II nuovo Superman è la storia di un immigrato che ci fa paura

L'attesissimo reboot dell'Uomo d'acciaio diretto da James Gunn è appena arrivato nelle sale, sorprendendo tutti. Perché è un film solare, divertente, nerd ma soprattutto politico.

10 Luglio 2025

Il miglior film di supereroi da quando il cinecomic è un genere di successo, e quindi di sempre considerando i precedenti spesso semi-amatoriali, è The Suicide Squad (in italiano accompagnato da un pleonastico Missione Suicida, ennesimo esempio dell’ossessione dell’adattamento italiano per i sottotitoli), scritto e diretto da James Gunn, distribuito in sala nel 2021. Gunn era arrivato alla guida del progetto quasi per caso, dopo essere stato scaricato da Marvel per la riemersione di alcuni tweet infelici, nonostante la più unica che rara ammissione di responsabilità da parte del regista. Alla Distinta Concorrenza cinematografica non parve vero di poter affidare a Gunn quel progetto sgangherato e più volte riscritto, il seguito della scialba Suicide Squad di David Ayer. Nel mezzo della confusione regnante nell’universo cinematografico DC, Gunn riuscì chissà come a farsi approvare una pellicola iconoclasta e debitrice dei suoi esordi in Troma.

Dopo un fugace ritorno alla corte di Disney per concludere la sua trilogia dei Guardiani della Galassia, Gunn fu quindi scelto dal boss della neonata Warner Bros. Discovery per raddrizzare un altro progetto ancora più sgangherato e più volte riscritto: l’universo cinematografico DC Comics. E il primo passo di questo nuovo anno zero non poteva che essere Superman, destinato fin dall’annuncio a essere manifesto programmatico dei DC Studios di Gunn. Bene, anche nei borghesi panni del Ceo, Gunn sa ancora come fare incazzare la gente.

Superman against the machine

La filosofia del nuovo Superman, e forse del suo intero nuovo universo, è concentrata nella prima scena del film. Dopo aver liquidato le origini con un paio di righe di testo mandate a schermo, la cinepresa trova Superman in Antartide, riverso a terra nel suo sangue, reduce dalla prima sconfitta in una carriera ancora giovane. Con l’ultima stilla di energia, il kryptoniano a cui David Corenswet presta il volto emette un lungo fischio. All’orizzonte, tra sbuffi di ghiaccio polverizzato, appare Krypto, il cane Krypto, lanciato a velocità supersonica: lo porterà a curarsi nella Fortezza della Solitudine per riprendere la battaglia, non prima di averlo ammaccato ancora un po’ facendogli le feste, nella prima di una lunga serie di gag che lo vedrà protagonista.

Per Gunn è questo Superman, l’incarnazione della purezza di spirito, un ideale in carne umana e sangue alieno, che difende la vita prima di ogni altro ragionamento e al di sopra di ogni logica, rischiando in prima persona. Ed è per questo che all’umanità basta poco per odiarlo.

Perché ci costringe a fare i conti con le nostre ipocrisie come specie, perché attraverso Superman emerge quanto sia semplice fare la cosa giusta anche in situazioni dipinte come complesse. Impedire all’esercito invasore della Boravia di compiere uno sterminio nel fittizio Jarhanpur non richiede che un pensiero per una mente aliena, mentre le riflessioni umane si attorcigliano intorno all’alleanza statunitense col Paese invasore, la presunta scarsa propensione alla democrazia in forma occidentale dell’invaso e la pelle un po’ troppo scura delle vittime per suscitare immediata pietà. Per il Superman di Gunn, una decisione di questo tipo è così scontata da essere liquidata in una paio di frasi nei testi a schermo a inizio film, benché rappresenti il letterale casus belli che muove l’intera trama del film.

Narrativamente è in atto un complotto ordito da Lex Luthor (un Nicholas Hoult in ottima forma, anch’egli passato all’altro lato dei cinecomic dopo i trascorsi in Marvel), ma in fondo per spiegare il repentino voltafaccia dell’umanità nei suoi confronti non ce ne sarebbe bisogno. Basterebbe l’interventismo pacifista, anche a costo di trascinare un presidente dittatore nel deserto per appenderlo a un cactus, per suscitare una spontanea campagna d’odio, il sentimento preferito da scatenare verso chi fa ciò che noi non abbiamo il coraggio di fare. Come può essere permesso a un alieno di metterci così spietatamente di fronte ai doppi standard dell’ordine costituito, a cui acriticamente e convenientemente aderiamo da sempre?

Un alieno, alien in originale, termine che in inglese definisce tanto chi viene da un altro pianeta quanto l’immigrato. Un vocabolo che costituisce da solo le fondamenta del mito di Superman e che Gunn inserisce quasi ossessivamente nella sua sceneggiatura, ricordando a quella frangia di lettori e spettatori (che evidentemente fatica a comprendere i prodotti che fruisce) quanto sia insensato pretendere che la politica resti fuori dal mondo dei supereroi, perché, per quanto fondate sull’ingenuità di indossare le mutande sopra i pantaloni, è su una visione politica del mondo che poggiano le storie dei supertizi. C’è un sacco di politica nel Superman di Gunn e ce n’è un sacco fin da subito, senza possibilità di fraintendimenti. «Superman è la storia dell’America. Un immigrato arrivato da altri luoghi che ha popolato il Paese. Ma per me è soprattutto una storia che dice che la gentilezza umana di base è un valore, ed è qualcosa che abbiamo perso», ha detto il regista, inimicandosi i fanatici Maga. Fox News ha cambiato anche il titolo al film: Superwoke, lo chiamano lì.

Poco più tardi rispetto alla battaglia iniziale, Superman sarà intervistato da Lois Lane (Rachel Brosnahan). Si tratta di una scena che lavora a più livelli. Nell’immediato la semplicità di pensiero del kryptoniano esce male dal confronto retorico con la collega e compagna. Troppo elementare e ingenuo il concetto di salvare gli innocenti quando in ballo ci sono rapporti internazionali, accordi commerciali e gerarchie di poteri, ingranaggi indispensabili per un processo di legittimazione della giustizia che assomiglia molto al percorso che compie il denaro per passare da sporco a pulito. E poi, soprattutto, come si permette un alieno di venirci a dire cosa sia giusto e sbagliato? L’eco di quell’intervista tornerà più volte all’abbondante ora successiva di visione.

James Gunn, il nerd che amava i comprimari

Non siamo ai livelli di Starro, il villain di The Suicide Squad che voleva semplicemente farsi gli affari suoi; in Superman la metafora di Gunn è più terra terra, ma forse ancora più forte nel contesto della riscrittura da zero di un universo narrativo i cui appassionati ancora rimpiangono l’estetica fascistoide di Snyder. Ma messa così sembra che il Superman di Gunn sia un walk & talk alla Sorkin, invece lo sceneggiatore di Tromeo & Juliet allestisce un cinecomic con tutti i crismi, che non si fa problemi a stravolgere il senso della missione kryptoniana che ha condotto l’infante Kal-El sulla Terra, e costruisce le fondamenta per il futuro semplicemente giocando con il contorno di comprimari di serie B, da sempre i personaggi preferiti di Gunn.

Il lampo di luce smeraldo è la Lanterna Verde Guy Gardner a cui Nathan Fillion presta la faccia (da schiaffi). Recuperato da un ciclo di storie di qualche decennio fa, l’arrogante Guy Gardner è l’esemplificazione di quanto Gunn conosca il materiale che tratta e al contempo della capacità dell’autore di renderlo fruibile anche a chi lo ignora. Non è necessario conoscere la Justice League International di Giffen & De Matteis (anche se ve la consiglio) per cogliere come Gunn sfrutti il personaggio tanto per sfogare il proprio lato irriverente quanto per fungere da contraltare alla rettitudine morale di Superman. Lanterna Verde è il primo a voltare le spalle a Superman dopo le accuse di Luthor e del governo statunitense: «Fa sembrare noi audaci degli idioti», sibila, ancora piccato per essere stato ripreso in precedenza dall’azzurrone per non aver cercato una soluzione non letale in battaglia, uno dei tanti piccoli semi delle cose a venire sparsi nella pellicola.

Non è esente da difetti, il Superman di Gunn; in queste vesti più incravattate il carico di stramberie e originalità che ha sempre contraddistinto in passato la produzione del regista risulta più ammansito e addomesticato, a tratti persino incastrato in un meccanismo più grande che lo costringe a diversi passaggi poco fluidi, ma denota uno studio e conoscenza del personaggio quasi commovente, che passa dai doverosi rimandi al Superman di Donner alle citazioni alle storie cardine dei fumetti, su tutte il giustamente celebrato All Star Superman di Morrison & Quitely, esplicitamente omaggiato nella scena della prigione.

Non basterebbe questo però a fare di Superman un buonissimo punto di ripartenza, per quello serve la capacità di Gunn di leggere l’essenza del personaggio, ribaltandola per adattarla al presente, rendendolo non più un semplice simbolo di speranza, bensì delle nostre paure: paura del diverso, ma soprattutto paura di quanto il confrontarsi con la diversità riveli di noi stessi. Anche incravattato e imborghesito, Gunn ha tirato fuori un supercinecomic, un film solare e al contempo impegnato, ma anche una lezione su come si possa raccontare l’oggi attraverso tizi che indossano mutande sgargianti: il paragone con l’Mcu (sì, penso a voi Falcon & Winter Soldier) è impietoso. Strappate pure i necrologi, il cinecomic non è morto.

James Gunn, morto e risorto

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