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Squid Game è sempre la stessa cosa e va benissimo così

Dopo tre anni di attesa, è arrivata la seconda stagione della serie di maggior successo degli anni 2020: nuovi giochi, nuovi personaggi e, stavolta, anche parecchie critiche.

di Francesco Gerardi

Hwang Dong-hyuk, il creatore, sceneggiatore e regista di Squid Game, dice sempre la verità. Ha sempre detto che il protagonista della seconda stagione della serie sarebbe stato Seong Gi-hun, il giocatore 456, tre anni fa diventato miliardario e votatosi alla vendetta. E così è stato. Un’altra promessa che Hwang ha mantenuto è quella sui giochi: in Squid Game 2 ce ne sarebbero stati di nuovi e di più assurdi e di più truculenti, aveva detto. E così è stato.

Ma la massima prova di sincerità Hwang l’ha data quando gli hanno chiesto perché avesse deciso di tornare a lavorare su questa storia: se è vero – ed è vero – che lo stress e gli sforzi della prima stagione gli sono costati «otto o nove denti» (che non abbia tenuto un conto preciso dei denti persi durante le riprese di Squid Game la dice lunga sull’uomo e sull’autore), perché sottoporsi di nuovo a tutto questo? «Perché mi hanno dato più soldi», ha spiegato Hwang. Per quanto possa sembrare incredibile, quello che ci ha guadagnato di meno dal successo di Squid Game è proprio Hwang: le aspettative nei confronti suoi e della sua serie erano talmente basse che il contratto con Netflix non prevedeva nemmeno i cosiddetti performance-related bonus. Il successo riscosso da Squid Game era talmente inimmaginabile che all’epoca Hwang non ci ha pensato due volte a cedere a Netflix il controllo creativo della proprietà intellettuale in cambio di poco più di un piatto di lenticchie. Di tutti gli spin-off, di tutto il merchandise, di tutte le collaborazioni e partnership, dei 900 milioni di dollari che la serie ha aggiunto al valore di Netflix, a Hwang è venuto in tasca quasi niente. Con Squid Game 2, voleva far sapere a chi di dovere che lui non è un cavallo. O, almeno, non uno economico. E così, in parte, è stato. «Le cose ora vanno meglio, certo. L’ho fatto per questo. Di questo sono contento. Non posso dire altro. Mi hanno dato più soldi».

Se li è meritati tutti, Hwang, questi soldi in più. In sei mesi ha scritto tutti gli episodi della seconda stagione della serie, che poi si sono rivelati troppi – e troppo lunghi: non ce n’è uno che duri meno di un’ora – per una stagione soltanto. Da qui la decisione di dividerla in due parti: la prima l’abbiamo a disposizione dallo scorso 26 dicembre, la seconda arriverà nel 2025. Dopo aver finito di scrivere una buona dozzina di episodi in sei mesi, Hwang ha risolto in fretta le pratiche della pre-produzione e ha iniziato con le riprese. Anche in questo caso ha deciso di usare lo stesso metodo usato con la sceneggiatura: girare tutto e subito, episodi della seconda e della terza stagione. Ha passato un anno sul set, girando scene che metterebbero a durissima prova la mente e il corpo del regista più stagionato. Per esempio: nel sesto episodio, “Sei gambe”, c’è una scena che prevedeva la presenza sul set di cinquecento persone tra cast e troupe, in uno spazio chiuso che si riempiva continuamente di una polvere fittissima sollevata da mille piedi che strisciavano sulla ghiaia di cui era ricoperto il pavimento. Alla fine di ogni ripresa, attori e troupe cominciavano a tossire quasi fino a vomitare. Ci sono volute due settimane per finire di girare questa scena soltanto. Un altro esempio: ci sono voluti sei mesi solo per costruire le scalinate nelle quali è ambientata la scena della sparatoria (la chiamo così per evitare qualsivoglia spoiler), più una settimana di preparazione con lo stunt coordination team, poi una decina di giorni per girare. Tutto questo moltiplicato per quattordici episodi almeno (ancora non sappiamo quanti ce ne saranno nella terza stagione, ma è difficile immaginare saranno meno di sette, tanti quanti quelli di Squid Game 2). È bene saperle queste cose, perché nelle recensioni tiepide, fredde e gelate che si stanno leggendo in questi giorni una delle critiche più frequenti – oltre che stupide – è “dopo tre anni, questo è tutto?”. È bene sapere quanto tempo, fatica, conoscenza, abnegazione, spericolatezza (e in certi estremi casi, pure denti) siano necessarie a fare quello che per chi guarda è un attimo appena.

Tre anni per raggiungere l’eccellente livello di messa in scena di Squid Game 2 sono pure pochi (basta sapere quanto ci vuole a fare le cose, cioè come si fa a farle, per rendersene conto). Un’eccellenza che non sta solo nella meccanica che muove i giochi, ma anche negli aloni lattiginosi lasciati dalla fotografia al neon, nella maniera con cui Hwang riesce a trarre il meglio da soluzioni scolastiche come la roulette russa e il campo/controcampo, la sfida e il duello, da insulti modesti come “cavallo” e “cane”, che diventano le ingiurie peggiori messe in bocca a interpreti in stato di grazia come lo sono, in questa serie, Lee Jung-jae e Gong Yoo e Lee Byung-hun. Nonostante l’innegabile magnificenza dei giochi, Squid Game 2 dà il meglio di sé quando si riduce al minimo, a un tavolo con una pistola al centro, a due volti che si fissano, a un finale che può essere solo uno di due: vita o morte.

Si può dire che chi parla tanto di messa in scena di Squid Game 2 lo fa perché della storia di questa stagione non ha niente da dire. Chi lo dice ha ragione: Squid Game 2 non racconta granché, in effetti. Granché di nuovo, almeno. In parte è perché questa stagione è solo la prima metà di una storia che non avrebbe dovuto disunirsi. In parte è perché non è più il 2020, anno mirabile dell’odio per il capitalismo di cui Squid Game fu la sorprendentissima ed efficacissima somma. Oggi quell’odio si è stemperato in esasperazione e rassegnazione, mentre il mondo ci avverte già del prossimo vibe shift con segnali uno più inquietante dell’altro: Donald Trump diventa di nuovo Presidente degli Stati Uniti, Elon Musk sta costruendo un nuovo ordine mondiale a immagine e somiglianza della broligarchia, Javier Milei viene celebrato come statista e icona pop. L’anticapitalismo sta uscendo dalla porta e dalla finestra sta rientrando l’anarco-capitalismo. Stando così le cose, è inevitabile che una serie come Squid Game venga “accettata” meno e meno immediatamente e meno entusiasticamente. Anche perché Hwang rilancia pure dal punto di vista ideologico: se la tesi – inattaccabile – della prima stagione era che il capitalismo è macelleria, quella – fastidiosa – della seconda è che questa bottega degli orrori va avanti solo grazie alla disponibilità dei macellati di prestare servizio anche come macellai. La critica alla società piace a tutti, fino a quando non si insinua che di quella società facciamo parte, attivamente, pure noi.

Forse è per questo che Hwang, in questa seconda stagione, ha deciso che il Front Man sarebbe stato il deuteragonista della storia. Più che l’opposto di Gi-hun, il Darth Vader per il suo Anakin Skywalker, il Front Man è il surrogato di Hwang. L’uomo in nero che ha vinto il gioco ed è miracolosamente, violentemente scampato alla macelleria. Nel sangue e nel successo ha vissuto l’epifania che poi lo ha convinto che la cosa da fare fosse contribuire al buon funzionamento della macelleria in futuro, in cambio di altro potere e di altro denaro. «Finché il mondo non cambierà, il gioco continuerà a esistere», dice il Front Man quando Gi-hun gli annuncia il suo intento di venire a prendere lui, i suoi soldati, i suoi padroni Vip, di sconfiggere il gioco giocandolo non per soldi ma per vendetta, non per vincere lui ma per non far perdere gli altri. Squid Game 2 forse è l’autobiografia di Hwang e la storia della serie è la storia della sua resa: anche lui, come il Front Man, ha vinto e si è arreso e ha deciso di fare di Squid Game il suo testamento, la storia di un autore che voleva essere politico e rivoluzionario ma che alla fine ha capito che il mondo è questo e quindi il gioco esisterà, uguale a se stesso, sempre e per sempre. Se davvero fosse così, si confermerebbe un uomo che dice sempre la verità: ce l’aveva detto che l’ha fatto per i soldi.