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Breaking Bad sullo Stretto di Messina
The Bad Guy, da poco uscita su Amazon Prime Video, riprende la lezione di Romanzo Criminale e di Gomorra, aggiornandola per l'epoca delle piattaforme streaming.
Foto di Paolo Ciriello
Nel 2014 Gomorra ha aperto un buco nella diga della serialità italiana: e da quel buco, lentamente, sono venuti fuori altri mondi e altre storie, e la nostra televisione, per la prima volta, ha cominciato a parlare una lingua diversa. Più attuale, meno mediata, estremamente sincera. L’artigianalità del mezzo ha ritrovato la sua centralità, e la costruzione del racconto ha finito per essere più aderente a un’idea realistica di messa in scena. Era già successo: nel 2008, su Sky, con Romanzo Criminale. Quello, però, fu classificato come un caso: finite le stagioni e gli episodi; finito il giro di campo festante, non si andò più avanti. E l’Italia, intesa come sistema e industria, fu costretta ad aspettare. Oggi è differente.
Oggi, grazie soprattutto alle piattaforme streaming, serie tv di qualunque tipo e genere, provenienti da qualsiasi paese, vengono distribuite e viste, diventano fenomeni – se hanno qualcosa di speciale e interessante – e tormentoni. The Bad Guy, prodotta da Indigo Film con Amazon Studios, disponibile su Prime Video, è un terremoto. Perché fa una cosa che nessuno, fin dai tempi di Romanzo Criminale, ha provato più a fare nel nostro paese. E cioè impadronirsi di un genere, non avere paura di piegarlo, riscriverlo, di usarlo spudoratamente per arrivare a un obiettivo specifico. Per una certa politica, e la reazione di Matteo Salvini ne è una prova, è un problema: la finzione viene spacciata per cronaca, e le polemiche che ne seguono sono un testacoda di confusione e pregiudizi.
Non è la versione italiana di una storia di Guy Ritchie: qui il ritmo c’è, è vero; ma non è così importante. Giuseppe G. Stasi e Giancarlo Fontana, i due registi, sono partiti da un altro luogo: uno fatto di citazioni e riferimenti, e di tutto quello che hanno visto in questi anni. Perché sia Stasi che Fontana sono giovani – giovanissimi, anzi, se teniamo conto di quella che è la media dei nostri autori. Respirano cinema e televisione, e li conoscono, li amano e non esitano ad ammetterlo.
Con Ludovica Rampoldi e Davide Serino hanno scritto una storia che sa di possibile, ambientata in un futuro prossimo dove il Ponte sullo Stretto è stato costruito (è di questo che si è lamentato Salvini) e la mafia non è ancora stata sconfitta; dove i giudici continuano a essere ammazzati e lasciati soli, e dove la società civile subisce, in silenzio, tutto quello che accade. Il protagonista di The Bad Guy, Nino Scotellaro, interpretato da uno straordinario Luigi Lo Cascio, è un magistrato che viene incriminato e costretto a cambiare. Decide, quando si presenta l’occasione giusta, di vendicarsi. E per farlo è pronto a tutto: anche a diventare un assassino. C’è, come avrete notato, qualcosa di Breaking Bad e di Better Call Saul: il viaggio tragico di un uomo che, da buono, diventa malvagio. Ma in questo caso la trasformazione del personaggio è voluta, non cercata: non parte tutto dalla voglia di vivere liberamente; il principio, e la fine e lo scopo principale, è il desiderio di riscatto, di avere la possibilità di rialzarsi. E così comincia un gioco tra le parti, una messa in scena che mischia siciliano e italiano e che trova velocemente una sua dimensione: gli attori, da Lo Cascio a Claudia Pandolfi, passando per Selene Caramazza, Vincenzo Pirrotta, Giulia Maenza, Ivano Calafato e Alessandro Lui, sono tutti al posto giusto; e non solo si lasciano dirigere e – a tratti – schiacciare dalla visione di Stasi e Fontana, ma si mimetizzano nella trama: sono elementi fondamentali per l’ambientazione. Cornice e contemporaneamente quadro.
Usano qualunque cosa: corpo, voce, silenzi. Claudia Pandolfi, che interpreta un’avvocata abilissima, moglie di Scotellaro e figlia di una vittima di mafia, riesce ad alternare con estrema facilità una tensione più leggera e quasi contenuta a esplosioni di sensualità e paura. È tesa, nervosa, scattante: è l’ago di questa bussola e, quando Lo Cascio non c’è, è in grado di portare il racconto altrove, più avanti, in uno spazio dove non esistono né neri né bianchi ma solo grigi. Poi c’è il montaggio, firmato da Fontana: e che lavoro pazzesco è stato fatto. Ci sono alcune sequenze – soprattutto quelle di, chiamiamole così, azione – che vanno quasi da sole, che funzionano grazie alla musica (firmata da Francesco Cerasi) e alle immagini, e che galoppano, corrono e stravolgono la storia. La camera segue, non indugia; accompagna i movimenti delle figure e non li ostacola. Ogni episodio è veloce e travolgente, ma non frettoloso e nemmeno approssimativo: quello che vediamo è quello che conta.
The Bad Guy, che si conclude con un finale aperto e che aspetta solo di essere rinnovato, è un nuovo buco nel muro del silenzio della nostra serialità; è un passo in avanti e a modo suo una rivoluzione. Non si abbandona alla narrazione piena di cliché e luoghi comuni della mafia e dell’antimafia; anzi, questo elemento lo prende quasi in giro, continuando a riproporre la serie dedicata al padre del personaggio di Claudia Pandolfi. La novità rappresentata da The Bad Guy passa anche dalla composizione delle singole immagini. Quello che ha fatto Gogò Bianchi con la fotografia ha donato alla narrazione un’illuminazione diversa, più dinamica, innovativa. Un po’ come, nel 2014, aveva fatto Vladan Radovic con il primo film della trilogia di Smetto quando voglio. Pure questo è un aspetto da non sottovalutare all’interno del discorso più ampio della serialità italiana. La fotografia, come la regia e la scrittura, ha sempre accompagnato l’evoluzione del linguaggio. Con Gomorra Paolo Carnera ha introdotto l’abbraccio elettrico dei neon. Ne Il Miracolo Daria D’Antonio ha sfruttato i chiaroscuri in una chiave quasi caravaggesca.
The Bad Guy si muove su due livelli: uno metanarrativo, che parla direttamente a noi, agli spettatori, che prova a illuminare un faro sulle possibilità concrete che ha – e che spesso ignoriamo – la nostra industria; e uno più viscerale e basilare, di messa in scena e produzione. Stasi e Fontana hanno già dimostrato in passato quello di cui sono capaci; e stavolta, grazie a Indigo Film, sono andati oltre. Hanno sperimentato e hanno detto quello che volevano dire nell’esatto modo in cui avevano immaginato di farlo. The Bad Guy è una serie coraggiosissima e non per questo meno riuscita; è un esempio, una prova di talento e capacità. Forse, ecco, definirla capolavoro può sembrare eccessivo – i capolavori hanno bisogno di sedimentare nell’immaginario comune e di mettere radici nel dibattito pubblico per essere considerati come tali; ma è sicuramente un punto di svolta, qualcosa da tenere ben presente in futuro. C’è un prima e c’è un dopo The Bad Guy, e questo è importante capirlo, proprio per non perdere altro tempo. La nostra serialità non può vivere di cicli; deve cominciare a muoversi linearmente, secondo una direzione precisa.
Stasi e Fontana, con The Bad Guy, hanno messo insieme un racconto ironico, a tratti cinico, stracolmo di violenza e morte, di dolore e sofferenza. E anche di amore e fedeltà. Hanno sviscerato la mafia, ribaltandola. Hanno sintetizzato, abilmente, temi classici come la famiglia; e poi, armati di idee e intuizioni, si sono avventurati in una giungla fatta di creatività. Con Rampoldi e Serino hanno tracciato – non trovato, attenzione – un nuovo sentiero. E questo, soprattutto produttivamente, è una conquista.