restavo stupita dalla mia bruttezza: ero davvero così? Se per caso quel qualcuno osava condividerli, gli scrivevo subito pregandolo di cancellare.

La conferma è arrivata con il Covid. Durante le videochiamate di lavoro con i colleghi e le colleghe non potevo fare a meno di notare come la mia faccia fosse l’unica sgradevole da vedere. Quando parlavo con la psicologa non riuscivo più a concentrarmi, scioccata com’ero dalla mia faccia gonfia, dai volumi tutti sbagliati e da come tutto peggiorava mentre parlavo. Anche le riunioni degli alcolisti anonimi erano in videocall. Mia madre e mia sorella continuavano a richiedere selfie. Dopo il primo lockdown da single, mi ritrovai a vagare disperata tra le fotografie di me salvate sul telefono senza riuscire a trovarne di abbastanza decenti da caricare su Tinder. Era una prigione di schermi. «Non sei brutta», mi aveva detto un amico con cui mi ero lamentata, «è che non sei per niente fotogenica». Ma in un mondo in cui l’espressione della propria identità e personalità si basa sulla fotogenia, che differenza c’è tra bruttezza e non-fotogenia? La cosa strana è che se riguardo nell’archivio Instagram le mie Stories dal 2019 in poi, sono piene di selfie. Non sono mai naturali, ma sempre ritoccati dai filtri che si usavano in quegli anni, super creativi, artistici, deliranti, sembravano usciti dai sogni o dagli incubi. Però, mentre ti riempivano la faccia di pesciolini rossi e bollicine o ti creavano delle lacrime di sangue che colavano dagli occhi senza pupille, o riempivano la pelle del viso di tatuaggi tribali super verosimili, gonfiavano le labbra e alzavano gli zigomi. Nel mio caso, la consapevolezza di essere brutta da vedere, in video e in foto, andava di pari passo con la necessità di condividere in continuazione una versione modificata della mia faccia: tra quei filtri pazzoidi, in quel mondo virtuale di fantasia, facevo pace con il mio aspetto, mi piacevo. Li collezionavo avidamente, ma intanto un’immagine di me perfezionata si stampava nel mio cervello, mandando il messaggio subliminale che forse, se avessi corretto qualche difetto, la mia situazione avrebbe potuto migliorare.

Mentre scrivo, da qualche giorno ha iniziato a girare su TikTok un filtro che si chiama Bold Glamour. È il filtro più evoluto mai creato finora: puoi stropicciarti gli occhi, muoverti velocemente, e lui non fa una piega, nemmeno un nanosecondo di glitch o ritardo. Sugli uomini fa dei leggerissimi cambiamenti, sulle donne una full face di make up: rossetto mat, contouring leggero, smokey eye in toni nude ma con matita e mascara nero pesante, sopracciglia perfezionate. Ma non è solo una questione di trucco, ti cambia anche i connotati, in un modo subdolo e quasi impercettibile solleva gli angoli della bocca e degli occhi, rimpolpa gli zigomi e ridefinisce la linea della mascella. Una fotografa, provandolo, avvisa che ogni giorno nel suo studio fotografa donne che quando vedono le loro foto restano inorridite (proprio come me): la colpa, dice lei, è di filtri come questo, che fanno casino col nostro cervello. Il motivo per cui, post-Covid, mi sono ritrovata almeno tre volte all’anno sul lettino di un centro di medicina e chirurgia estetica, non ha niente a che fare con lo specchio: è tutto chiuso nel rettangolo nero con cui condivido quasi tutti i momenti della mia vita.

Due anni dopo lo shock delle videochiamate del lockdown, con la faccia infarcita di filler, mi ritrovo a leggere un articolo di The Cut che si apre con un’immagine di Miss Piggy dei Muppets prima e dopo l’intervento di “Buccal Fat Removal”. Il titolo è “The Big Dissolve. They blew out their faces. Now they’re melting them down”, ma se lo cerchi su Google diventa diabolicamente “How to Get Bella Hadid’s Face: Fillers & Buccal Fat Removal?”. L’articolo parla delle complicazioni dei filler (confermo, ricordando quando il mio filler sotto agli occhi ha improvvisamente assunto vita propria, gonfiandosi, diventando bluastro e spostandosi dove voleva lui) e di come sempre più persone stanno scegliendo di dissolverlo completamente, nonostante l’operazione comporti dei rischi. Lo scopo è ottenere le guance scavate di Bella Hadid e un viso magro e ossuto. L’idea che la sua bellezza sia completamente artificiale (anche se lei ha sempre negato, confessando un unico intervento di rinoplastica a quattordici anni di cui poi si è pentita) non ci dà alcun fastidio, anzi, forse ci rassicura, perché ci fa credere che anche noi potremmo essere belle come lei, basterebbe avere i suoi soldi, il suo chirurgo e fare gli stessi interventi. Kylie Jenner è l’esempio perfetto: chissà quante, come me, hanno trascorso una quantità di tempo eccessiva a guardare le foto del prima e dopo la trasformazione che da bruttina grave l’ha trasformata nella bomba di fotogenia che è oggi. Se non avesse usato la chirurgia e la medicina estetica per stravolgere i suoi connotati la fondatrice dell’impero di cosmetici Kylie Cosmetics by Kylie Jenner non se ne sarebbe fatta niente dei rossetti che vende, le sarebbero stati malissimo.

La trasformazione del make-up è fittizia, momentanea, non ci interessa più: vogliamo risolvere il problema alla radice, non nasconderlo e camuffarlo. Meglio trovare il fondotinta perfetto o rendere la propria pelle perfetta grazie al laser e alla bio rivitalizzazione? Meglio il contouring per creare l’illusione di avere un naso migliore o una rinoplastica? Meglio le creme anti-età o il botox? Chi può permettersi il cambiamento permanente, sceglie quello: come la protagonista del bellissimo libro di Allie Rowbottom, Aestethica, che al cambiamento da fuori preferisce quello da dentro. Bellissima influencer da 100 mila follower, a vent’anni inizia a farsi ritocchi di medicina estetica e interventi chirurgici. A trentacinque anni, completamente rifatta ma ormai evidentemente non più giovane, si reinventa come venditrice di cosmetici. È la prima a snobbarli, però: nella perfetta incarnazione letteraria dell’ironia post internet e del trend descritto da The Cut nell’articolo “The Big Dissolve”, in un momento cruciale della sua vita la protagonista sceglie di ricorrere a Aestethica, un distopico trattamento che durante un solo intervento annulla tutti gli interventi e i ritocchi fatti fino a quel momento, restituendo la paziente all’aspetto che avrebbe avuto se fosse invecchiata in modo naturale. L’artificio più evoluto è il ritorno alla naturalezza: un cerchio che si chiude.

Bella Hadid è l’evoluzione della Instagram Face di Kylie Jenner. Come nel caso di Kylie vogliamo pensare che sia il massimo dell’artificio, ma a differenza di lei sembra naturale: l’ideale estetico è la foto di Bella che mangia la pizza con gli Ugg, i boxer bianchi e il cerchietto coi dentini di plastica. L’ideale è essere così bella che non devi truccati e puoi vestirti liberamente di merda: la perfezione è dare un’idea di trasandatezza, naturalezza, caos. Nel 2023 la “full face” delle Kardashian è imbarazzante come il look di una provinciale che si acchitta per fare un giro in centro la domenica pomeriggio. Il make-up è valido solo se estremo, iper creativo, artsy, come in Euphoria o come quello ironico e auto-ironico di Julia Fox. Le forme seguono il trend: è tornata la magrezza, come conferma la sparizione di due dei culi più ammirati del mondo, quello di Kim Kardashian e quello della stessa Fox. Forse traumatizzati dall’abbondanza di immagini, notizie e contenuti pesanti con cui siamo stati bombardati negli ultimi anni, esasperati dalla complessità della skincare che abbiamo appreso su TikTok e dall’ipertrofismo dell’offerta cosmetica (un nuovo trend di make-up o routine ogni settimana, ogni giorno, ogni minuto), non vogliamo più aggiungere niente (prodotti, protesi, peso), vogliamo soltanto togliere. Togliere il filler, ma anche togliere il grasso, le guance, i difetti da correggere, le ciglia finte. Il sogno è svegliarsi già perfette. Mentre scrivo Selena Gomez, un tempo considerata bellissima, ha dovuto difendersi dal body shaming ricevuto per la sua faccia rotonda e paffuta (anche a causa dei farmaci che prende per il Lupus). La “moon face” è diventata il male: non ci interessa più sembrare delle bambine sexy, siamo tornate a voler apparire come delle tossiche denutrite (ma nessuno pronunci quel termine, “heroin chic”, perché sarebbe come ammettere che la body positivity è stata tutta una farsa).

Se nel 2015 la “duck face” di Kim Kardashian era l’ostentazione gioiosa di posare, adesso c’è il “dissociative pout”, lo sguardo vuoto e perso della dissociazione. La definizione viene dalla recensione di Rachel Syme alla raccolta di saggi del 2019 di Natasha Stagg, Sleeveless, che scriveva «la dissociazione è meglio della disperazione». A pensarci bene, quando Kim si è presentata al Met Gala del 2021 in quel look Balenciaga tutto nero, con la faccia completamente coperta, è come se si fosse auto-cancellata, pronta a riscrivere la sua estetica. Alla base dell’espressione da dissociata e dalla sua evoluzione, lo sguardo maligno del “succubus chic”, c’è l’ironia e il nichilismo. Le labbra abnormi di Chloe Cherry, l’ex attrice porno esplosa grazie al suo ruolo di eroinomane in Euphoria, sono la conferma che il ritocco, così come il make-up, dev’essere o invisibile o esagerato, auto-ironico. Abbiamo archiviato le sopracciglia di Cara Delevigne, il microblading che usavamo per rimpolparle segue il destino del filler, diventerà una pratica desueta, per chi ha pochi soldi o non segue la moda. Per essere interessanti oggi le sopracciglia devono essere sottilissime, anni Novanta (si lavora in levare, anche qui), oppure non esserci (togliere tutto). Non tutti possono permetterselo: le sopracciglia sottili stavano bene a Pamela Anderson e Angelina Jolie negli anni Novanta, a Gabbriette e Amelia Gray oggi (le influencer del “succubus chic”). Le sopracciglia assenti stanno bene a Mia Goth e alle modelle. I trend estetici sono dettati dalle belle e da altre belle vengono seguiti. Perfino Selena Gomez si ritrova a dirlo, come per giustificarsi, e fa tenerezza: «Non sono una modella, non lo sarò mai». I social hanno reso tutto così veloce che vince chi ha il coraggio di essere se stesso: Lana Del Rey, ad esempio, se ne frega del ritorno della magrezza e abbraccia con tranquillità l’aumento di peso degli ultimi anni. Procede indisturbata con i suoi filler, come me. Quando leggerete questo articolo, probabilmente sarà già uscito un nuovo trend chirurgico o estetico (e altrettanti trend di make-up, e altrettanti stili, o meglio, “qualcosa-core”: wednesdaycore, angelcore, devilcore, balletcore, fairycore, goblincore, gothcore, gorpcore, eccetera). In un arco di tempo un po’ più lungo (che immagino andrà accorciandosi sempre più) il Buccal Fat diventerà imbarazzante come adesso inizia a sembrarci il Butt Implant (le protesi per ingigantire il culo). Sogno un futuro in cui a un certo punto questo eccesso di ironia, layer e parole che finiscono in -core esploderà, e si tornerà all’essenza.

Ma qual è l’essenza della bellezza? In Storia della bellezza, Umberto Eco scriveva che la bellezza non è mai stata un concetto assoluto e immutabile ma è sempre mutata a seconda del periodo storico e del luogo, e questo non vale solo per la bellezza fisica femminile, ma anche per la bellezza di Dio e dei santi o per la bellezza come come idea assoluta. Nel 2018 ho aperto un profilo Instagram che si chiamava come un verso della canzone “Face to Face” di Siouxsie And The Banshees che dice: «faccia a faccia, mio amato nemico». Quell’amato nemico è la faccia. Ho accumulato facce belle, mostruose, adorate, deformate, dipinte, mie. Poi il ragazzo che frequentavo ha iniziato a dirmi che sembrava il profilo di una psicopatica, l’ho abbandonato e ora giace su Instagram. @my_lovely_foe non segue nessuno, e i suoi follower continuano a scendere. Ho continuato a postare di tanto in tanto le facce che mi colpivano, l’ultima è del mio gatto. Recentemente, un amico mi ha fatto notare che è un gatto bruttissimo. Io non me n’ero mai accorta, ma da quando me l’ha detto mi sono resa conto che ha ragione: non solo è sproporzionato rispetto agli altri gatti, ma le macchie strane che ha sul muso, troppo lungo, sono distribuite male e lo fanno sembrare sporco. Da quando l’ho scoperto, il mio amore per lui è raddoppiato