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Cosa sono diventati i reality

Dal progenitore Grande Fratello a quello che Netflix ha tratto da Squid Game, storia del reality, format e genere narrativo che ha cambiato la televisione e che è riuscito a sopravvivere anche a se stesso.

di Lorenzo Peroni

Si fa presto a dire “reality”. Un genere nato in purezza e che ha subitaneamente rivoltato la tv come un calzino, per poi accartocciarsi presto su sé stesso e tornare in forme ibride e infestanti che hanno colonizzato i palinsesti televisivi. Si pensava la storia dei reality sarebbe finita con la storia della legacy tv: nessuno avrebbe scommesso sulla loro sopravvivenza nell’epoca delle piattaforme streaming, con i loro budget apparentemente illimitati – il primo pregio del reality sono sempre stati i bassissimi costi di produzione, d’altronde – e la loro propensione (presto superata e dimenticata) per la prestige tv. E invece il reality esiste ancora, si difende bene, prospera persino, nonostante l’ecosistema televisivo attorno sia completamente cambiato. Brandon Riegg, responsabile dei cosiddetti progetti non sceneggiati di Netflix, ha vissuto la stessa folgorazione vissuta 23 anni fa da Giorgio Gori: il reality funziona, il pubblico lo vuole, diamoglielo. Prendiamo la più redditizia e popolare delle proprietà intellettuali a nostra disposizione – Squid Game – e adattiamola (senza nemmeno sforzarci troppo: Squid Game è, appunto, un gioco a premi) al format. Nasce così Squid Game: La sfida, che Riegg ha definito come «un reality show all’interno dello show sceneggiato, un’estensione. […] Se pensiamo alle origini della reality tv […] C’era una qualità voyeuristica: guardavamo persone reali in situazioni reali pensando “Io come avrei risposto?” o giudicando le risposte di quelle persone sullo schermo. Quindi, quando siamo entrati nella versione senza copione (di Squid Game), abbiamo cercato di dare vita a quello che abbiamo visto in un mondo immaginario per osservare come le persone reali si sarebbero comportate nel mondo reale». Il programma è così costruito, montato, diretto e prodotto da non lasciar trasparire alcun bagliore di “reality”, senza spontaneità, contrattempi, completamente irreale e distante.

Distante anche e soprattutto dal Grande Fratello, il format che ha rivoluzionato la tv del nuovo millennio, che ha scritto il primo capitolo della storia di cui il reality di Squid Game è solo l’ultimo paragrafo e che, tra alti e bassi, è in onda ancora oggi. Ma allo stato attuale delle cose il Grande Fratello dei giorni nostri rappresenta quasi un unicum, ancorato così come è alle sue radici di reality show primitivo, il programma è il baluardo di una tv ormai desueta, di un meccanismo che poteva funzionare solo in funzione di uno spirito naive perso praticamente subito. Dell’invasione di programmi fotocopia seguita al suo enorme successo resta poco e niente, solo l’Isola dei Famosi ha saputo – grazie a un paradigma opposto (persone non comuni, “Vip”, alle prese con situazioni non quotidiane, non rinchiuse in una casa ma abbandonati nella natura inospitale) – competere, per ascolti e interesse, con il reality primigenio. Non la Fattoria, non Circus, non Il Ristorante, non La Talpa, non Wild West: il reality come varietà ha avuto vita breve, sterile.

Nel 2003, a tre anni dal debutto del Grande Fratello sui nostri piccoli schermi, il reality imbocca subito due strade, da una vede un grande flop, The Real Cancun, e dall’altra un grande successo, The Simple Life. The Real Cancun tenta di portare sul grande schermo l’onda nuova e frizzantina che il nuovo sguardo sulla realtà ha portato nei palinsesti il film segue 16 tra ragazzi e ragazze durante lo spring break (le vacanze in cui gli adolescenti americani vanno a spaccarsi all’estero) a Cancun, in Messico. Grande flop al botteghino, e grandi stroncature, impossibile trovare con questo meccanismo coerenza e senso della narrazione entro i confini del lungometraggio. Giovani, arrapati e completamente sbronzi, questo il genere, troverà il suo compimento solo qualche anno più tardi, sulle frequenze di Mtv con Jersey Shore: sei stagioni, personaggi mitici (Snooki Polizzi), due spin-off e una versione UK – Geordie Shore – di cui sono state prodotte 21 stagioni – per ora. In quegli anni Mtv ormai non è più una televisione musicale.

Con The Simple Life, la serie televisiva di Paris Hilton e Nicole Ritchie, siamo già in territori che lambiscono (abbondantemente) la fiction. Si tratta, su carta, di una serialità “non scritta” ma già completamente artefatta. Le sue protagoniste sono eccentriche, letteralmente assurde, alle prese con le situazioni surreali e comiche (senza contanti spedite ad affrontare il mondo reale). La serie ha un successo incredibile, con ascolti record per Fox, e segna la strada per la tv a venire, molto di più di quanto ha fatto il Grande Fratello stesso, che è rimasto un programma impossibile da malleare o imitare. Diventata da poco mamma, Paris Hilton ha dichiarato: «È interessante come un commento scherzoso possa essere preso sul serio. […] A volte interpreto ancora il personaggio stravagante che ho interpretato in The Simple Life. È un ruolo difficile da scrollarsi di dosso completamente». Il commento arriva in risposta a una polemica sul nuovo reality, Paris in love, che segue fidanzamento, matrimonio e maternità dell’ereditiera (qualcosa sul non aver mai cambiato un pannolino al figlio). Che si tratti di una strada o di un’altra, l’avvento della tv dei reality ha segnato la nascita di una nuova professione: quello del concorrente di reality è diventato un lavoro, il lavoro di essere guardato.

“Sono tentato di suggerire – ha scritto Slavoj Zizek in A Cup of Decaf Reality – che l’ascesa della “reality tv” nelle sue diverse forme, dai “docusoaps” ai survival game, si basi sulla stessa tendenza di fondo per offuscare la linea che separa la finzione dalla realtà. […] la “vita reale” che vi troviamo è reale quanto il caffè decaffeinato. In breve, anche se questi spettacoli sono “reali”, le persone recitano comunque, semplicemente “interpretano se stesse”. Il disclaimer standard in un romanzo (“i personaggi di questo testo sono una finzione, ogni somiglianza con i personaggi della vita reale è puramente casuale”) vale anche per i partecipanti ai reality soap: quelli che vediamo sono personaggi di fantasia, anche se interpretano veramente se stessi”. Ecco quindi che il reality diventa una nuova forma di telefilm, sviluppa narrazioni strutturate, stratificate, che si diluiscono e si intrecciano nel tempo, con trame verticali e autoconclusive o verticali e articolate. Disponibile a germinazioni, accogliente, con casting sempre aperti 24h.

E così, addomesticato, scritto, semi-sceneggiato, ibridato, imbastardito fino a trasformarlo in una nuova incarnazione di narrativa, il compartimento reality – in eredità delle sperimentazioni di canali ai margini della tv lineare come Mtv e RealTime – oggi rappresenta una fetta importantissima per sia per le piattaforme streaming, come Netflix che ne sforna in continuazione, ininterrottamente, che per la tv generalista. Il reality “puro” è stato blandito dal talent, dal dating (una volta era semplicemente Il gioco delle coppie, o Tra moglie e marito) e dal game show, e oggi nella sua incarnazione di serie docu-reality imperversa in ogni sua declinazione, andando a costituire un serbatoio importantissimo per la sussistenza delle piattaforme streaming e dei canali satellitari. Due quelle che vanno per la maggiore.

Il dating show va fortissimo, per anni è stato The Bachelor, il pomposo reality dating di Abc (in onda dal 2002 ha all’attivo 27 stagioni), portato in Italia in maniera fallimentare in una versione bon ton con Cristina Parodi (prontamente segata dopo 5 puntate), poi sono arrivati i vari Temptation Island, Love Island, Love is blind, Primo Appuntamento, Naked Attraction, Too Hot to Handle (vietato scopare). Lo stesso Uomini&Donne, in tempi già sospetti ma ancora non troppo, ha segnato l’evoluzione del talk verso il reality soap. Sono il corrispettivo di telefilm situazionisti con gente normale che fa finta di essere sé stessa. Un fenomeno, questo, analizzato al meglio non in saggi o documentari, ma tramite la lente della fiction, con la gogna cinica e spietata di Unreal, serie tv del 2015 – firmata da una veterana della fiction come Marti Noxon (Buffy, Sharp Objects) e da un’ex produttrice di The Bachelor, Sarah Gertrude Shapiro – che punta il focus sul dietro le quinte di programmi come The Bachelor, drammatizzando il ruolo dei produttori, disposti a tutto pur di manipolare i concorrenti a proprio vantaggio (facendo pasticci con farmaci e alcol, oppure servendo sushi andato a male a una concorrente vestita di bianco). Anche da noi sempre più spesso i concorrenti di certune trasmissioni lamentano “è colpa del montaggio”. 

Poi c’è il filone di quelli che cercano casa, con quelli pronti a vendergliele, a rimetterle a nuovo, sono i docusoap professionali, dove agenti immobiliari, architetti e esperti di tappezzerie diventano nuovi guru di stile. Il successo di Selling Sunset (sinossi: «Gli agenti immobiliari d’élite di The Oppenheim Group vendono la vita di lusso ad acquirenti facoltosi a Los Angeles. Il dramma aumenta quando un nuovo agente si unisce alla squadra») ha traghettato anche quello del recentissimo Casa a Prima Vista, evoluzione parvenu di Cerco casa… Disperatamente, uno dei primissimi programmi di RealTime.

Sono scuderie di programmi prodotti in serie, con franchising e spin off. Anche Squid Game: La sfida, per tornare al presente, ibrida il reality – mettendo al centro, come concorrenti, persone comuni – con il game show e la fiction (di cui prende spunto per regole, meccanismi ed estetica, tutto e ricreato alla perfezione per ricordare la miniserie coreana, salvo il fatto che qui i concorrenti non muoiono) cerca di trovare una nuova declinazione del genere, adattando in un reality survival game un telefilm di successo ispirato, con un twist sadicamente truculento, all’universo dei survival game di estrazione asiatica. Finisce così che la critica al capitalismo del telefilm sudcoreano viene (ri)capitalizzata da uno dei simboli del capitalismo massmediale.

Nel 2002, all’alba di una nuova tv e di una nuova nascente concezione di reale, Eco scriveva: «A un bambino che cresce parrà naturale vivere in un mondo dove il bene primario sarà la visibilità. Dove per essere riconosciuti dagli altri e non vegetare in uno spaventoso e insopportabile anonimato si farà di tutto per apparire, in televisione o in quei canali che a quell’epoca avranno sostituito la televisione». Ed eccoci qui, 20 anni dopo, con palinsesti impestati di programmi che inghiottiscono e vomitano senza soluzione di continuità persone “comuni” che di lavoro fanno quelli che vengono guardati.