Cultura | Scrittori
Ta-Nehisi Coates e quel che resta di Obama
Ritratto di uno dei massimi scrittori americani, che ha saputo cogliere come pochi altri l'America delle occasioni mancate.
Con questo profilo di Ta-Nehisi Coates inauguriamo una serie estiva dedicata a cinque personaggi di cui si è parlato nel 2018. Tutti i pezzi di questa serie saranno archiviati a questo link.
Scriveva Jimmy Baldwin in La prossima volta il fuoco: «La qualità fondamentale della faccia di Elijah è il dolore […] un dolore così antico e profondo e nero che diventa personale solo quando sorride. Viene da chiedersi che voce avrebbe se sapesse cantare». La faccia di Ta-Nehisi Coates è segnata dallo stesso dolore ambiguo. Non si tratta dei segni profondi di chi ha conosciuto la violenza, né dei solchi lasciati da una vita di stenti, ma di una consapevolezza antica, irreversibile e gravosa: quella di essere nato appena al di fuori dalla norma condivisa, con un piede nel “diverso”, dopo che le lotte di chi partecipa allo stesso destino sono terminate senza un trionfo. Un po’ come arrivare a guerra finita, scoprire di aver vinto, ma dover contare un numero indicibile di vittime.
Nel 2008, Coates aveva un cassetto dell’armadio in cui teneva gli avvisi di mancato pagamento e le cartelle esattoriali che non poteva evadere. Aveva perso tre lavori, uno di seguito all’altro. Non riusciva a mantenere suo figlio e viveva del solo stipendio della moglie, Kenyatta, e dei contributi che suo padre, William “Paul”, un editore che è stato un membro delle Pantere Nere di Baltimora, gli passava per un blog seguito da pochi, dove faceva prove generali di scrittura pubblica. Quel blog non esiste più, ma potendo tornare a studiarlo, dentro ci si troverebbe la stessa meticolosa costanza dei suoi articoli per l’Atlantic, la passione quasi maniacale per lo studio e una forma di accanimento sempre più insistente attorno alle domande che tormentano i neri della sua generazione: che cosa è successo che non possiamo controllare? Perché proprio noi? Cosa c’è nel nostro futuro?
Trovarle una risposta è lo scopo dichiarato di Ta-Nehisi e la ragione fondamentale che lo ha portato da un ufficio di collocamento di Harlem alla Casa Bianca. «Da piccolo, mio padre ci ha allevati a soia e lotta sociale», ha detto. «In strada imparavi a tenere la testa alta. Una questione di sopravvivenza». Era la Baltimora degli anni Ottanta, abbastanza distante dal tempo della lotta per i diritti civili perché le comunità nere potessero accorgersi dei problemi più impellenti: la crisi abitativa, l’epidemia del crack, la violenza domestica, le famiglie con un solo genitore, la maternità adolescenziale e le gang. “Patologie” che decimavano la popolazione dei sobborghi. Cadevano come mosche e non c’era nessuno che sembrava dare troppa importanza al fenomeno. Erano gli anni dell’abbandono, nei quali le conseguenze della schiavitù, della segregazione e delle clausole immobiliari si facevano si traducevano in una forma di disgregazione interna alle comunità, in grado di annichilire anche la protesta.
Coates non è cresciuto in una famiglia “patologica”. Suo padre è stato sempre presente, anche se ha avuto sette figli da tre donne differenti, e sua madre faceva l’insegnante. Entrambi sono stati in grado di provvedere per lui e per i suoi fratelli e sorelle. Ha ricevuto un’educazione domestica ferrea, dai suoi genitori ha imparato il rispetto per gli adulti e l’appartenenza a una nazione nella nazione, invisibile ma presente, ignorata ma rumorosa, assieme all’incombenza di un passato buio, del quale non si sarebbe mai più liberato. «La nostra libreria era piena di libri di autori neri», scrive nella sua raccolta di saggi Otto anni al potere, pubblicata in Italia da Bompiani. «E per calmarmi ci facevano sentire i Last Poets».
A dieci anni passava ore delle sue giornate ad ascoltare e riascoltare I Can’t Live without my Radio di LL Cool J, trascrivendola ossessivamente. L’hip-hop gli ha regalato due cose: una nuova percezione della lotta, non più mediata dalla visione dei suoi genitori, e l’assoluta certezza che nella vita avrebbe voluto scrivere, come i suoi miti. Crescendo ha mescolato Baldwin ai Public Enemy, Zora Neale Hurston a Rakeem, Malcolm X a Jay-Z. «Nel 1994, Illmatic di Nas raccontava la nostra esistenza meglio di qualsiasi trattato sociologico», ha scritto.
Se c’è una caratteristica che definisce Ta-Nehisi Coates come autore, è la continua ricerca della perfezione linguistica, per trasmettere il dolore e il dubbio riguardo la precarietà e il futuro dei neri in America. Una ricerca che deriva tanto dalla letteratura (non solamente nera: spesso cita E. L. Doctorow come sua grande fonte di ispirazione), quanto dalla musica, che per intere generazioni ha significato la quintessenza espressiva in un mondo di voci soffocate dalla prevaricazione della supremazia dei bianchi. Malcolm X diceva di essere stato salvato dalla danza, per Ta-Nehisi si è trattato del rap.
Appena prima di pubblicare il suo primo pezzo sull’Atlantic, un profilo critico di Bill Cosby intitolato “This is how we lost to the white man”, e di avviare la strada che lo avrebbe portato alla corte di Obama, Coates andava alla deriva. «Ero un nero che aveva abbandonato il college, e questo è tutto», dice. Viveva a New York, mangiava male, aveva una famiglia da mantenere e l’assoluta certezza di non saperlo fare. Era come i neri su cui Cosby in quel periodo puntava il dito: senza speranze, corrotto dalla musica e dalla cultura del vittimismo, incapaci di vedere le proprie storture. Ma non si sentiva così. Il suo debutto sull’Atlantic è un’analisi approfondita dell’autocommiserazione nera all’indomani della desegregazione e di come i moralizzatori figli dei diritti civili ne abbiano fatto argomento di predicazione.
È curioso che, a dieci anni dalla pubblicazione del profilo di Cosby, sia lo stesso Coates a impugnare la morale della buona condotta contro le derive populiste di Kanye West. Nello stesso periodo in cui il vento stava cambiando per Ta-Nehisi, l’elezione di Barack Obama infondeva speranza nel resto delle comunità. «Era come se si fosse risvegliata una speranza sopita», ha detto Coates. «Non sapevamo che ci avrebbe portati alla rovina». Ha festeggiato come tutti e come tutti ha sperato in un vero cambiamento. Per molti neri americani, Obama alla Casa Bianca significava l’alba di un periodo di ammenda e riparazioni per i torti subiti. L’euforia è durata poco: Coates è stato tra i primi critici della presidenza, forse tra i primi ad accorgersi che non basta un presidente nero per cambiare l’essenza di un paese profondamente segnato dalla propria storia. In un saggio intitolato “Why Do So Few Blacks Study the Civil War?” sovverte uno dei miti fondativi americani e spiega che quella che è considerata da molti una tragedia nazionale, per i neri è una guerra di liberazione. «I progressisti dovrebbero tenere a mente che i neri si sono liberati uccidendo sistematicamente i bianchi, non c’era altro modo», arriva a scrivere.
Ha incontrato per la prima volta Obama all’indomani dell’uscita di Tra me e il mondo, il libro che gli è valso una McArthur Fellowship (uno dei riconoscimenti più prestigiosi per gli americani in campo artistico) e lo ha incoronato a “voce degli intellettuali neri d’America”: definizione che, proprio come Baldwin molti anni prima, Coates ha rifiutato fermamente. Si è presentato alla Casa Bianca in jeans e maglietta, fradicio per aver corso sotto la pioggia e in ritardo. Ha litigato con il presidente per una questione di provenienza sociale e ha passato il viaggio di ritorno verso New York a pentirsene. Si sono visti altre due volte, l’ultima per un’intervista poco prima della fine del secondo mandato di Obama e dell’elezione di Donald Trump. Inizia così: «Trump ha qualche speranza di venire eletto?», chiede Coates. «Lo escludo categoricamente», è la risposta del presidente uscente.
Qualche mese più tardi, ha scritto: «Sono arrivato alla conclusione che è stata proprio l’esistenza di Obama a permettere quella di Trump. Dopo un periodo di apertura, a trionfare non può che essere il suo opposto». Proprio come alla fine della schiavitù ha fatto seguito la segregazione. Forse lo sentiva davvero che sarebbe accaduto, per via dello stesso dolore antico che da bambino lo ha avvicinato al rap. Forse ha solo voluto approfittare dell’evidenza per mettersi dalla parte dei moralizzatori che non avevano mai creduto nella liberazione dei neri. Per citare “Paul” Coates: «Se hanno permesso a Obama di vincere, siamo messi proprio male».
Dopo la fine di Obama, Ta-Nehisi Coates sembra essere stato assorbito dalla corrente intellettuale, mescolato alle voci critiche che lottano per scavalcarsi e si avvicendano nella posizione di “sguardo più pungente”. Gli resta, a differenza di molti altri, la faccia segnata dalla consapevolezza di aver avuto l’occasione di liberarsi del passato e non averla saputa cogliere. Viene da chiedersi che voce avrebbe, se sapesse cantare.