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Alla grande parata militare di Xi Jinping in Cina hanno partecipato anche dei soldati-lupi-robot Hanno sostituito i loro predecessori, i cani-robot, che evidentemente non hanno soddisfatto i generali cinesi.
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Sulla Global Sumud Flotilla c’è anche la scrittrice Naoise Dolan «Qualunque cosa accada sulla barca non potrà causarmi più disperazione di quanta ne provocherebbe il non fare nulla», ha detto.

Puu-tii-uiit?

The End of Silence: Matthew Herbert ha campionato la guerra ed è finito a parlare del canto degli uccellini, come suggeriva Kurt Vonnegut.

04 Luglio 2013

Matthew Herbert è un musicista britannico che ha da tempo rifiutato qualsiasi approccio “robotico” alla musica bandendo dalla sua produzione artistica l’utilizzo di sintetizzatori, pre-set, strumenti musicali “classici” e sintetizzatori. Nel corso della sua carriera ha quindi optato per la registrazione e il campionamento di suoni naturali. Come si legge nel manifesto che scrisse nel 2000, «ogni campionamento di musica altrui è altamente proibito» e gli unici suoni utilizzabili sono quelli “inediti”, esistenti in natura ma mai utilizzati per creare musica. Tale filosofia ha portato Herbert a firmare una trilogia in cui rumori “vitali” vengono fatti a pezzi e riassemblati per formare lunghe suite di musica elettronica: One Pig è un’opera basata sui suoni prodotti da un maiale nel corso della sua vita, dall’allevamento al mattatoio per finire su una tavola imbadita; One Club si basa su campionamenti tratti da una discoteca; One One è composto da sample “personali” del musicista, tratti dalla sua vita quotidiana.

«La prima domanda che la gente mi fa», ha spiegato nel 2011 a Sound on Sound, «è “perché hai fatto un album ispirato a un maiale?” E per me è la domanda sbagliata: bisognerebbe invece chiedersi perché fare album usando le chitarre. Ci sono milioni e milioni di canzoni fatte con la chitarra e poche fatti con i maiali». Per lui l’invenzione e la diffusione del campionatore, avvenuta 30 anni fa, è «stata una rivoluzione» che ha abbattuto per sempre le barriere concettuali tra musica e suono; le sue canzoni sono politiche perché impregnato di temi sociali ma non sono mai canzoni “di protesta” – genere nobile ma vituperato (e ormai innocuo?).

Con il suo ultimo lavoro, The End of Silence (Accidental Records, etichetta di proprietà dell’artista), ha usato l’esperienza della trilogia One per andare oltre, raccontando l’orrore, la guerra e la distruzione – tutte cose che hanno un enorme e troppo spesso inesplorato nesso con il suono – a partire da un dettaglio storico. L’album consta di tre lunghi brani – da 24, 10 e 18 minuti – formati dalla deformazione di un unico sample di 5 secondi di una bomba sganciata da un caccia di Gheddafi in Libia nel 2011: sono pochi attimi tragici, che iniziano con un vociare denso di terrore e finiscono con il boato della bomba in lontananza. La registrazione fu fatta sul campo dal fotografo Sebastian Meyer: «c’è qualcosa in questo suono che non può essere colto dalla fotografia», ha spiegato Meyer sul suo sito. Di seguito la clip audio integrale – si sentono grida, espolosioni e Meyer che scappa dal bombardamento.
 

 
The End of Silence inizia proprio così per poi contorcersi subito, allungandosi, abbassandosi e procedendo in una mutazione continua in cui il sample diventa la guerra e l’album un viaggio grottesco al suo interno: come ha spiegato Herbert, il suo intento è «di bloccare la storia, metterla in pausa e viaggiare all’interno del suono», perché «nonostante l’accesso immediato ed eterogeneo alle news da tutto il mondo, è difficile trovare qualcosa che intacchi la pellicola di distacco che il computer crea» tra noi e gli eventi. «Ascoltando quel suono, si è costretti a vivere quel momento».

Il boato della bomba va quindi vissuto accompagnato dalle grida delle persone, per renderlo più mostruoso e reale. Ma c’è un altro elemento che ricorre nell’album: sono altre brevissime registrazioni di cani e uccellini che abbaiano e cantano. Dopo che la guerra ha distrutto per sempre il silenzio – al suo posto esiste solo il campionamento che ricorre sempre più disumano e grottesco – l’unico suono che si sente è quello di qualche animale.

Lo diceva anche Kurt Vonnegut, quando nel primo capitolo di Mattatoio 5, ricorda quando assistette al bombardamento inglese di Dresda, in Germania, al quale era sfuggito riparandosi con altri in un mattatoio. Finito l’attacco, lui e i suoi compagni uscirono dalla struttura e camminarono sulla «Luna», ovvero le rovine di Dresda ancora calde: non c’era nulla di vivo, nessuno di loro parlava o aveva qualcosa da dire. L’unico rumore che si sentiva era quello degli uccellini sugli alberi, che cantavano all’impazzata.

Sono due modi opposti di parlare di guerra: Herbert lo fa da testimone virtuale, da spettatore in un’epoca in cui si può assistere a un combattimento in diretta dal divano di casa; Vonnegut lo fece da reduce che ha convissuto per decenni con la sindrome da stress post-traumatico (*) e ha dovuto aspettare 23 anni per riuscire a scrivere dell’evento – finendo per raccontare una storia di guerra, alieni e viaggi nel tempo. Il primo quindi ha fatto il possibile: ha “campionato” un pezzo di Storia e l’ha dissezionato per trovarne il senso. Nel processo, non ha trovato traccia di silenzio, perché il rumore ha finito per inghiottire tutto. Il suono è diventato la guerra: non rimane altro e il silenzio è morto insieme a tutto il resto. Vonnegut invece rimase ossessionato dal silenzio della morte e dal contro canto degli uccellini, che non a caso sono le uniche voci di cui si serve anche Matthew Herbert, pur tentando di distruggerle e sfigurarle in suoni osceni. In entrambi i casi il loro vociare compare in un contesto che con il soave canto di madre natura non ha nulla a che fare: sono allo stesso tempo elementi inquietanti e di speranza.

Che due artisti di caratura diversissima ed esperienze diverse siano giunti alla stessa conclusione – uno procedendo a tentoni, l’altro ricordando – potrebbe non essere casuale. Entrambi hanno finito per inventare un mondo fatto, a seconda dei casi, di alieni di Tralfamadore e di rumori, per raccontare una storia che non può essere raccontata. Quello che voleva fare Herbert, forse, era un disco vuoto, muto, ma gli è stato impossibile perché il silenzio è scomparso: è stato distrutto digitalmente oppure coperto dall’eco delle bombe.  Aveva ragione Vonnegut (**), il reduce, il testimone oculare, quando scriveva che

non c’è nulla di intelligente da dire su un massacro. Si suppone che tutti siano morti, e non abbiano più niente da dire o da pretendere. Dopo un massacro tutto dovrebbe tacere, e infatti tutto tace, sempre, tranne gli uccelli. E gli uccelli cosa dicono? Tutto quello che c’è da dire su un massacro, cose come “Puu-tii-uiit?“.

(*) A tal proposito si legga l’intervista a Nanette Vonnegut, figlia dello scrittore, di The Rumpus e lo studio “Diagnosing Billy Pilgrim: A Psychiatric Approach to Kurt Vonnegut’s Slaughterhouse-Five” pubblicato da Critique: Studies in Contemporary Fiction (pdf).

(**) COME SEMPRE, AMEN.

Immagini: una fotografia di Sebastian Meyer; la copertina di The End of Silence

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