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Il guasto di Cloudflare è stato così grave che ha causato anche il guasto di Downdetector, il sito che si occupa di monitorare i guasti su internet Oltre a X, ChatGPT, Spotify e tanti altri, nel down di Cloudflare è andato di mezzo anche il sito a cui si accede quando tutti gli altri sono inaccessibili.
Il nuovo film di Sydney Sweeney sta andando così male che il distributore si rifiuta di rivelarne gli incassi Christy sembra destinato a diventare il peggior flop dell'anno, il quarto consecutivo nel 2025 dell'attrice.
Diversi grandi hotel sono stati accusati di fare offerte ingannevoli e fuorvianti su Booking L’authority inglese che si occupa di pubblicità ha scoperto che quelle convenientissime offerte non sono mai davvero così convenienti.
Gli scienziati hanno scoperto che il primo bacio sulla bocca è stato dato 21 milioni di anni fa E quindi non se l'è inventato l'homo sapiens ma un ominide, un antenato comune di uomini, scimpanzé, gorilla e orango, animali che infatti si baciano.
Non si capisce bene perché ma Nicki Minaj è andata alle Nazioni Unite a parlare dei cristiani perseguitati in Nigeria Sembra che a volerla lì sia stato Trump in persona, dopo che in più occasioni Minaj gli ha espresso pubblico supporto sui social.
La nuova tendenza nell’industria del beauty è vendere prodotti di bellezza anche a bambine di 3 anni Da anni si parla di Sephora Kids, ma adesso ci sono storie che riguardano bambine addirittura più piccole.
Il Ceo di Google ha detto che nessuna azienda si salverebbe dall’eventuale esplosione della bolla dell’intelligenza artificiale Sundar Pichai ha detto che la "corsa all'AI" è un tantino irrazionale e che bisogna fare attenzione: se la bolla scoppiasse, nemmeno Google uscirebbe indenne.
La cosa più discussa del prossimo Met Gala non è il tema scelto ma il fatto che lo finanzierà Jeff Bezos Il titolo e il tema del Met Gala di quest'anno è Costume Art, un'edizione realizzata anche grazie al generoso investimento di Bezos e consorte.

Peter Morgan: come si trasforma una monarchia in una serie tv

Chi è lo sceneggiatore di The Crown, da sempre interessato al ridicolo che si cela dietro al potere.

21 Novembre 2019

Nelle prime due stagioni di The Crown, la regina Elisabetta di Claire Foy è una donna neanche trentenne che, proprio come suo padre, si trova a ricoprire un ruolo per il quale non si sente preparata e che, in fondo, non desiderava per se stessa. Nella scena iniziale della terza stagione, disponibile su Netflix da domenica 17 novembre, la regina Elisabetta di Olivia Colman è una donna sulla soglia dei suoi quarant’anni che osserva, in una stanza piena di uomini al suo servizio, le gigantografie del suo volto che finiranno sulle banconote. È il momento di aggiornarle: non più il profilo della giovane regina all’alba della nuova epoca elisabettiana annunciata da Churchill nel 1953, ma quello di una donna matura che sembra già aver iniziato a eternarsi nella silhouette che i telespettatori conoscono, e cioè quella della Elisabetta di oggi. «Tutti alle Poste sono deliziati dal nuovo profilo, sua Maestà, che riflette con eleganza il passaggio da giovane donna a…», dice l’ossequioso segretario, «A vecchia strega», risponde lei.

È in momenti come questo che la scrittura di Peter Morgan, lo sceneggiatore della serie, brilla di più, quando con il tono piatto della più impassibile fra i membri della famiglia reale, riesce a farci immaginare cosa c’è dietro la corona, i palazzi, il protocollo e tutto il resto. Senza mai concedere troppo, perché in fondo la monarchia, nel 2019, è qualcosa di intellegibile e rappresentarla è un’operazione blasfema, per cui The Crown è intrisa di quell’intelligibilità e lascia che siano i riti, le routine, le occasionali licenze dalla storia ufficiale a raccontarci Elisabetta e quelli che la circondano. In un lungo profilo-intervista scritto da Giles Harvey sul New York Times, Morgan, figlio di un ebreo tedesco e di una cattolica polacca rifugiatisi a Londra dopo la guerra, parla proprio del rapporto che, da autore, ha instaurato con la storia e i personaggi che la popolano. Per spiegare il suo approccio ricorre a una serie di conferenze tenute nel 2017 da Hilary Mantel per la Bbc, dove la scrittrice e critica letteraria esplorava gli scopi, vincoli e le criticità che chi scrive romanzi storici deve affrontare. «La storia non è il passato, è il metodo che abbiamo sviluppato per organizzare la nostra ignoranza del passato», dice Mantel, «È la registrazione di ciò che è rimasto, non è più “passato” di quanto non lo sia un certificato di nascita rispetto alla nascita, una sceneggiatura rispetto a una performance, una mappa rispetto a un viaggio». E sono quegli spazi vuoti, scrive Harvey, che sia Mantel che Morgan riempiono con il loro lavoro di scrittura. Il che non significa “riscrivere” la storia, quanto invece «trovare un modo per riempire i buchi di cui è disseminata».

Olivia Colman in una scena della terza stagione di The Crown

Come la scena di fronte alle gigantografie delle banconote o come quella in cui Elisabetta e il primo ministro laburista Harold Wilson si confessano a vicenda le discrepanze tra il loro personaggio pubblico e la persona reale: lei che non riesce a emozionarsi e non sa fingere la compassione che il suo ruolo richiede, lui che in tv e nelle foto fuma la pipa invece del sigaro, che preferisce, per mantenere la sua immagine di socialista puro, di uomo del popolo.

La bravura di Peter Morgan, e il motivo per cui The Crown potrebbe essere uno di quegli esperimenti televisivi che dalla lunghezza trae maggiore beneficio, è quella di insinuarsi perciò in quei buchi di storia, e di riempirli con un racconto che non è mai né magnificente né denigratorio. Come ha fatto in The Deal, il film del 2003 diretto da Stephen Frears che racconta l’amicizia e la rivalità tra Tony Blair e Gordon Brown, di cui ha scritto la sceneggiatura. Come ha fatto in The Queen del 2006, il film con Helen Mirren che gli è valso l’investitura popolare di cantore della corte britannica, e come ha fatto nell’opera teatrale The Audience, del 2013, con cui ha immaginato le conversazioni tra la regina e i tanti Prime Minister che si sono succeduti nel suo lungo regno. Già in The Deal è evidente come a Morgan interessino i risvolti più banali, tra il ridicolo e l’insignificante, delle lotte di potere e più in generale dei grandi avvenimenti che hanno segnato il Regno Unito, di cui si è sempre sentito parte solo a metà, lui figlio di immigranti senza più una comunità, cresciuto nei sobborghi residenziali di Londra in una casa dove si parlava tedesco.

Mentre fuori da Netflix Kate Middleton, William, Harry e Meghan Markle sono impegnati anche loro in una perigliosa riscrittura di un’istituzione difficilissima da inquadrare nel contemporaneo – solo qualche tempo fa commentavamo lo sfogo di Meghan di fronte alle telecamere di ITV News – sui nostri schermi va in streaming la decostruzione di quel mito documentata da The Crown. Che così si assicura almeno altre tre stagioni, volendo fare un calcolo approssimativo (la quarta è già in lavorazione). E Peter Morgan, che non ama essere intervistato, diffida degli autori sempre in tv, è fidanzato con Gillian Anderson ma non è affatto mondano, è il maestro di cerimonie perfetto. Conosce bene tutte le storie, tutti gli aneddoti, tutte le cronache, tutti i rituali anche, ma non scivola mai, come fa il segretario di fronte alle banconote, nell’ossequio. Tutto il contrario. Peter Morgan è sempre, con molta eleganza, di una sfrontatezza brutale.

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