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Pound a Rapallo

L'Italia nella vita del grande poeta raccontata da sua figlia Mary de Rachewiltz in un libro-intervista appena uscito.

09 Ottobre 2018

Dicono che non sia mai facile essere figlio di un grande poeta. E forse si possono anche intuirne le ragioni. La figlia di Dante pare abbia terminato i suoi giorni in convento, quella di Joyce impazzì, mentre il figlio di Laughlin, il padre fu un prestigioso editore americano oltre che poeta, si tolse la vita in circostanze, griderebbero le cronache, misteriose. Figuriamoci se tuo padre si chiama Ezra Pound, ed è stato non solo uno dei più importanti poeti del Novecento ma anche uno dei più discussi, al punto che nel 1953 la casa editrice Guanda, pubblicando I Canti Pisani, che in America avevano già vinto il premio Bollingen, si sentì in dovere di avvertire i lettori con la seguente fascetta: «Anche con idee sbagliate si può fare buona poesia».

I poeti «non dovrebbero avere figli e qualora li avessero, dovrebbero farli educare da altri, come mio padre ha fatto con me», confessa Mary de Rachewiltz, figlia di Ezra Pound e della violinista americana Olga Rudge, che alla nascita venne affidata a una famiglia di contadini tirolesi (Pound era sposato con Dorothy Shakespear) e che a distanza di quasi mezzo secolo dalla sua autobiografia (Discrezioni) torna, in un libro-intervista, Ho cercato di scrivere paradiso (scritto da Alessandro Rivali per Mondadori), a raccontare l’universo poundiano, il rapporto con il padre e il suo commovente lavoro di traduzione dei Cantos, monumentale opera del poeta americano, una sorta di epica Divina Commedia sulla civiltà umana che di fatto occupò la sua intera esistenza. «La sua vita», ci tiene a sottolineare la figlia, «si può comprendere solo attraverso i Cantos».

Mary de Rachewiltz oggi ha 93 anni e vive prigioniera, per scelta, nel silenzioso rifugio del castello di Brunnenburg (Castel Fontana), nel Tirolo, tappa obbligata per chiunque voglia conoscere l’ultimo Pound, dove è custodita la sua biblioteca (l’archivio è a Yale) e dove tornò, seppur brevemente, nel ’58, al suo rientro in Italia. Ma se in quel paesino inerpicato tra le montagne si possono ritrovare le radici e gli affetti del poeta, oltre a una serie di cimeli letterari che farebbero la gioia di qualsiasi bibliofilo (prime edizioni introvabili, inedite lettere battute a macchina), i suoi ricordi più felici certamente rimandano a quel golfo del Tigullio che lui aveva scelto come Eden a metà degli anni Venti, quando si fermò definitivamente a Rapallo proveniente da Parigi, dove era diventato il punto di riferimento della Generazione Perduta. Senza di lui forse Joyce non avrebbe pubblicato l’Ulisse e The Waste Land, l’opera più celebre di T.S. Eliot, non sarebbe certo stata la stessa. Il suo amico Hemingway, che gli aveva insegnato a tirare di boxe e che non perdeva occasione per elogiarlo, «Pound mi ha insegnato a diffidare degli aggettivi, come poi imparai a diffidare di certa gente», andò a trovarlo sulla costa ligure nel maggio del ’23, assieme alla moglie Hadley. Non trovandolo, e annoiandosi da morire, in quel soggiorno di due settimane scrisse un magnifico racconto ambientato proprio a Rapallo, “Gatto nella pioggia”, che riusciva a rendere nobile anche la monotonia.

W. B. Yeats invece lo raggiunse a Rapallo nel 1928, assieme alla famiglia. Le sere d’estate, quando non passeggiavano su per le colline, si ritrovavano spesso a conversare nel celebre appartamento di Pound in via Marsala 12, quello con i quadri di Wyndham Lewis appesi alle pareti, le sculture di Henri Gaudier-Brzeska, e le matite appese a spaghi che scendevano dal soffitto. Si trattava di una mansarda con terrazzo all’ultimo piano del caffè Rapallo, sul lungomare, e lì, davanti a quella che doveva essere una vista meravigliosa, più volte Yeats chiese spiegazioni a Pound sulla struttura dei Cantos. «Ora, finalmente, lui mi spiega che una volta finito il centesimo canto», scriverà in seguito Yeats, «il poema rivelerà una struttura simile a quella di una Fuga di Bach». E che la musica fosse «la rivoluzione a cui pensava mio padre», lo spiega anche Mary de Rachewiltz. «Prima c’era la rima, il sonetto, l’endecasillabo; con Pound entra in scena il ritmo musicale eterno».

In quel periodo la frenesia artistica di Pound è palpabile e non si arresta alla poesia. Tra il 1924 e 1945, stando al biografo Donald Gallup, scrive almeno una trentina di libri e innumerevoli interventi su giornali e riviste. Fonda una rivista, The Exile, si occupa di mandare avanti il supplemento culturale del settimanale Mare, organizza elegantissime serate vivaldiane e mette in piedi quelle che un suo allievo, James Laughlin, chiamò ironicamente l’Ezruniversity, che altro non erano che colazioni letterarie che Pound aveva con i suoi giovani adepti, spesso seguite da passeggiate pomeridiane.

Poi, lentamente, iniziò a prendere il sopravvento il suo periodo più torbido, scandito dall’ossessione per l’economia, l’odio verso le banche, l’ammirazione crescente per Mussolini, «credo che vedesse in lui quello che Machiavelli vide nel Principe», disse una  volta la figlia, i toni da demagogo fino al delirio antisemita e a quelle frasi pronunciate alla radio che gli costeranno l’accusa di tradimento da parte degli Stati Uniti (in realtà mai dimostrata). Il resto è storia: l’arresto nella casa di Olga a Sant’Ambrogio, appena sopra Rapallo, dove si era rifugiato durante la guerra, lo spostamento nel campo di prigionia vicino Pisa, nella “Gabbia del Gorilla”, il trasferimento in America e l’internamento nel manicomio di St. Elizabeths, a Washington, dal quale uscirà ben dodici anni dopo. «Fu l’unico posto in America dove si potesse vivere, giacché fuori erano tutti matti», dirà al suo ritorno in Italia, in un momento di ritrovata ironia.

Esce nel ’58 e l’anno successivo è già a Rapallo. Dove si stabilirà definitivamente nel ’62, stanco, debilitato, con seri problemi urologici e una sopraggiunta depressione che gli provocherà anche problemi di mobilità. Dimagrito e invecchiato, Pound vive in una condizione di mutismo quasi assoluto, seppur contraddetto da improvvisi lampi di vitalità. Ha oramai perso quasi del tutto la voglia di scrivere. E anche quella «barba color carota» che tanto piaceva a Eugenio Montale. Ad immortalarlo nel suo eterno torpore ci penserà Lisetta Carmi, nella sua seconda vita da fotogiornalista. Si recò senza annunciarsi a Sant’Ambrogio con la speranza di scattare qualche fotografia con la sua Leica. Quando bussò alla porta fu direttamente Pound ad aprire, in vestaglia e pantofole, e improvvisamente la fotografa genovese capì di trovarsi di fronte un anziano signore sequestrato dal silenzio: il volto sofferente, i capelli increspati, le sguardo proiettato verso l’infinito. Pound non proferì parola, ma chissà se in quel preciso istante non gli sia venuto in mente un celebre verso dei suoi Cantos: «lasciate che un vecchio abbia quiete». Quel 11 febbraio del ’66 Lisetta scattò in quattro lunghissimi minuti circa 20 foto, dalle quali poi selezionò 12 fotogrammi che fecero il giro del mondo e che raccontavano per immagini la disperazione di un uomo. Quelle foto, commentò Umberto Eco, «dicono più di tutti gli articoli scritti su di lui».

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