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I fratelli Gallagher si sono esibiti insieme per la prima volta dopo 16 anni In un circolo operaio a Londra.

The Dictator

Abbandonato il finto documentario, Baron Cohen torna alla commedia di stereotipi. Non è la stessa cosa

31 Maggio 2012

La prima volta che ho visto Sacha Baron Cohen era nel video “Music” di Madonna, dove nei panni del pimpissimo Ali G ammiccava riguardo al suo Big Ben con due tipe e scompariva a bordo di un’auto targata Muff Daddy. Per quello che ne sapevo io era un dj zarro verace che faceva la marchetta comica, poi ho scoperto che si trattava invece di un comico popolare nel Regno Unito. Lanciato dall’11 O’Clock Show (lo stesso che ha scoperto Ricky Gervais e Charlie Brooker), Baron Cohen ha trovato il successo con Da Ali G Show, nel quale derideva ignari vip e non in interviste assurde. Oltre al britannico gangsta wannabe, in detto show il comico introduceva anche lo sgrammaticato kazako Borat e Brüno, reporter austriaco ultragay, tutti e tre diventati a tempo debito protagonisti di altrettanti spin-off cinematografici. Visto l’hype crescente ad ogni film, è normale che per The Dictator, nuova fatica di Cohen, ci si agitasse già da un po’. Io l’ho visto, mi ha fatto ridere, ma la sensazione che mi ha lasciato è che manchi qualcosa. Spiego perché.

Ali G Indahouse era una commedia demenziale. Punto. Si trattava di uno scenario fresco (perchè non americano) e riconoscibile (perchè prendeva in giro i wannabe americani), con una sceneggiatura banalotta, ma tutto sommato ben scritta, e tutte le gag che ti aspetteresti da un personaggio come Ali G nel parlamento inglese (quella era la base della storia). Respect.

Quando ho sentito che Borat sarebbe stato il protagonista del nuovo progetto di Cohen, già mi era sceso l’entusiasmo. I baffi e l’accento non mi bastavano, in Ali G c’era tutta una cultura in gioco che rendeva ogni scena due volte meglio. Cosa potevano inventarsi più di qualche orrore grammaticale da ripetere ossessivamente manco fosse l’ultimo Striscia la Notizia?

Uscito il film, la botta. Borat era un capolavoro. Il primo a dirigerlo doveva essere Todd Phillips, quello che prima di Hangover e altre commedie analoghe più o meno rubacchiate faceva documentari di un certo peso su temi come le frat houses e GG Allin. Bene, per divergenze creative Phillips ha mollato Cohen e questi si è affiancato Larry Charles, storico regista di molti Seinfeld (e coautore, niente meno che con Bob Dylan, del brutto Masked and Anonymous). I due hanno girato Borat come un mockumentary, mentendo a destra e a manca e coinvolgendo prevalentemente gente che non aveva idea di chi Cohen fosse o di che intenzioni avesse. Le telecamere c’erano, ma loro non conoscevano il personaggio (che il comico non abbandonava mai) e si facevano scappare dichiarazioni che non si sarebbero permessi di fronte a un interlocutore diverso. Il ritratto che veniva fuori era quello di un’America ignorante, maschilista e superficiale, mentre il Kazakistan (in realtà la Romania mascherata) era un’accozzaglia di stereotipi generici e sottotitoli a caso. Uscito il film la produzione si è beccata una serie di denunce (prevedibilmente da Kazakistan e Romania), ma il successo è stato planetario. Borat era fresco e faceva molto più ridere di Ali G Indahouse, proprio grazie alla sua formula parzialmente improvvisata di “scripted reality” e alla sua attitudine “in your face”.

Abbiamo dovuto aspettare qualche anno prima dell’arrivo di Brüno, ma nel frattempo Charles se ne è uscito con Religulous, crociata antireligiosa del comico e conduttore americano Bill Maher. Politically incorrect per antonomasia (aveva uno show con questo nome, inciampato su dei commenti poco popolari a ridosso dell’11 settembre 2001), Maher ben si sposava con l’approccio guerrilla del barbuto regista e insieme i due deridevano culti e fedi un po’ in tutto il mondo. Il film era molto più documentario di Borat, ma l’idea era sempre “vediamo fin dove riusciamo a spingerci prima di prendere gli schiaffi”.

Quando è arrivato Brüno, invece, abbiamo ritrovato Baron Cohen più o meno dove l’avevamo lasciato: sempre nel personaggio, sempre imbarazzante e stereotipato fino all’estremo, sempre a provocare bigotti e ignoranti americani. Con il nuovo capitolo si riusciva sempre meno a stare al gioco e le parti “scripted” erano senz’altro di più, ma la scena del limone di Cohen con un altro uomo nella gabbia della lotta estrema, con l’omofobo redneck al di fuori quasi sull’orlo delle lacrime, era un momento aulico.

Ed eccoci a The Dictator, l’ultra-anticipato esordio dell’Ammiraglio Generale Hafez Aladeen, spietato dittatore del fittizio stato di Wadiya. Nonostante a dirigere sia sempre Charles, Cohen abbandona qui il formato del mockumentary per tornare alla commedia demenziale. Il tutto è abbastanza solido, e per la prima mezz’ora fa ridere il fatto che Aladeen sia l’essere più disprezzabile che un pubblico occidentale possa immaginare: pappa e ciccia con Bin Laden e Kim Jong Il, sprezzante verso le donne e antisemita. Aiutano molto Anna Faris (in veste di newyorkese attivista green con capelli corti e ascelle pelose) e un team di sceneggiatori di scuola Euro Trip e Seinfeld, ma il tutto alla lunga risulta un po’ monocorde. E, diciamocelo, fare satira da occidentali su un dittatore è facile come sparare a dei pesci in un barile.

A parte questo, la grossa delusione di The Dictator è che, al contrario degli altri film di Cohen, manca quasi completamente (o perlomeno è fortemente limitato e banalizzato) l’aspetto “noi attraverso gli occhi degli altri”. Insomma, con tutto quello che si può dire sull’ipocrisia e le manie liberal, il comico poteva sforzarsi un pochino di più. Se di certo non si trattava di una sofisticata analisi sociologica (né voleva esserlo), Borat esplorava la relazione degli occidentali con il nazionalismo, la civiltà e il rapporto con le culture diverse. Brüno, dal canto suo, si misurava invece con omofobia e culto della personalità. The Dictator sembra tornare ai tempi di Ali G Indahouse, dove si ride delle affettazioni di un idiot non troppo savant e la satira cede il posto ai luoghi comuni. Non dico che la formula del mockumentary o scripted reality sarebbe andata necessariamente meglio, non per la terza volta, ma di certo avrebbe risparmiato imbarazzo retorico e rilanciato in profondità. Si ride lo stesso, eh, ma solo se in mancanza della satira ci si accontenta della commedia.

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