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16:55 mercoledì 31 dicembre 2026
Martin Scorsese ha scritto un editoriale sul New York Times in cui spiega perché Misery è il miglior film di Rob Reiner In un commosso editoriale, Scorsese ha individuato nel thriller del 1990 l’apice della filmografia del collega, ricordando la loro amicizia.
Dopo il documentario su Diddy arriverà un documentario sui figli di Diddy che parlando di Diddy Justin e Christian Combs racconteranno il rapporto col padre in una docuserie che uscirà nel 2026 e di cui è già disponibile il trailer.
La crisi climatica sta portando alla velocissima formazione del primo deserto del Brasile La regione del Sertão sta passando da arida a desertica nell'arco di una generazione: un cambiamento potenzialmente irreversibile.
L’episodio di Stranger Things in cui Will fa coming out è diventato quello peggio recensito di tutta la serie E da solo ha abbassato la valutazione di tutta la quinta stagione, nettamente la meno apprezzata dal pubblico, almeno fino a questo punto.
Il progetto europeo di rilanciare i treni notturni sta andando malissimo Uno dei capisaldi del Green Deal europeo sulla mobilità, la rinascita dei treni notturni, si è arenato tra burocrazia infinita e alti costi.
Un’azienda in Svezia dà ai suoi lavoratori un bonus in busta paga da spendere in attività con gli amici per combattere la solitudine Il progetto, che per ora è solo un'iniziativa privata, prevede un’ora al mese di ferie e un bonus di 100 euro per incentivare la socialità.
Diverse celebrity hanno cancellato i loro tributi a Brigitte Bardot dopo aver scoperto che era di estrema destra Chapell Roan e altre star hanno omaggiato Bardot sui social per poi ritirare tutto una volta scoperte le sue idee su immigrazione, omosessuali e femminismo.
È morta la donna che restaurò così male un dipinto di Cristo da renderlo prima un meme, poi un’attrazione turistica Nel 2012, l'allora 81enne Cecilia Giménez trasformò l’"Ecce Homo" di Borja in Potato Jesus, diventando una delle più amate meme star di sempre.

Slaughterhouse

Il nuovo album di Ty Segall è potentissimo, tragico ed equilibrato

28 Giugno 2012

Uno dei miei esseri umani preferiti si chiama Ty Segall, è statunitense e di lavoro fa un album dietro l’altro.

Ha iniziato come chitarrista ma è diventato piuttosto famoso confezionandosi i brani su misura, suonando chitarra, basso, batteria e cantando come un ossesso. La notizia dell’uscita di un suo album è ormai una non-notizia — come quella delle dichiarazioni-choc di Beppe Grillo o dei “moniti” di Giorgio Napolitano. Diciamo che gli album di Ty Segall non escono: succedono, ogni tanto. Spesso, a dire il vero. Sarà forse per questa incontenibile verve creativa che col tempo ha accumulato un discreto numero di band e para-band con cui firma e/o co-firma le sue opere: Ty Segall Band, Sic Alps, Traditional Fools, Ty Segall/White Fence e altri nomi strambi che usa per camuffare la sua chitarra grattuggiosa e collaborare con chi gli pare disseminando sbadatamente dietro di sé singoli, Lp ed Ep come un Pollicino ubriaco.

Ma dato che l’ultima fatica dell’artista è reale, è necessario parlarne almeno un po’ ben sapendo che cominciare a recensire Segall significa condannarsi a coprire anche tutti i suoi futuri album e magari finire per creare una pagina “verticale” sul sito di Studio tutta dedicata a lui (come quella che l’Huffington Post ha sull’annoso fenomeno delle “side boobs“). L’album si chiama Slaughterhouse, è uscito per l’etichetta losangelina In the Red ed è un ottimo lavoro, maturo e più curato del solito, nel quale Segall dimostra di aver preso comando delle proprie corde vocali (che non è necessariamente una buona notizia — anzi sì, perché grida comunque molto).

Pitchfork, il sito che la gente legge per poi sostenere in pubblico di non aver mai letto Pitchfork, gli ha dato 8.7 e ha tirato in ballo Fun House degli Stooges per spiegare meglio il proprio entusiasmo. In effetti Slaughterhouse si permette di liberare nella vostra testolina una buona dose di rumore distorto senza sacrificare il gusto per la melodia che aveva caratterizzato l’ottimo Goodbye Bread (2011), risultando più coraggioso e solido dei primi Horn the Unicorn o Ty Segall. Alcuni momenti (“Wave Goodbye” e la title-track) ricordano i Nirvana più tragici, quelli di In Utero, con qualche riff di scuola Tony Iommi. Non manca un rifacimento pesantissimo di un classicone sixties (“Diddy Wah Diddy”) che regala anche un solo di feedback che va a unirsi ai molti fischi che puntellano l’album, spingendo in molti a pensare a “Radio Friendly Unit Shifter”.

Ty Segall è fatto così, e per questo gli va voluto del bene: ha cominciato suonando la chitarra in qualche gruppo ed è passato alla one man band una sera in cui, racconta, doveva esibirsi da solo su un palco dove c’era anche una batteria. Gli dispiaceva l’idea di non usarla, e l’ha suonata. Il suo Goodbye Bread, poi, è uscito citando nei crediti di produzione Andrew Loog Oldham, leggendario produttore-manager dei Rolling Stones. Era uno scherzo di un suo amico, e tutti pensavano che la casa discografica se ne sarebbe accorta e avrebbe tolto il nome. Invece no. Ops, scusate, ha detto Ty. Ma in fondo se ne frega, ha pensato. Giusto.

Slaughterhouse è un disco di cui Segall può andare fiero. Sembra andare nella direzione in cui ha sempre puntato (o forse è già lì che ci aspetta), quella raccontata a Exclaim! l’anno scorso: fare evil, evil space rock. Space rock cattivo, arrabbiato. Per dare un’idea: «Metti un po’ di Satana nello spazio e ottieni il suono di cui parlo. “Silver Machine” degli Hawkwind incontra “N.I.B.” dei Black Sabbath che incontra “Master of the Universe” degli Hawkwind».

Non se abbiamo reso l’idea al pubblico di Studio ma sì, Slaughterhouse ci si avvicina, molto. Poi chissà, magari martedì prossimo esce il suo nuovo Ep ed è tutto zigano, e poi ad agosto spunta un doppio album rythm and blues, ma intanto fermiamoci un attimo e apprezziamo il momento. Ty Segall è un serissimo cialtrone di cui c’è molto bisogno.

(Di solito alla fine di una recensione c’è il voto all’opera. Qui no. I voti li danno siti come Pitchfork, e io non la leggo nemmeno quella roba.)

Immagine: copertina dell’album

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