Cultura | Cinema

Marco Bellocchio contro tutti

Il suo nuovo film, Rapito, presentato a Cannes e appena arrivato nelle sale, è un manifesto di sfiducia contro ogni istituzione: famiglia, comunità, Chiesa e Stato.

di Francesco Gerardi

A 83 anni Marco Bellocchio ha scoperto la sua specialità: il cinema della sospensione, il racconto di cose, eventi e persone nel momento di massima indeterminatezza. Poco conta che queste cose, eventi e persone siano noti. La maestria del regista sta proprio nel ricostruire l’indeterminatezza ormai smontata: tutti sappiamo che ne è stato di Aldo Moro, eppure guardando Esterno notte si aveva la sensazione della scoperta. È che il rapimento – sia come tema che come meccanismo narrativo – si presta bene a questo scopo: nulla è indeterminato come la sorte di un rapito. Rapito, il film che Bellocchio ha appena presentato in concorso al Festival di Cannes, è la seconda parte di un dittico cominciato appunto con Esterno notte, riflessione uguale e contraria sulla stessa questione. Se in Esterno notte il discorso riguardava il fatto più noto della storia repubblicana e un anziano potente ritrovatosi alla mercé di forze superiori (e oscure e maligne), in Rapito si approfondisce lo stesso argomento attraverso un fatto piuttosto oscuro, accaduto davvero alla fine dei moti risorgimentali e per mezzo – letteralmente: Edgardo Mortara, protagonista della storia, sta in mezzo ai (som)movimenti storici, simbolo e vittima, interprete e spettatore – di un bambino. Quel che resta, in una storia e nell’altra, sono le forze superiori (e oscure e maligne), prova dell’ormai definitivo pessimismo di Bellocchio. Rapito è stato definito un film anticlericale, e certamente lo è. Ma è soprattutto un film anti-istituzioni, la dimostrazione di una sfiducia inguaribile nei confronti di ciò che gli esseri umani hanno prodotto – la famiglia d’origine, la comunità d’appartenenza, lo Stato e la Chiesa – nel tentativo di regolare la vita collettiva. Sfiducia nel patto sociale e nella comunità umana in sé: un film pessimista.

Certo, la sfiducia di Bellocchio se la merita la Chiesa più di tutte le altre istituzioni (e non è la prima volta che succede: Bella addormentata è il titolo ovvio che viene in mente, ma la lista si potrebbe allungare). Il rapimento di Edgardo Mortara – bambino bolognese di religione ebraica, battezzato in segreto da una serva della famiglia, prelevato dalla Gendarmeria pontificia per via di una legge che impediva a cristiani ed ebrei di vivere sotto lo stesso tetto – è orchestrato da una trinità maligna che incarna il potere quando da antico si fa decadente. L’inquisitore di Bologna, padre Feletti (Fabrizio Gifuni), è l’attaccamento di quel potere alle sue leggi: per giustificare la decisione di strappare un bambino di nemmeno sette anni alla sua famiglia e alla sua città e di chiuderlo in un istituto romano, l’ex inquisitore di Bologna ricorre al diritto canonico, lo stesso espediente che gli permette di mascherare l’omertà in fedeltà. Il cardinale Giacomo Antonelli (Filippo Timi), l’ultimo segretario dello Stato Pontificio, è l’attaccamento di quel potere al suo prestigio. Quando la comunità ebraica bolognese fa del rapimento di Edgardo un caso politico internazionale, lui resta fermo nella sua obbedienza al «non possumus» del Papa Re, mortificato dagli oltraggi dei grandi della Terra – Napoleone III e Cavour, tra questi – che avevano osato pensare che una decisione del Santo Padre necessitasse del loro gradimento. Infine, Papa Pio IX, interpretato da un magnifico e luciferino Paolo Pierobon, a metà tra il Jack Nicholson di Shining e il Claude Frollo del Gobbo di Notre Dame. Il Papa che rappresenta l’amore del potere per se stesso: «Voi dimenticate chi avete davanti», ricorda, incattivito, agli ebrei di Roma, in udienza per discutere la questione Mortara, ridotti a strisciare sulle ginocchia, in processione per baciare la punta della sua scarpa. La sfiducia che Bellocchio mostra nella Chiesa-istituzione – c’è poco di religioso in questo film, e d’altronde il fanatismo è piaga umana, peccato mortale – sta anche nella messa in scena della stessa: i chiaroscuri in cui prevale lo scuro, la polvere e il fumo d’incenso che riempiono l’aria, i tessuti spessi tenuti fermi dal loro stesso peso, i cori apocalittici, ogni dettaglio fa sì che la breccia di Porta Pia sappia poi, effettivamente, di liberazione.

Nel volto di Pio IX sta anche la riflessione più contemporanea che Bellocchio fa con Rapito: cosa succede quando anche coloro che dovrebbero guidare cominciano ad avere la bava alla bocca e gli occhi iniettati di sangue? Cosa succede quando i grandi della Terra si ammalano o, peggio, impazziscono, chiede il regista, a noi che esistiamo qui e adesso. Succede il trauma individuale e l’orrore collettivo. In una delle scene centrali del film, uno stralunato Edgardo si trasforma nel mezzo della processione che accompagna la salma di Pio IX a San Lorenzo fuori le mura. Il Papa-re-tiranno è finalmente abbastanza debole da permettere ai sudditi-schiavi di ribellarsi e di vendicarsi gettandone i resti terreni nel Tevere. Il momento, catartico, spezza Edgardo in due: prima si frappone tra la folla e il padre putativo, poi si unisce ai ribelli al grido di «buttiamolo nel fiume, ‘sto porco di un Papa», poi scappa tra le vie di Roma e alla fine torna in Chiesa.

Ma la sfiducia è anche, come detto, per la famiglia d’origine, per la comunità d’appartenenza, per lo Stato. Salomone Mortara, il padre di Edgardo, è debole come tutti i bravi uomini: spera negli avvocati, nei giudici, nelle aule di tribunale. Ma non capisce, Salomone, che nei momenti in cui la storia cambia si confrontano poteri vecchi e rabbiosi e poteri nuovi e fragili. Il Regno d’Italia non ha ancora le forze per condannare frati, monsignori, cardinali e Papi, la famiglia Mortara esce sconfitta dal suo giorno in pretura: i giudici decidono che Feletti non è colpevole, ha solo obbedito agli ordini – l’accostamento con gli esecutori della volontà hitleriana, qui, si fa particolarmente sfrontato – e rispettato il “suo” diritto. L’avvocato dei Mortara si dice soddisfattissimo: è la prima volta che un inquisitore si trova inquisito, dice. Ma quando libereremo mio figlio, gli chiede Salomone. Quando libereremo Roma, gli risponde l’avvocato. Cioè quando sarà ormai troppo tardi.

Quando Salomone tenta degli atti di violenza potenzialmente risolutivi, fallisce sempre, come sempre accade ai bravi uomini. A un certo punto tenta di rapirlo lui, suo figlio,  ma lui e i suoi compari prendono il bambino sbagliato, sono costretti a scappare e a ringraziare la Chiesa per la benevolenza di non sporgere denuncia. Marianna Padovani Mortara, mamma di Edgardo, è debole come sono costrette a esserlo le donne in quell’epoca e in quel contesto. Può solo mostrare la sua furia omicida nel volto, con l’intensità delle stelle del cinema muto, e rivolgerla ai suoi aguzzini. Poi accettare che ormai è troppo tardi e alla fine morire con la consapevolezza che non c’è più niente da fare. Il figlio Edgardo verrà al suo capezzale con l’acqua santa nascosta nella manica in cui un tempo nascondeva la mezuzah. Vuole battezzarla e ripagarla del dono della vita. «Sono nata ebrea e morirò ebrea», risponde lei, che aveva rifiutato la conversione in cambio del figlio, figurarsi se le può interessare in cambio della vita.

È un film disperato, Rapito. Ma, come spesso gli è capitato soprattutto nella terza parte della sua carriera, Bellocchio non riesce ad abbandonare del tutto la speranza. C’è una scena in cui un Edgardo ancora bambino cede al fascino dell’iconografia cristiana, al sangue, alle spine e ai chiodi del crocifisso («glieli hanno messi gli ebrei», gli spiegano le donne che lo hanno accompagnato da Bologna a Roma). Si sveglia una notte, va in chiesa, si arrampica su un enorme crocifisso e rimuove i chiodi dai polsi e dai piedi di Gesù. Poi lo vede scendere dalla croce e uscire dalla chiesa. Sembra volerci dire, Bellocchio, che persino il Salvatore ha perso ormai ogni fiducia e, invece che tornare una seconda volta, se potesse se ne andrebbe una volta per tutte. O, forse, vuole consolarci dicendo che se persino il crocifisso può liberarsi dalle sue pene, allora c’è speranza anche per noi.