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Shelley Duvall non è stata solo Wendy di Shining
L'attrice, morta all'età di 75 anni, conosciuta per essere il volto terrorizzato del film di Kubrick, fu una vera icona hollywoodiana, prima di decidere che tutta quella fama, semplicemente, non le interessava più.
La carriera da attrice di Shelley Duvall è iniziata grazie a una scimmia. Nel 1966 Duvall era ancora convinta che da grande avrebbe fatto la scienziata, frequentava – con risultati che erano andati velocemente peggiorando dalla scoperta del sesso in poi – il South Texas Junior College in vista dell’iscrizione a una delle facoltà Stem della University of Texas. Un giorno però Duvall entra in classe e capisce che la lezione consisterà nella vivisezione di una scimmia. Non solo salta questa lezione ma abbandona la scuola, inizia entusiasticamente la vita da high school dropout e va a lavorare in una profumeria: dirà poi che quello è stato il periodo più felice della sua vita perché «ogni giorno tornavo a casa profumata come un giglio». Nel tempo libero arrotonda posando come modella per piccole e grandi riviste locali, conosce il suo primo e unico marito (Bernard Sampson), inizia a dipingere. Sia lei che Sampson hanno un disperato bisogno di soldi, quindi Duvall un giorno organizza una festa nella speranza di vendere almeno uno dei suoi quadri. A quella festa partecipano anche dei membri della troupe che sta lavorando con Robert Altman ad Anche gli uccelli uccidono: vedono Duvall, chiedono subito se possono usare il telefono e chiamano Altman per organizzare al più presto un provino. Duvall ha talmente bisogno di soldi che accetta di partecipare alla cosa anche se non ha idea di chi sia Altman ed è convinta che quegli uomini vogliano farle girare un porno.
Il provino stravolge sia Altman che il produttore Lou Adler, Anche gli uccelli uccidono è il principio di una collaborazione artistica che farà la storia della Nuova Hollywood e convincerà Duvall a fare quello che non ha mai più fatto in tutto il resto della sua vita: lasciare il Texas, andare a vivere e lavorare in un posto che non sia The Lone Star State. Trasferitasi a Hollywood (da dove scrive lettere dolcissime al padre preoccupato, in cui gli racconta delle passeggiate che fa a Beverly Hills e delle pause che si prende per mangiare l’anguria, bere il tè al gelsomino, assaggiare cookies e gelati), in cui si ritrova spesso davanti allo stessa dilemma: le capita di dover scegliere tra le feste a cui tutti vorrebbero andare e quelle che tutti vorrebbero lasciare. All’epoca, Richard Donner – il regista del primo film di Superman – è tra i più apprezzati party maker di Hollywood, ma Duvall racconterà che spesso alle feste nella sua magione preferiva gli sfigatissimi ritrovi dei cosiddetti starving actors, i troppo scarsi, troppo poveri o troppo giovani per avere il permesso di entrare nell’Olimpo da cui lei va e viene a piacimento. Aveva un fortissimo senso estetico, Duvall: per lei le feste erano una questione di accostamenti e vibrazioni, se c’era un problema con una o con l’altra cosa non c’era modo di convincerla a rimanere, nemmeno dicendole che Jack Nicholson o Roman Polanski volevano conoscerla. Anche perché in quegli anni tutti volevano conoscerla: con Altman fa I compari, Gang, Nashville, Buffalo Bill e gli indiani, diventa uno dei volti e dei corpi del New American Cinema, le riesce con la sigaretta quello che a Clint Eastwood riesce con il cappello, cioè recitare attraverso un oggetto con una naturalezza e maestria tale che viene ribattezzata “the queen of cigarette acting”.
Nel 1977 Duvall compie il suo capolavoro con l’interpretazione di Millie Lammoreaux in Tre donne (sempre Altman), che le vale la vittoria del Premio per la migliore interpretazione femminile al Festival di Cannes. «È come se non ci fosse niente tra il suo volto e i nostri occhi – nessuna cinepresa, né dialogo né trucco, neanche nessuna interpretazione – è come se le riuscisse naturalmente di essere il personaggio», scriverà un ammirato Roger Ebert. Tra il pubblico che assiste alla premiazione a Cannes, ad applaudire più forte e più a lungo di tutti c’è un’estasiata Sissy Spacek, che durante le riprese di quel film trova una mentore, un’amica, una sorella: anche nei momenti in cui Hollywood racconterà Duvall come una vecchia pazza, una povera reclusa, Spacek non smetterà mai, in pubblico e in privato, di raccontarla come «la persona più perfetta che ho mai conosciuto». Tre donne lo vede e lo ammira anche Stanley Kubrick, che decide che soltanto Duvall può interpretare Wendy nel suo prossimo film, The Shining: «Perché sei bravissima a piangere», le dice il regista nella telefonata in cui la convince ad accettare la parte. Quanto successo su quel set è diventato materia di cui sono fatti gli incubi di tutti gli attori del mondo e della storia: la stessa Duvall – che non sarà mai dura con Kubrick come lo sono stati i suoi, di lei, biografi e si limiterà a definirlo «una persona affettuosa che parlava tanto», confermando secondo molti la diagnosi di Sindrome di Stoccolma – spiegherà che alla 127esima ripetizione di una scena in cui si urla e piange e corre, dopo 16 ore di lavoro, alla fine di 56 settimane sul set (numeri tutti veri), la sua mente si era staccata dal continuum spazio-temporale e aveva cominciato a vagare in un luogo tra il sogno e l’allucinazione. A chi le chiedeva se non pensasse che tutto questo fosse la prova del tratto sadistico della personalità di Kubrick, lei rispondeva sempre che la scena in cui Dick spiega a Danny cosa è la luccicanza l’hanno dovuta rifare 148 volte (anche questo tutto vero, si tratta della scena con dialoghi entrata nel Guinness World Records come la più ripetuta della storia del cinema), 21 in più della sua leggendaria staircase scene. Non le era andata poi così male, secondo lei.
Senza saperlo, sul set di Shining Duvall contribuirà all’invenzione dell’etica ed estetica sad girl. Per tutto il periodo delle riprese andrà a vivere in un minuscolo appartamento londinese, con la compagnia soltanto di un cane e due pappagalli. Nel tempo libero, a casa, leggerà soltanto libri tristissimi, per diventare ancora più brava a piangere. Sul set, quando non è impegnata a girare, se ne andrà a zonzo con walkman al fianco e cuffie in testa, ascoltando solo canzoni tristissime, per diventare ancora più brava a piangere. Fuma in continuazione. Negli anni, tanti si sono convinti che è stata questa esperienza – che è difficile definire con una parola che non sia “trauma” – a convincerla a smettere di fare l’attrice e a lasciare Hollywood. In due interviste (bellissime, rarissime) concesse a The Hollywood Reporter e al New York Times, Duvall dirà che in realtà le ragioni del suo ritiro sono state altre, assai più gravi: il cancro diagnosticato al fratello, il terremoto che distruggerà la sua casa losangelina, la paura che la sua diventasse una di quelle «downfall stories» per le quali Hollywood nutre un appetito insaziabile. C’è chi pensa che nella sua decisione di andarsene da Los Angeles e tornarsene a Austin ci sia la prova di un esaurimento nervoso dal quale non si è più ripresa. Chi invece dice che Duvall aveva realizzato ormai tutti i suoi sogni e non avesse più motivo di rimanere dov’era: dopo essere diventata diva, aveva contribuito a reinventare la tv per bambini e ragazzi con lo show Nel regno delle fiabe, poi di nuovo con Tall Tale & Legends, infine ancora con Nightmare Classics, programmi di cui era creatrice, produttrice, regista, protagonista, promoter, costumista, truccatrice, nelle cui meravigliose foto di scena si ammira l’innato gusto e il naturale talento di Shelley per quello che poi impareremo a definire weird. Lei dirà poi che aveva sempre sognato di fare programmi per l’infanzia perché ammirava tantissimo Walt Disney.
C’è anche chi pensa che il buen retiro texano – «il più lungo sabbatico di tutti i tempi», lo definiva lei – di Duvall dimostri quanto oscuro sia il cuore che batte nel petto di Hollywood. Nel 2016, dopo anni lontana dalle scene, viene scovata dagli sgherri del Dr. Phil Show ed esposta al pubblico ludibrio con un’intervista in cui vaneggia, dicendosi convinta che Robin Williams fosse in realtà un mutaforma e di parlarci spesso nonostante l’attore si fosse suicidato due anni prima. Il “dottor” Phil non chiederà mai scusa per il suo cinismo e la sua crudeltà, Duvall non sentirà mai il bisogno di spiegarsi né chiarire: si limiterà a – come sempre nella sua vita – darsi la colpa e dire che tutti le avevano detto che accettare questa intervista si sarebbe dimostrata una pessima idea. Lei non era granché d’accordo con questa versione dei fatti, però: l’esperienza le era servita per capire una volta per tutte che lasciare Hollywood era stata la decisione giusta.
Le ultime fotografie di Shelley Duvall le ha scattate Sarah Lukowski, una fan sfegatata che ha messo su lo Shelley Duvall Archive (è un profilo X, Instagram e TikTok) e che negli ultimi anni è diventata una carissima amica dell’attrice: in un pezzo sul Texas Monthly ha raccontato come l’ha conosciuta e come l’attrice l’ha accolta subito nella sua casa di Hill Country. Le ultime foto di Duvall sono quelle del suo compleanno, passato proprio in compagnia di Lukowski: sono andate a fare un giro in macchina, hanno preso dei milkshake, hanno mangiato cupcake e ammirato vecchie foto di Shelley Duvall, quando era una delle più famose e amate attrici del mondo.