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Martin Scorsese ha pubblicato su Harper’s un lungo saggio su Fellini

Cosa vuol dire “contenuto”? Secondo Scorsese, ciò che una volta era riferito a un certo tipo di film, a un’opera, più che a un prodotto, che potesse insegnare allo spettatore o semplicemente colpirlo per la bellezza delle immagini – pensate, ben strutturate – ora «è diventato un termine usato per tutte le immagini in movimento: un film di David Lean, un video di gatti, uno spot del Super Bowl, un sequel di supereroi, un episodio di una serie. Ed è collegato, ovviamente, non all’esperienza nelle sale ma alla visione in casa, sulle piattaforme di streaming che hanno superato l’esperienza nelle sale, come Amazon ha battuto la concorrenza dei negozi fisici». È quanto il regista ha scritto su Harper’s Magazine, in un articolo in cui ha manifestato tutta la propria perplessità in riferimento alle piattaforme, mortificatrici della magia del cinema. Soprattutto in un momento come questo, «quando invece dovremmo sempre avere Federico Fellini come punto di riferimento», ha scritto. Non è un caso che il suo saggio-invettiva si intitoli proprio Il Maestro, così, in italiano.

Si possono dire molte cose sui film di Federico Fellini, ma ce n’è una su cui non si può discutere: «Sono cinema». Negli anni Sessanta, Fellini fu più di un regista, continua. «Come Chaplin, Picasso e i Beatles, era più grande della sua stessa arte. A un certo punto nemmeno si trattava più di questo o quel film, ma di come tutti i suoi film fossero un unico grande gesto scritto che attraversava la galassia. […] L’unico paragone nel cinema era con Alfred Hitchcock, ma Hitchcock era qualcosa d’altro: un marchio, un genere a sé. Fellini era il virtuoso del cinema». Ed è qui che Scorsese inizia a “spiegare” non tanto i film del regista riminese, quanto l’influenza e l’importanza che questi, in quanto contenuti veri, hanno avuto su di lui e sugli altri. Parlando dei Vitelloni per esempio, Scorsese spiega come sia stato il più personale di Fellini e che, sebbene parlasse di cinque amici di Rimini, anche a lui che lo vide a New York «sembrava di conoscere quei ragazzi da tutta la vita, come se fossero del suo stesso quartiere», tanto che il suo Mean Streets prese le mosse proprio da quel film. La Strada invece Scorsese lo vide in televisione insieme alla sua famiglia: «Fu il film in cui Fellini divenne davvero Fellini».

Ma il più grande omaggio al cinema inteso come “sala” e come esperienza irripetibile il regista lo offre parlando della visione della Dolce vita. Lo vide nel 1961 in una sala cinematografica piena di persone: «Ci sedemmo, si spensero le luci e potemmo assistere a un maestoso e terrificante affresco cinematografico», realizzato da un uomo che era stato capace di sintetizzare tantissimi aspetti della vita in una serie di immagini indimenticabili. Poi parla degli altri film, di 8 ½, indimenticabile anche per i suoni, della Voce della luna, di Amarcord, «il meno audace».

Appare chiaro quindi come Scorsese, omaggiando Fellini, omaggi un cinema che secondo il regista non esiste più a causa di un’offerta spropositata che non fa altro che banalizzare ogni cosa in nome di una presunta democratizzazione. Spiega infatti che «avere cura del cinema non è antidemocratico o “elitario”. È un atto di generosità: condividi con lo spettatore potenziale ciò che ami e ciò che ti ha ispirato, non tutto quello che trovi. (Le migliori piattaforme di streaming, come Criterion Channel e MUBI e punti vendita tradizionali come TCM, si basano sulla cura, e infatti sono, appunto, le migliori.) Gli algoritmi, per definizione, si basano su calcoli che trattano lo spettatore come un consumatore e niente altro. Non ne otterremo niente di buono».