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Hanno ucciso l’hip hop ed è stato il Super Bowl

L'Halftime Show del Super Bowl 2022 ha aperto un grande interrogativo: abbiamo assistito alla definitiva istituzionalizzazione di un genere considerato "nemico pubblico", oppure abbiamo partecipato al suo funerale?

di Federico Sardo

Foto di Valerie Macon/AFP via Getty Images

Quella andata in onda domenica durante l’halftime show del Super Bowl, sul palco per la prima volta nella storia della manifestazione un supergruppo indiscutibilmente hip hop, è stata sicuramente la più grande celebrazione di questa cultura che si sia mai vista, un momento in grado di attribuire al rap una dimensione ulteriore, e un avvenimento che verrà ricordato in tutte le storiografie del genere. Lo ha certificato anche Questlove dei Roots, da sempre alfiere di un hip-hop lontano dalla matrice gangsta, ma allo stesso tempo a suo agio con quel mainstream che ha reso l’immaginario criminale dominante, quando l’industria discografica ha scelto di investire maggiormente su quel fascino (fortissimo anche tra i ragazzini bianchi e middle class che compravano i cd) piuttosto che su quello del rap più sperimentale e afrocentrico. Il batterista ha twittato che «That was the most beautifulest blackest shit ever», ed è difficile dargli torto. Allo stesso tempo però forse non avevamo mai visto l’hip hop, quello vero, con anche tutti i suoi aspetti problematici, così ufficialmente istituzionalizzato.

Da sempre, nonostante si tratti di un’esibizione di circa un quarto d’ora, quella che si svolge durante l’intervallo dell’evento televisivo statunitense per eccellenza è la più importante dello show business occidentale, ed essere chiamati a esserne protagonisti ha un significato molto profondo, che va al di là del semplice spettacolo. Da qualche anno a occuparsi della produzione è la Roc Nation di Jay-Z, che dopo la celebrazione latin di due anni fa con Jennifer Lopez e Shakira, e la consacrazione del ruolo di superstar di The Weeknd dell’anno scorso, questa volta ha puntato tutto sull’hip hop, attraverso alcune delle sue figure cardine. Trovandosi a Los Angeles, con in campo la squadra di casa (che ha anche vinto), il concept dello spettacolo girava intorno a Dr. Dre, storico producer di Compton (violento sobborgo della contea di LA, noto nel mondo principalmente per la criminalità e per il rap), uno dei nomi più importanti nella storia dell’hip hop, legato a doppio filo a star come Snoop Dogg, Eminem, 50 Cent e Kendrick Lamar, tutti sul palco con lui come la regina dell’rnb Mary J. Blige.

C’è un altro nome fortemente connesso a quello di Dre, e ala sua carriera post-NWA (il suo primo gruppo, praticamente gli inventori del gangsta rap): è quello di Tupac, ucciso in una sparatoria nel 1996 ma ciononostante comparso sul palco con Dre e Snoop al Coachella del 2012 in forma di ologramma. In tanti si aspettavano una replica, ma il caro estinto stavolta è stato soltanto evocato da “California Love”.

Dicevamo che sicuramente tutte le storiografie dell’hip hop da oggi in poi non potranno prescindere dal raccontare questo momento, ma resta un dubbio: si tratta del suo apice, o l’attestazione definitiva di una legittimità da show business pari a quella degli altri generi è la testimonianza di un ruolo sempre meno rivoluzionario e sempre meno di rottura? Quelli che un tempo erano i brutti, sporchi e cattivi per eccellenza forse sono diventati inoffensivi, non fanno più paura. Padri e figli ballano insieme le loro canzoni, ormai patrimonio comune. Sarebbe stato impensabile vedere personaggi come Dre e Snoop, pilastri della Death Row (etichetta di riferimento della thug life) insieme a Suge Knight e Tupac (uno in carcere e uno morto), su un palco del genere quando il gangsta rap era considerato nientemeno che un problema sociale. O Eminem quando era considerato il nemico numero uno dell’America benpensante. Ora gli alfieri di questo mondo violento e sopra le righe, un po’ invecchiati, sono delle star che portano le loro indiscutibili hit sul palco più importante degli Stati Uniti.

Certo, nel frattempo il mondo è cambiato, e sono cambiati il contesto culturale in cui il rap americano è inserito e il suo ruolo sociale. Si è passati da Tipper Gore, moglie del vicepresidente Al, che si inventava il bollino del Parental Advisory da apporre sulle copertine dei dischi con testi discutibili (praticamente tutti i dischi rap della storia), a Obama che invita i rapper alla Casa Bianca (ma pure Trump, se vogliamo) e a Kendrick Lamar che vince il premio Pulitzer; un movimento come Black Lives Matter ha trovato alcune sponde anche nella politica istituzionale. Certo, Eminem si è inginocchiato e Dre ha ribadito che «still not lovin’ police», ma non hanno creato neanche un milionesimo dello scandalo della mezza tetta di Janet Jackson nel 2004.

Come accade spesso per questo tipo di eventi, l’halftime show di domenica più che averci detto qualcosa sullo stato di salute del rap contemporaneo ci ha ricordato una bella fila di hit di quando eravamo più giovani. Nella celebrazione dell’altra sera, infatti, non si poteva non scorgere anche una certa retromania: Kendrick, trentaquattrenne, era l’unica delle star sul palco a non essere più vicina ai cinquanta che ai quaranta, e il suo stile è sempre stato abbasta rivolto al passato. Se in good kid, m.A.A.d city rimetteva la West Coast al centro del villaggio, nel successivo To Pimp a Butterfly le sonorità guardavano addirittura agli anni Settanta, e nel seguente Damn tornava a un rap tutto sommato semplice e molto diretto, tenendosi sempre abbastanza lontano dalle nuove tendenze. Del resto è sicuramente il suo l’ultimo grande nome sfornato dall’hip hop, o quantomeno è l’ultimo rapper ad avere realizzato grandi dischi che si sono imposti a livello mondiale mettendo d’accordo critica e grandi numeri, e portando indiscutibilmente un passo più in là la storia del genere. Forse qualcosa di simile sta accadendo anche a Tyler The Creator, ma di fatto è comunque uno che fa musica da quindici anni. Lo stesso non si può dire di gente comunque gigantesca o fondamentale, come Travis Scott (che non è amato dalla critica e non ha pubblicato dischi davvero epocali se non dal punto di vista dei numeri) o Future, che ha avuto un’influenza enorme ma sicuramente più settoriale e locale dei vari Eminem, Tupac, Snoop e compagnia.

Insomma, la celebrazione dell’altra sera da un lato ci rallegra, ma dall’altro rischia di avere il retrogusto di una cerimonia post-mortem. In tanti ne stanno parlando come di un apogeo della cultura hip hop: sicuramente possiamo considerarla il suo zenit dal punto di vista dello show business e il suo nadir da quello della pericolosità sociale. Da quello artistico? Forse siamo a metà strada, ma non sarebbe la prima volta che il rap rinasce dalle sue ceneri dopo essere stato dato per morto.

È curioso infine osservare come invece, in Italia, per la prima volta nella sua storia il rap stia venendo proprio ora quanto mai demonizzato, e non appaia decisamente come un genere rassicurante. Se negli anni Novanta il gangsta rap era seguito da pochi appassionati e la musica delle periferie era da rintracciare più nella dance da classifica, è proprio ora che anche dalle nostre parti stiamo incontrando il moral panic dei media che danno la colpa al rap per la criminalità giovanile, anche se, se volessero essere precisi, dovrebbero parlare di drill.