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Com’era il social distancing durante la peste del Seicento

Come ormai abbiamo imparato (o meglio, ricordato) in questo periodo, le ipotesi più condivise sull’origine della quarantena – e cioè l’isolamento dei malati per evitare il diffondersi del contagio – fanno risalire la pratica almeno al quattordicesimo secolo, e in particolare alle esperienze vissute in città come Venezia e Milano con le prime epidemie di peste. Secondo il New York Times, l’auto isolamento della popolazione non è l’unica strategia che abbiamo ereditato dalle pandemie del passato: anche il social distancing, infatti, è molto più antico di quanto crediamo.

Lo raccontano bene le cronache di Samuel Pepys, politico londinese che visse durante la grande peste che infuriò in città tra il 1665 e il 1666: il suo è un dettagliato diario su come le autorità del tempo cercarono di contrastare l’avanzare della malattia. Londra veniva da un periodo politico tumultuoso, tra la rivolta di Cromwell, le guerre anglo-olandesi e il grande incendio che devastò la città nel settembre del 1666, ma per contenere la peste il re Carlo II si affidò a un consiglio di esperti, segnando l’inizio di un rinascimento scientifico. I medici sperimentarono infatti con quarantene, sterilizzazioni e isolamento sociale.

«Quando non era impegnato a mettere in esposizione le teste mozzate dei suoi nemici [come fece con Cromwell, di cui fece riesumare il corpo solo per esporne la testa fuori da Westminster Hall, ndr], re Carlo II seppe investire nel progresso scientifico. Mise la sua approvazione ufficiale sulla Royal Society of London for Improving Natural Knowledge, l’istituzione che diventerà poi la Royal Society, e nel 1666 «emise un ordine formale che vietava tutti gli incontri pubblici, compresi i funerali. I teatri erano già stati chiusi e le licenze per i nuovi pub ridotte. Anche Oxford e Cambridge erano chiuse». Tra gli studenti rimasti a casa c’era anche Isaac Newton: la sua ricca famiglia era tra quelle che avevano potuto fuggire dalle città e rifugiarsi nelle loro case di campagna. Trascorse l’anno della peste studiando gli elementi fondanti delle sue teorie sul calcolo.

A Londra la situazione era invece terribile: la quarantena, già sperimentata durante la peste bubbonica del ‘300, venne distribuita in modo sempre più sistematico durante la Grande Peste. Racconta Pepys che «alcuni dipendenti pubblici, chiamati “ricercatori”, individuavano nuovi casi di peste e mettevano in quarantena i malati insieme a tutti coloro che condividevano le loro case. La gente che chiamava i guardiani dipingeva una croce rossa sulle porte delle case in quarantena, insieme a un avviso scritto che recitava “LORD HAVE MERCY UPON US” (in maiuscolo)». Potremmo definirlo un primo esperimento di tracciamento dei contagi. Il governo si occupava anche di fornire del cibo alle persone rinchiuse in casa. Dopo quaranta giorni, le croci rosse venivano sostituite da quelle bianche, segno che la casa non era più falcidiata dalla malattia. Una volta riaperte, il governo consigliava di sterilizzare le case con la calce: «i medici credevano che la peste bubbonica fosse causata da “odori” nell’aria, quindi si consigliava sempre di pulire. Non avevano idea che fosse anche un buon modo per sbarazzarsi delle zecche e delle pulci che in realtà diffondevano il contagio».

Tra i tanti finti rimedi che proliferarono in quel periodo (e oggigiorno), si sperimentarono anche nuove regole di igiene di massa che furono effettivamente utili, come l’abitudine di molti negozi di chiedere ai propri clienti di lasciare cadere le loro monete in piatti di aceto per sterilizzarle: insomma, una versione del 1600 del gel disinfettante per le mani. Come oggi, infine, c’erano anche i trasgressori: nell’aprile del 1665 alcune persone furono denunciate «per essersi riunite in strada in maniera promiscua». Primo caso registrato di denuncia di assembramento.