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Luigi Mangione non è più accusato di terrorismo ma rischia comunque la pena di morte L'accusa di terrorismo è caduta nel processo in corso nello Stato di New York, ma è in quello federale che Mangione rischia la pena capitale.

Il problema dell’Italia con il pop

Che cos’è il pop italiano? E, se esiste, sappiamo raccontarlo? Un discorso sui nostri complessi culturali.

16 Ottobre 2018

Qualche settimana fa mi è venuta voglia di vedere Sharp Objects. Sharp Objects è una serie americana di quelle che ci tengono molto a farsi percepire come “di qualità”: luci basse e meno trama possibile. Quando è iniziata negli Stati Uniti (in Italia è in onda su Sky Atlantic dal 17 settembre) e mi hanno mandato le puntate in anteprima, mi ha appassionato talmente tanto che l’ho mollata a metà della prima. Però poi qualche settimana fa in America è andata in onda l’ultima puntata, ed è successo quel che succede tutte le volte: articoli sul colpo di scena finale, interviste all’autrice sui cambiamenti rispetto al libro, riflessioni d’autore su quella rivelazione inserita nei titoli di coda nell’ultima puntata. Succede tutte le volte, e ogni volta mi fa sembrare imperdibile il prodotto che mi sono appena persa. Succede tutte le volte, lì.

In primavera, qui è andata in onda una serie di Niccolò Ammaniti, Il miracolo. Aveva quel crescendo d’irresistibilità che hanno le migliori serie americane (quelle che alla prima puntata dici «Mah, insomma», e a metà stagione aspetti le nuove puntate con la pazienza di Christiane F. quando frequentava lo zoo di Berlino), e soprattutto aveva Sole Pietromarchi, il miglior personaggio femminile comparso in un prodotto italiano dai tempi della Tea Guerrazzi (l’arrampicatrice sociale di Eleonora Giorgi in Sapore di mare 2).

Le due copertine di Studio 36, da cui è tratto questo pezzo

Negli stessi giorni in cui qui è finita Il miracolo, in America è finita l’ultima stagione di The Americans, e Vulture ha pubblicato uno sterminato pezzo sulla puntata finale, in cui ogni dettaglio da fanatici (cioè: da tossici che aspettano la puntata dopo, una modalità normale tra i consumatori di cultura popolare) veniva analizzato: come si era deciso quale fosse l’ultima inquadratura e cosa dovesse dire di quegli anni di vita dei protagonisti, da cosa dipendessero i movimenti nella scena in cui la spia si confrontava col migliore amico agente dell’Fbi, quali canzoni erano state prese in considerazione prima di scegliere “With or Without You”. A cosa servono i giornali? A svelarmi che quella scena lì l’avevano provata con “American Pie”.

E Il miracolo? Niente. Certo, Ammaniti è un autore famoso, e quindi le interviste si sono sprecate, perlopiù prima. I giornali italiani vogliono arrivare prima: prima della messa in onda, della distribuzione nelle sale, dell’uscita in libreria. Prima che un prodotto abbia modo di far parte della conversazione collettiva. Prima della concorrenza, dicono loro. In pratica: prima che a qualcuno freghi qualcosa di leggere di quella cosa. Quindi, dopo, nessuno ha fatto l’intervista che volevo leggere. Nessuno ha chiesto agli autori a che gruppi Facebook fosse iscritta la mamma zelante che vede Sole Pietromarchi strattonare i figli al centro commerciale e la sputtana on line; nessuno ha indagato sul perché la mamma di Alba Rohrwacher lasci il proprio patrimonio a un canile invece che alla figlia; nessuno mi ha detto chi ha ucciso la bambina calabrese; eccetera.

Gemelle Kessler / Kessler Twins, Canzonissima, 1969 (immagini della mostra “TV 70: Francesco Vezzoli guarda la Rai” Fondazione Prada, Milano – Courtesy Rai Teche)

Ammaniti è una star (nessuno si senta offeso), e quindi gente che forse aveva visto una puntata della serie ha continuato a intervistarlo dopo la conclusione, eccezionalmente; ordinariamente facendogli quelle domande generiche e non appassionate che gli aveva fatto prima che cominciasse: come mai una serie e non un romanzo? Lo scambio virtuoso cui dovrebbero servire le pagine degli spettacoli – io do una cosa interessante al già fan della serie che quindi mi compra per leggermi, il mio lettore che la serie non l’aveva mai vista s’incuriosisce leggendo il mio pezzo e quindi ne diventa spettatore – si azzera, nessuno ci guadagna niente.

Se in italiano non c’è un modo per dire “think piece”, la lunga riflessione su un fenomeno culturale in cui conti il punto di vista di chi scrive e quel che ha studiato della storia dell’intrattenimento, è perché noi quella roba lì non la facciamo: al massimo chiediamo al cantante se scriva prima la musica o le parole (e all’attore come si sia immedesimato nel personaggio). In Italia l’unica cultura popolare che venga percepita come valevole riflessioni dai giornali è lo sport. Il resto è turnazione della multiproprietà: Ammaniti l’abbiamo già coperto prima che andasse in onda, oggi tocca a un altro cui pure non sappiamo cosa chiedere perché ancora non l’ha visto nessuno però l’importante è coprirlo prima e poi darlo per fatto. Il resto è lasciato alla buona volontà dei singoli; a quell’imprevisto che è la comparsa, ogni tanto, di qualcuno capace di raccontare. Quando il funerale di Carlo Vanzina si è chiuso con “Sapore di sale”, mi sono chiesta cosa ne avrebbero fatto Beniamino Placido o Edmondo Berselli; i viventi ne hanno fatto un niente, un inciso in un pezzo di cronaca, tanto “Vanzina l’abbiamo già coperto”. Per non parlare di Oronzo.

Raffaella Carrà, Canzonissima, 1970

Oronzo (cognome non pervenuto) era lo «Sparisci, sgorbio» di Temptation Island, il programma con cui Maria De Filippi ogni estate ci racconta le smanie di quella parte di Paese che sfoglia la Settimana Enigmistica invece delle pagine culturali. La trama, per chi avesse passato l’estate col catalogo Adelphi acceso e la tv spenta, consiste nel separare delle coppie e indurle in tentazione per vedere se si tradiscono. Se quelli che cianciano di alto-e-basso avessero acceso la tv, avrebbero assistito alla presentazione delle signorine che dovevano tentare i maschi delle coppie di Temptation Island: vestite come le ancelle della Atwood, una mescolanza di alto e basso di quelle di cui in teoria le redazioni dei giornali sono ghiotte e di cui nella pratica non ci accorgiamo neanche se c’investono a bordo d’un tir.

Oronzo, dicevo. Nella coppia Oronzo e Valentina, lui era quello che faceva il fenomeno e lei era quella che frignava. Lui aveva cominciato Temptation Island mettendo in valigia gli occhiali da sole; lei gli aveva detto scherzosa ma rassegnata: «Così puoi guardare i culi». Due settimane dopo, lui era ovviamente distrutto dal dubbio e dalla lontananza e dalla difficoltà di percepirsi figo quando sei uno sgorbio circondato da telecamere, quindi l’ha supplicata di tornare a casa insieme. Il gesto con cui l’ha fatto, pronto per diventare meme e gif e tutte quelle parolacce da millennial, è stato il lancio degli occhiali da sole nel falò di scena (ha mancato l’obiettivo, ma conta il pensiero). Oronzo è diventato tutte quelle parolacce ma non è diventato uno straccio di “think piece”. Perché Temptation Island era “già coperto”, o per quel fenomeno del presente che non si sa se sia declino delle élite o semplice sfiga: dove c’erano Eco e La Capria ci sono funzionari Rai senza qualità; dove c’era Guccini c’è Fedez; dove c’era Troisi c’è Siani; dove c’era la fila fuori dai cinema che proiettavano La dolce vita non c’è niente; e dove c’erano Placido e Berselli non c’è nessuno.

Forse il problema sono i morti. Ci penso spesso, ci ho pensato tutta l’estate vedendo Techetechetè: il problema è che noi il valore delle cose lo riconosciamo solo in forma di retromania. “Noi chi? Parla per te”, diranno i miei piccoli lettori. Sospetto ci sia uno specifico complesso culturale di noi italiani. Noi che a un certo punto abbiamo deciso che Freccero fosse intelligente, e quindi di ripetere come una declinazione latina imparata a memoria il suo «Bisogna mescolare l’alto e il basso». È un errore, tecnicamente. I prodotti culturali non sono “alti” o “bassi”: sono “larghi” o “stretti”, sono intrattenimenti per le masse o per pochi selezionati che hanno gli strumenti per decrittarli. Ma chiunque abbia frequentato anche solo per 49 minuti uno psicanalista sa che gli errori sono rivelatori, e quindi “alto” e “basso” è perfetto, dice di noi che consideriamo rilevante e prezioso ciò che innalza e conduce a iddio onnipotente, e basso ciò che fa ridere, che è triviale e corporeo e conduce all’inferno e persino, facciamoci il segno della croce, vende e fa soldi. D’altra parte noi abbiamo avuto Renzo Tramaglino, mica Jay Gatsby: è del tutto naturale che, se ci troviamo davanti gli incassi di Checco Zalone, il sospetto sia la nostra prima chiave, rieducare le masse che guardano la cosa sbagliata il nostro primo tentativo; e che, quando infine ci arrendiamo ad analizzare un fenomeno, lo facciamo tardi e male, quando il fenomeno già ride di noi e della nostra pretesa di spiegarlo.

Il complesso culturale degli italiani, dicevo. Di quelli che non oserebbero mai chiedere alla cultura d’intrattenerli, anzi la riconoscono come tale solo se ostica, oscura, forse addirittura ostile. Un nemico che va protetto: come osa Fabio Volo pubblicare dei libri – e non importa se i suoi libri vendano più di quanto abbiano mai fatto i suoi film o i suoi programmi, rendendolo indubitabilmente un titolare nella categoria degli scrittori, mica un imbucato – non importa perché noi abbiamo fatto le squadre, e abbiamo deciso che lui non appartiene alla cultura. Quella dalla quale ci sembra impossibile cavare qualcosa che non sia noia che ci eleva spiritualmente, e che quindi non può che finire a pernacchie come tra i ginnasiali di Amarcord. Come loro, prima di prenderlo a pernacchie abbiamo risposto, al professore che domandava: «Bella la lingua greca, vero?», «Ostia!». Posso mai dire che non me ne frega niente, di questa lingua di gente autorevolmente morta? Ostia, certo che no. Posso mai cercare di deviare il discorso sulle storie magnifiche, e ben più appassionanti dell’aoristo, che in quella lingua venivano raccontate? Ostia che no, è cultura, mica siamo qui per divertirci.

Tra tutti questi alti e bassi, la domanda è che fine abbia fatto il medio, quel medio che poi è il pop: non il prodotto culturalmente impresentabile, né quello di nicchia che piace agli intellettuali

I morti, dicevo. Possono essere anche vivi, purché invecchiati. Siamo soliti dire che Techetechetè punta sulla nostra nostalgia: tutto quel che veniva trasmesso quand’eravamo giovani e forti ci sembra magnifico, le merendine di quand’ero bambino – Marcel Proust e Nanni Moretti ve l’hanno spiegato meglio di me. Ma sospetto non sia solo quello. Se la Rai 1 del 2018 mi fa vedere un’esecuzione di “50 Special”, io riconosco la perfetta canzone pop. Ma non è nostalgia: nel 1999 mica la ascoltavo. Sono cambiata io? Forse, ma soprattutto lei ha perso quel difetto: non è più un frivolo prodotto del presente, ma un classico storicizzato. Una volta fatte le squadre tra alto e basso – tu stai con Togliatti o con Vittorini, con l’arte come auspicio rivoluzionario o come consolazione della borghesia, con la necessità di elevarsi o col bisogno di divertirsi – solo il tempo può mutarle: il prodotto divenuto vintage non è più basso, i film che oggi vengono rimpianti come simboli dell’epoca in cui “ah, sì che si sapeva fare la commedia all’italiana”, quando erano volgarmente contemporanei, venivano stroncati come «deteriore bozzettismo paesano» o «ritratto dell’Italietta provinciale». Non è neanche una sindrome strettamente legata al rincoglionimento dell’età e alla nostalgia della via Gluck: nella discoteca bolognese che frequentavo durante il liceo, si ballavano “Figli delle stelle” e “Gloria”, che erano di dieci anni prima. Non avevamo ancora un passato ma ne riconoscevamo già la patina prestigiosa.

Chiunque abbia frequentato anche solo per 49 minuti uno psicanalista sa che conoscere il meccanismo non basta a liberarsene. È dallo scorso Sanremo che, tra bolognesi, ci si scambiano messaggi indignati contro Lo stato sociale, il gruppo di nostri concittadini che è arrivato secondo con “Una vita in vacanza”. Se qualcuno di noi dovesse finire in qualche indagine, e i nostri messaggi pubblicati tra le intercettazioni, non saremmo in grado di renderne conto: perché sosteniamo che quei cinque ci fanno vergognare d’essere bolognesi? Cos’hanno fatto, a parte una canzone così moschicida che, mentre scrivo quest’articolo, l’ho ascoltata una dozzina di volte? Perché ce l’abbiamo con un gruppo pop se esso fa la perfetta canzone pop? Siamo diventati come quei tromboni che schifavano il Jovanotti ventenne e darebbero un rene perché il Jovanotti cinquantenne mettesse un cuoricino al loro Instagram?

Tra tutti questi alti e bassi, la domanda è che fine abbia fatto il medio, quel medio che poi è il pop: non il prodotto culturalmente impresentabile che distrae le masse, né quello di nicchia che piace agli intellettuali, ma quello che unisce le due istanze. È Beyoncé che ci manca, mica la serie di nicchia da pay tv o il varietà senza velleità del sabato sera. Oddio, in realtà il varietà un po’ sì: una cosa impressionante, nel guardare Techetechetè, è quanta roba ci fosse alla fine del secolo scorso, e il quasi deserto recente: se l’unica cosa degli ultimi vent’anni che valga la pena recuperare dalle teche Rai è Fiorello, di cos’avranno nostalgia i trentenni di oggi, poverini? Dei programmi di cucina? Probabilmente di Oronzo, cui tra vent’anni saranno dedicati tutti i saggi pensosi che si merita.

O di Chiara Ferragni, che è il vero personaggio pop del decennio, e che incrina la tesi dell’eccezionalità italiana. Ogni volta che qualcuno obietta “Sì, ma che lavoro fa?” o “Sì, ma per cosa è famosa?”, vengo presa dallo sconforto: cos’è vissuto a fare Andy Warhol se ancora non abbiamo capito che la fama in sé è un mestiere e un talento e un’arte? Poi mi ricordo che la stessa obiezione la fanno alle Kardashian, e allora mi viene il sospetto che non siamo gli unici a dire cose ottuse sentendoci intelligentissimi, non siamo gli unici personaggi drammatici che si esprimono in modo involontariamente comico. Forse siamo gli unici che rinfacciano a Chiara Ferragni d’essere ricca mentre c’è chi non sa come arrivare a fine mese, o a Checco Zalone di non abbassare i prezzi dei biglietti con quel che incassa, forse quell’eccezionalità lì è tutta nostra. Ma ha a che fare col rapporto difficile degli italiani col capitalismo, mica col pop.

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