Cultura | Polemiche

Quando Goffredo Parise e Noam Chomsky litigarono sul Corriere

Una vecchia storia dimenticata ma esemplare che ha a che fare con il Vietnam e il ruolo degli intellettuali.

di Piero Sorrentino

Il capo della polizia di Saigon Nguyen Ngoc sul punto di giustiziare un prigioniero accusato di essere un Vietcong nella foto che valse il Pulitzer a Eddie Adams (1968)

È il maggio del 1970, una piovosa primavera vietnamita è appena iniziata ad Hanoi, le palme sul delta del Fiume Rosso svettano alte sopra la nebbia che avvolge le piccole case colorate. Goffredo Parise cammina solo in un crepuscolo sporco, le spalle al sole che sembra una torcia elettrica accesa dietro una sottile tenda grigia. L’ambasciata del Vietnam del Nord e l’Unione degli Scrittori Sovietici lo hanno invitato a compiere un viaggio in compagnia dei partigiani del Pathet-Lao, lungo il “sentiero di Ho-Chi-Minh”, la pista scavata nella roccia che collega il Vietnam del Nord a quello del Sud attraverso la quale i Vietcong trasportano uomini, mezzi e rifornimenti per i combattenti anti-americani durante la guerra.

È la terza volta che lo scrittore visita il Sudest asiatico, la seconda ad Hanoi. Tre anni prima, tra l’aprile e il maggio del ’67, quattro lunghi articoli con le prime corrispondenze di Parise dal Vietnam erano comparsi su L’Espresso, quattro pezzi che Giangiacomo Feltrinelli manda in libreria qualche mese dopo in un piccolo volume intitolato Due, tre cose sul Vietnam. Torna ad Hanoi a distanza di un anno dalla sua prima visita nella Repubblica Democratica del Nord Vietnam, quando una importante rivista sovietica, Novij Mir, aveva tradotto e pubblicato i reportage dell’Espresso, che erano molto piaciuti al governo di Hanoi. Una visita di venti giorni “molto ufficiale”, ricorderà anni dopo, durante la quale stringe contatti con i soldati comunisti del Laos.

Tempo un anno, e Parise è di nuovo in visita nei territori del Nord Vietnam. Fa un giro in Cambogia, resta qualche giorno nel Laos, poi salta a bordo dell’aereo della Commissione internazionale di controllo che fa la spola tra Saigon, Phnom Penh, Vientiane, Hanoi. Il mezzo è appena decollato verso un cielo chiaro, sopra macchie di boschi verde cupo, quando Parise si accorge che il suo vicino di posto è Noam Chomsky. La schiena rigida, la cintura di sicurezza stretta attorno alla pancia, e in testa un buffo cappellino con la visiera incurvata che gli dà l’aspetto di un giocatore di baseball intento a scrutare la curva della palla che avanza veloce verso di lui. Scambiano qualche parola, Parise scopre che anche a lui è arrivato il medesimo invito del governo di Hanoi. «Ha letto della presenza di combattenti vietnamiti in Laos e Cambogia? Una ingerenza massiccia e ingiustificata nei loro affari, a quanto pare…», dice Parise, sporgendosi un po’ verso il professore. Dopo quelle parole si spalanca come il vuoto di un salto altissimo, Chomsky fissa gli arabeschi sottili di ghiaccio sul finestrino. «Propaganda americana», dice, prima di chiedere all’hostess quanto manchi all’atterraggio. La donna sorride, dice qualcosa in francese. «Hanoi è un luogo libero e democratico», taglia corto Chomsky, prima di restare in silenzio per il resto del viaggio.

Goffredo Parise a Milano, nel 1982 (Photo by Paolo Monti).

Il giorno dopo, mentre Parise passeggia al tramonto sentendo addosso tutta la fatica del viaggio, il peso della strada che scala il fianco arido della collina dove sorge il loro albergo, incrocia di nuovo il famoso linguista. «Buonasera professore! Ha dunque trovato libertà e democrazia, qui?». Chomsky si toglie con esasperante lentezza un grosso cappotto scuro, rivelando il collo magro e pallido. «Il livello degli studi di linguistica di Hanoi è di altissimo livello. Buonasera», dice, raggiungendo a passo svelto un gruppetto di ospiti dell’albergo che lo attende poco oltre, con timorosa deferenza.

Otto anni dopo, Goffredo Parise racconta questo episodio sulle pagine del Corriere della Sera, sabato 7 gennaio 1978. “C’era una volta un piccolo Vietnam” è il titolo. L’occhiello recita: «Come sono cambiati i rapporti di forza in Indocina». Un’unica fotografia a corredo del pezzo: una bambina cambogiana di quattro o cinque anni, vestita di bianco, circondata da un gruppo di militari in mimetica, giovani e sorridenti. La didascalia del pezzo recita: Phnom Penh: bambina cambogiana in zona di guerra. «Vorrei rivedere Noam Chomsky – è l’ultima riga del pezzo – ma cui prodest?».

Passano due mesi. La questione sembra chiusa lì, quando il 9 marzo 1978, un giovedì, il Corriere della Sera pubblica la replica del docente americano: “Le vittime della propaganda”. Due colonne di puro veleno. Accanto, la risposta di Parise: “Non faccio il gioco americano”. Entrambi i testi sono riuniti sotto un unico occhiello: «Una polemica tra Noam Chomsky e Goffredo Parise sulle guerre in Indocina».

«Ho ricevuto – comincia così il pezzo di Chomsky – una copia del Corriere della Sera del 7 gennaio nella quale Goffredo Parise presenta un resoconto completamente falso di diversi brevi colloqui che egli ebbe con me durante una visita ad Hanoi nel 1970. Secondo Parise, io ero convinto che ad Hanoi avrei trovato “la libertà, la democrazia eccetera” e che non essendo mai stato in quella che egli chiama “una repubblica socialista” (espressione che non userei mai) ero “molto emozionato ed entusiasta”. Di fatto, io rifiutai di discutere con Parise qualsiasi argomento politico, poiché il suo sforzo di recitare la parte dell’“intellettuale europeo sofisticato” mi colpì subito per la sua puerilità e fastidiosità e semplicemente diffidavo della sua capacità di riferire con precisione qualsiasi cosa io avessi potuto dire: giudizio che, come vedo, era interamente esatto”» È vero, conferma Chomsky, che quando Parise gli chiese le sue impressioni sul Vietnam, «io gli risposi discutendo unicamente lo stato della linguistica. Ciò è perfettamente esatto. La ragione non era, come egli amerebbe credere, che io fossi “molto imbarazzato” nel non trovare “la libertà”, ma piuttosto che non avevo né il tempo né l’interesse a parlare ad un giornalista, che consideravo inattendibile e superficiale. Perciò mi limitai a commenti che non avrebbe potuto distorcere ai suoi fini». E se Parise sostiene anche che il linguista ha negato l’evidenza dell’intervento nord-vietnamita nel Laos e nella Cambogia, dicendo che si trattava di propaganda americana, semplicemente, afferma Chomsky, «io non avevo alcun interesse a discutere con lui e non lo feci». In ultima analisi, «il resoconto fatto da Parise sulle mie opinioni, di cui egli evidentemente non sa nulla, è non soltanto falso ma ridicolo, come riconoscerà subito chiunque abbia la più piccola familiarità con ciò che io ho scritto».

Noam Chomsky ad una conferenza in Messico nel 2009 (Photo credit should read Ronaldo Schemidt/AFP/Getty Images).

Confermo tutto quello che ho scritto, è la sostanza della replica di Parise: «La prova è l’excusatio non petita, non priva di arroganza e di vanità, che egli invia al Corriere. Arroganza e vanità, specialmente se prodotte da impressioni fuggevoli su di una persona e non su fatti e ragioni, sono sempre la spia, anche linguistica, della falsa coscienza».

E in cosa consisterebbe, secondo Parise, questa scusa non richiesta di Chomsky? «Nella sua lettera Chomsky dichiara di essere sempre stato “avversario impegnato ed energico della dottrina e della prassi leninista”. Ecco la spia, l’excusatio non petita della sua falsa coscienza. Ma proprio questa dottrina e questa prassi si sono imposte militarmente in Indocina». A fronteggiarsi, insomma, sarebbero secondo Parise due modelli di intellettuale: «Il fine di Chomsky era quello di un intellettuale americano della new left, direttamente impegnato contro una guerra di cui riteneva responsabile il proprio Paese: il mio fine era quello di un intellettuale italiano non obbligatoriamente impegnato in quella guerra da ragioni di parte se non quella di capire le cose». In chiusura, Parise accusa Chomsky di guardare con interesse al potere politico: «Molti intellettuali anche famosi non si contentano della loro fama, vogliono di più, attratti dalla politica come dallo strumento che essi credono il più potente per cambiare il mondo. Alcuni, dotati per questo, riescono, ahimè!, nel loro intento: se non di cambiare il mondo, di far credere a molti di cambiarlo. Altri, dotati per altre discipline, non meno rivoluzionarie ma di minor potere sulle masse, falliscono e s’infuriano. È il caso di Chomsky».

Passano sette anni. Nel frattempo, Parise pubblica i Sillabari, a causa dei quali subirà numerosi attacchi sui giornali per il conclamato e orgoglioso disimpegno politico dei due volumi di racconti. La polemica con Chomsky sembra intanto sopita. Ma il 14 aprile del 1985, a poco più di un anno dalla sua morte, il Corriere pubblica un pezzo di Parise intitolato “Raccontai di aver visto Hanoi intatta e fui quasi linciato”, nel quale lo scrittore torna a ricordare quel viaggio vietnamita in un miscuglio di sentimenti ed emozioni, scetticismo e furore: «In tutto l’Occidente era scoppiata la “vietnamite”: la malattia delle bugie e del conformismo […] Bisognava “credere” che il povero ed eroico popolo vietnamita combatteva per l’indipendenza. Invece no, un fico secco. Combatteva, come ancora continua a combattere, per l’espansione territoriale e per conto terzi: l’Unione sovietica. Era chiaro come il sole. Ma bisognava credere. Personalmente non ho mai creduto a nulla di nulla, se avevo qualche dubbio andavo a toccare con mano e sul luogo, e poi tornavo a non credere a nulla».

La foto che correda il testo, stavolta, è decisamente meno neutra e rassicurante di quella che raffigurava la bambina cambogiana circondata dai giovani soldati sorridenti del pezzo del ’78. È lo scatto simbolo della guerra del Vietnam, quello in cui il generale Nguyen Ngoc Loan giustizia un prigioniero vietcong con un colpo di pistola alla testa: un’immagine che valse al fotografo Edward T. Adams l’assegnazione del premio Pulitzer.

A metà pezzo, Parise torna ancora una volta – per l’ultima volta – su quell’incontro con Noam Chomsky. Stavolta i giri di parole sono davvero pochi, come se la consapevolezza della fine che si avvicinava lo avesse reso meno sfuggente, e non per una torbida collera montata in ritardo negli anni – forse, non solo per quella – ma come per fissare una volta per tutte un punto fermo di una missione lunghissima, recuperando i resti di una discussione lontana e irrevocabile, da inventariare e custodire per l’ultima volta: «Io feci il viaggio con Noam Chomsky che rividi dopo pochi giorni e mi assicurò che la facoltà di Linguistica dell’Università di Hanoi era di altissimo livello. Era antipatico e supponente e anni più tardi ebbi con lui una polemica per le sue bugie. Chomsky è uno che legge anche le virgole di un giornale turco, se parla di lui, e polemizza. In realtà egli scrisse per la New York Review of Books dei reportage vergognosi su Vietnam, Cambogia e Laos. Così fecero i suoi soci tipo Susan Sontag, Mary McCarthy e altri americani bugiardi e troppo snob».