Stili di vita | Design

Io non lo voglio l’Ultrafragola

Possono i social network banalizzare e farci detestare alcuni degli oggetti più iconici della storia del design?

di Greta Elisabetta Vio

Per un tempo lunghissimo il design ha avuto un ruolo marginale nella mia vita. Lo percepivo intorno a me, certo, interessava chi mi stava accanto, eppure non mi toccava in modo particolare. Ricordo, però, la mia prima epifania, il momento in cui ci ho fatto davvero caso. A casa di amici, avevo notato il Juicy Salif di Alessi, disegnato da Philippe Starck. All’epoca non ne conoscevo il nome e ne ricordavo la casa di produzione solo per qualche strano giro di memoria, eppure la sua forma era impossibile da dimenticare. Pur ricordando un razzo un po’ puntuto, Juicy Salif è chiaramente uno spremiagrumi. Forma e uso sono allineati alla perfezione, ma in quella casa qualcosa mi turbava: era esposto in salotto come un pezzo d’arte, non stava in cucina assieme ai suoi colleghi utensili.

Nonostante Wikipedia dica che il design si occupa di progettare oggetti capaci di coniugare funzionalità ed estetica, il dibattito su cosa sia realmente è sempre in divenire. L’International Council of Design, ad esempio, potrebbe dirvi che il design è l’interazione tra una persona — un “utente”— e l’ambiente creato dall’uomo, tenendo conto delle considerazioni contestuali, culturali e sociali. In quel trilocale, però, sapevo che il design non è uno spremiagrumi sradicato dal suo contesto, fatto diventare, prima ancora che arte, un oggetto di status.

Che spesso acquistiamo più per prestigio che per gusto non è una novità, è pur sempre uno dei dettami del consumismo. Ma quando parliamo di ambiti che si intersecano con la nostra personalità, come il modo in cui ci vestiamo o gli oggetti che lasciamo entrare in casa nostra, è interessante notare la facilità con cui abbiamo delegato ad altri l’allestimento di quello che reputiamo il nostro luogo sicuro per eccellenza. Da sempre arredare casa passa per una tappa obbligata – il prendere ispirazione – che nell’era di internet non è più fatta di sole riviste di settore ed enormi mazzette Pantone, ma di ore passate su Pinterest, TikTok e Instagram.

Basta poco – di solito qualche giorno di ricerca mirata – per avere un algoritmo perfettamente affinato e capace di restituire proprio quello che pensiamo faccia al caso nostro: l’ultimo trend in fatto di arredamento (che in questo preciso momento storico, mi pare di capire, coincide con il massimalismo), influencer con attici pieni di oggetti iconici, case bellissime e pulitissime, colme di piante e luce, che non possiamo permetterci.

È più o meno a questo punto che si inizia a notare una crepa nella personalità delle nostre fonti d’ispirazione, prima impercettibile e poi gigantesca. È una luminosa chiazza rosa bubblegum di 100x195x13 centimetri, ripetuta all’infinito nei post che ritraggono case di ricche milanesi, newyorkesi, persino svedesi: concepito nel 1970 da Ettore Sottsass, lo specchio Ultrafragola è un oggetto maestoso e seducente, ma è anche una delle vittime preferite di un consumo del design puramente di tendenza. Da quando, qualche anno fa, Bella Hadid ci si è fatta un selfie rendendolo un oggetto di culto per un pubblico più ampio, l’Ultrafragola è ovunque, dalle foto su Instagram delle vostre amiche, alle moodboard d’arredamento di quella frangia della Gen Z che non ha paura del colore. A farci caso, sono decine i pezzi che hanno subito un trattamento simile: la sedia Cesca che sembra progettata apposta per star bene nelle case dei pulitini di tutto il mondo, il divano Togo, la Arco di Castiglioni contro la quale è impossibile non sbattere gli stinchi, la Nessino di Artemide, i Componibili Kartell.

A questo punto, mi sembra il caso di dire una banalità: nessuno di questi è un brutto oggetto. Anzi, vi invito a partire dall’ovvio presupposto che ognuno in casa propria, alla fine, mette quello che vuole. Non è una questione estetica e nemmeno snobismo, una voglia di bacchettare quelle migliaia di persone che comprano costosi oggetti di design senza conoscerne la storia e il significato. A volte le cose ci piacciono e basta, senza dietrologia. E gli oggetti belli ci sono sempre piaciuti.

Ma è possibile che queste belle icone, per quella minoranza rumorosa che tiene a segnalarti in qualche modo di essere meglio di te, siano ormai ammantate da una specie di marchio del diavolo? Io, che sono scesa a patti col far parte di questa categoria umana, faccio fatica a separare gli oggetti da quello che hanno preso a significare. Se qualcuno vedesse un’Eclisse a casa mia, ad esempio, capirebbe che la possiedo perché mi piace e non perché è anche sul comodino della mia influencer scandinava di riferimento? Sicuramente non saprebbe che l’ho presa con i punti Fragola dell’Esselunga e questo, per l’onore del mio status, sarebbe un bene.

Ciò che più mi affascina di chi rende il proprio appartamento un catalogo, una copia carbone di quelle pubblicità da due pagine che campeggiano senza discrimine dentro Architectural Digest e Casabella, è immedesimarmi nel loro modo di guardare la casa. Quando mi investe una vena pratica, comincio a farmi domande sulla comodità, sulle pulizie o, se sto guardando la casa di una coppia, su chi ha scelto cosa: hanno entrambi lo stesso gusto? Lui, altero, ha scelto la Wassily, lei, romantica, la Atollo? Più spesso, invece, mi capita di chiedermi cose più emotive: com’è tornare a casa la sera, stanchi e avvolti dalla penombra, in una casa che è un mix-and-match di suggerimenti dell’algoritmo? Ogni quanto questi oggetti bellissimi ma ormai impersonali vengono messi da parte e sostituiti?

Se è vero che per una certa fascia demografica è ormai difficile sfuggire dall’equazione che rende automaticamente belle le cose costose, è anche vero che sempre meno giovani hanno la possibilità di comprare casa – figurarsi mobili che costano migliaia di euro. Anche per questo, la ricerca dei dupe (quelli che una volta, con meno eleganza, chiamavamo tarocchi) è diventata spasmodica. Siti come dupe.com, che non si sforzano nemmeno di nascondere il loro scopo volgarotto dietro un nome studiato a tavolino, propongono decine di versioni a buon mercato dei nostri oggetti di design preferiti. Una riproduzione di un classico del design come la Eames Lounge, progettata dai coniugi Eames negli anni ‘50 e diventata una vera e propria icona dell’abitare moderno, può essere nostra a soli 610 dollari, contro i circa undicimila proposti da Vitra, suo storico produttore. Certo, poco importa se la fattura è meno elegante, se il compensato o la pelle non restituiscono la stessa sensazione e se, aspetto non irrilevante, sedercisi sopra è un supplizio, un destino riservato non solo ai tanti doppioni prodotti senza cura, ma anche a molti oggetti del nuovo design alla moda, spesso concepiti in divertenti forme sferiche con un’aura da parco giochi per adulti. Non senza una certa ironia, molte delle linee di fast furniture che nascono ispirandosi agli immortali del design e si nutrono dei nostri bisogni identitari puntano tutto sulla personalità e sul divertimento. Basti pensare alle edizioni limitate dai colori accesi proposte da Ikea e osannate dai tiktoker che stabiliscono e commentano le mode del design.

Ma tra i nostri mobili tutti bolle e curve, o alterità e ispirazione industriale, di spazio per giocare – o, per quel che conta, essere sé stessi – ce n’è sempre meno, ed è di volta in volta rosicchiato dai microtrend, dai bisogni indotti, dalle adv. Fuori dai discorsi metafisici di architetti e designer, zeppi di «abitare» e di indecifrabili ragionamenti sull’importanza di entrare in comunicazione con lo spazio, mi pare che la considerazione più semplice sia questa: peggio di una casa brutta c’è solo una casa che non dice niente di chi la vive.