Stili di vita | Dal numero

Andare da Ikea a comprare una sedia italiana

Dal numero di Rivista Studio in edicola, intervista a Gio Tirotto, il primo designer italiano a realizzare una sedia Ikea.

di Teresa Bellemo

Una sedia per esterni impilabile, di colore verde, in acciaio verniciato con schienale e seduta in tessuto plastico, completamente smontabile. È Ensholm, è la prima sedia Ikea nata dall’idea di un designer italiano, Gio Tirotto, in vendita dall’inizio di febbraio di quest’anno. Una prima volta che arriva dopo 14 anni dalla fondazione del suo studio a Fiorenzuola d’Arda, nel piacentino, e che riassume sia i principi che guidano il marchio svedese nell’offerta dei suoi prodotti, che la filosofia di Tirotto nel progettare, che parte sempre dall’obiettivo, dalla sostanza, per poi dargli la forma migliore. Lo stesso percorso che ha ripetuto anche nell’ideazione di Ensholm. «Lavorare con Ikea mi ha permesso di affrontare il concetto di progetto democratico in modo completo. Fin dall’inizio, ho capito che la sintesi doveva essere alla base del progetto, per giungere soltanto poi all’idea finale e dunque al pezzo, dove ogni elemento è fondamentale, come nel lavoro di Enzo Mari Proposta per una autoprogettazione».

Il nome di questa sedia è Ensholm, che in svedese significa isola deserta. Come mai?
Non l’ho scelto io. Ikea ha una quantità di prodotti infinita, quindi scegliere i nomi è una cosa abbastanza complessa. Però quando abbiamo parlato del nome, l’idea di un’isoletta che fosse molto verde, indipendente, molto piccola, legava con la forma e con l’idea della sedia e mi piaceva.

Come nascono le idee dei tuoi progetti?
Spesso parto quasi da nulla. In studio esiste un moto uniforme di ricerca e a volte le idee nascono da questo movimento. Quando riceviamo una commessa, si fa una ricerca più specifica. Ma l’idea vera arriva in un momento in cui non stai più cercando, come davanti a un caffè. È come se avessi digerito i vari input e hai il switch giusto per affrontare il progetto. 

Il tuo non è un design che in qualche modo si ripete, riconoscibile, ma si adatta. In che senso?
Sembra molto grigio, no? Però è una cosa molto funzionale. Un oggetto comunque deve avere un perché, una motivazione, è quella la sua funzione. Parto da qui e cerco di scavare. La forma arriva dopo, è un arrivo, non è mai il punto di partenza. 

C’è un materiale che ti affascina più di altri?
Forse quello con cui ho lavorato meno: la plastica. Bisogna essere bravi, avere esperienza e bisogna lavorare con le aziende giuste. Mi appassiona perché oggi è un momento critico, quando dici questa parola le persone cambiano faccia. La plastica in realtà è il materiale del nostro tempo, forse dobbiamo ancora imparare a usarlo bene.

Nei tuoi progetti come tieni conto di tutto questo, della sostenibilità degli oggetti che crei?
Negli ultimi anni sono riuscito a mettere al centro questo principio in tutti i miei progetti. Nonostante tutto credo che il mercato non sia ancora del tutto pronto, ma non sei più visto come un visionario, c’è una sensibilità più diffusa, finalmente siamo contemporanei.

Come sarà il design tra vent’anni? Ci saranno ancora gli oggetti?
Ce ne saranno meno, ma molto più materici. Quello che esce oggi mi sembra che sia più geometrico, più pulito. La tecnologia sta evolvendo così tanto da poter fare forme pure, perfette. Presto avremo bisogno, voglia, di oggetti legati al materiale, all’intervento umano, come il montaggio. Mi viene in mente questo perché abbiamo parlato di Ikea, ovviamente, ma secondo me la partecipazione farà cambiare la percezione del prodotto. 

C’è una parte della casa che ti ispira e che trovi più adatta al tuo concetto di design?
Il terrazzo mi ispira molto. È un momento, più che un luogo, lo spazio tra la città e il privato, un filtro. Non è quello dove preferisco stare, eventualmente l’ambiente più importante forse è la cucina, ma il terrazzo è un qualcosa da cui sono sempre partito, anche come base di progetto. 

Mi sembra che ti affascini questo collegamento del dentro e del fuori, il meccanismo di relazione. Sta alla base anche di Coexist, un mappamondo in vetro e acciaio che poi è stato selezionato anche dal MoMA.
Coexist è un lavoro importante nella mia biografia, perché riesce a riassumere com’è il mio modo di progettare. È un mappamondo, la cui funzione di solito è quella di misurare, visualizzare le distanze. Nel suo essere fatto in vetro coesistono spazio e tempo; nello stesso momento vedi già dall’altra parte, così si annullano entrambi. Coexist è proprio la definizione del mio linguaggio progettuale: cambiare punto di vista, per poi cercare di rileggerlo con la tecnologia e i materiali.

Oggi è più facile inventare o reinventare?
Penso che sia più facile reinventare. Le vere invenzioni le attribuirei alla scienza e non al design. Tutto il resto è una conseguenza di qualcosa che è stato fatto, pensato, detto, e poi, con un po’ di tempo, anche grazie all’evoluzione tecnologica, succede. Forse tutto si reinventa, non c’è mai reale invenzione nel design.

Cosa presenterai al prossimo Salone del Mobile?
Usciranno due progetti, per due aziende diverse. La cosa strana è che sono due poltrone e per entrambe la richiesta era legata all’iconicità. Lavorare su questo concetto vuol dire relazionarsi a una forma che non deve avere riferimenti temporali, cioè che non stia al passo con le mode ma che le affronti e le superi. Una sfida non facile.

Che designer ti ha fatto innamorare di questo lavoro?
Paolo Ulian. Una volta ha disegnato un fiammifero che però ha la capocchia che si accende da entrambi i lati per non consumare legno. Come fai a non innamorarti di una cosa così?

Cosa disegni quando sei al telefono?
Sedie, sempre sedie.