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Cinema e vita di Pedro Almodóvar

Incontro con il grande regista spagnolo.

15 Agosto 2019

Il cinema è come un’edicola di Milano. «Stamattina scendo a fare una passeggiata, vedo un’edicola, mi avvicino, cerco una rivista che voglio comprare. Il giornalaio mi chiede una foto con lui, cosa a dir la verità piuttosto rara, e poi mi fa: “Questo è il mio ultimo giorno, stasera chiudo per sempre”. Sono quegli episodi che ti fanno pensare alla tua vita. Io da ragazzo facevo una lunga strada prima di arrivare all’edicola. E quando la vedevo, lì in fondo, con le sue luci, ero contento. Lì, dentro quei giornali, c’era la vita». Pedro Almodóvar – a cui non mi stupisco abbiano chiesto una foto: lui continua a trovarlo piuttosto bizzarro – non ha però il tono della nostalgia. Mai. Mette il passato in prospettiva, sorridendo.

La parola bilancio non mi è mai piaciuta, non piace nemmeno a lui. Non è un bilancio nemmeno Dolor y gloria, il film ultimo e bellissimo che, fosse anche solo per il protagonista-regista che ripensa alla sua carriera, è per molti una raccolta di pezzi di vita vera e di cinema immaginato, realizzato, per sempre codificato. «Quando ho iniziato a scriverlo, non ero cosciente della strada che avrebbe preso, men che meno del finale. Il dolore fisico lo stavo vivendo, ma non volevo scrivere di quello. E però era l’unica cosa che riuscivo a raccontare. Andavo in piscina ed ero felice, solo lì non sentivo nessuna tensione fisica. Un giorno ho chiesto a un amico che era con me di farmi una foto mentre ero in acqua: volevo vedere il potenziale cinematografico, diciamo così, di quell’immagine. Ho pensato che c’era. Ho cominciato a scrivere. E ho capito che l’acqua della piscina era il veicolo per arrivare all’acqua dei ricordi, al fiume della mia infanzia. I ricordi più belli di quand’ero bambino sono legati a quel posto. Mia madre andava lì a lavare i panni – la stessa scena che poi ho messo nel film – e io sentivo quella vitalità, quel brandello di spettacolo davanti agli occhi. Il mio presente doveva trovare un’alternanza col passato. Succede sempre così. Non avrei mai fatto un film solo sul mio dolore».

The artist is present, fin dalle prime parole, e, chissà quanto involontariamente, racconta il suo processo creativo. «Scrivo racconti, non li pubblico ma lo faccio di continuo. Nella mia testa, ciascuno di essi potrebbe diventare una scena di dieci-quindici minuti, se mai mi servirà dentro un film. E penso che ogni storia, prima o poi, troverà la sua collocazione, il suo film. El primer deseo (Il primo desiderio, ndr) è un racconto che ho scritto quando avevo vent’anni, ho sempre provato a infilarlo dentro un film e ora ce l’ho fatta. Così come il monologo sulla dipendenza dalla droga, che è dentro una raccolta di testi sulla movida degli anni ’80, l’avevo buttato giù come un piccolo divertimento comico e crudele». Il finale arriva dopo, sempre. «Quando scrivo non so mai dove arriverò. Le ultime scene mi vengono scrivendole. In questo caso, sapevo che avrei introdotto l’elemento della morte come una delle tante possibilità, ma che il protagonista si sarebbe salvato: era il modo per salvare me stesso». Non si conosce la fine, ma nemmeno l’inizio. «La genesi di ogni sceneggiatura è complessa e misteriosa. Dicono che Dolor y gloria è un compendio dei miei film precedenti e certo, lo capisco, ci sono tanti temi ricorrenti. Ma se è un bilancio, non ne ero cosciente».

I film precedenti sono al centro della nuova personale appena cominciata alla Fondazione Prada di Milano e avanti fino a settembre, la prima Soggettiva dedicata allo spagnolo più famoso di tutti, i suoi capolavori dall’Indiscreto fascino del peccato alla Legge del desiderio, e Tacchi a spillo, Parla con lei, tanti altri. E poi una selezione di titoli spagnoli visti o invisibili, e altri che Pedro ha prodotto. Un bilancio? Giammai. In Dolor y gloria il personaggio di Cecilia Roth, già splendida protagonista di Tutto su mia madre, anche questo in rassegna, dice al regista Salvador Mallo/Antonio Banderas: «I film fatti in passato sono sempre gli stessi». Sottotesto: siamo noi ad essere cambiati. «È così, ha tutto a che fare col passare del tempo, un elemento che si aggiunge al film e lo cambia, un fattore che prima era fuori dal quadro e invece diventa decisivo per capire cos’è diventata quell’opera. L’elemento più interessante delle retrospettive è vedere come il tempo ha trattato i miei film. Credo siano stati rispettati». Cambia lo sguardo degli spettatori, cambia lo sguardo del regista. «Io tanti miei film non li ho mai voluti rivedere. Poi ho dovuto: per forza. Due anni fa, per una rassegna in Spagna, m’hanno chiesto di introdurre alcune proiezioni. La mala educación, per dire, non l’avevo mai più rivisto. Ne avevo un ricordo molto amaro: riprese difficili, problemi con gli attori, scene completamente riscritte mentre stavamo girando. Rivederlo dopo quattordici anni mi ha riconciliato con quella storia. Ora sono contento di averlo rivisto». Il tempo appiana il dolore. «Sono molto critico con il mio lavoro in generale, ma soprattutto nel momento in cui finisco di girare. A quel punto, devo accettare che il film sarà quello e non un altro. È un processo molto intimo che non svelerò mai a nessuno, figuriamoci a un giornalista».

«Da grande volevo fare l’aggettivo», diceva Federico Fellini, e difatti lo è diventato. «Felliniano» esiste nella misura in cui, molti anni dopo, è esistito «almodovariano», tutti sappiamo cosa significa, forse anche di questo c’è una formula da non svelare mai. «E invece non c’è. Dopo il successo di certi film, la tentazione di ripetere quella ricetta m’è pure venuta. Mi piacerebbe ancora oggi girare una commedia che funzioni come Donne sull’orlo di una crisi di nervi (anche questo nella soggettiva, ndr): ma, pure se ci provassi, non saprei come farla. Penso di reinventarmi ogni volta, certo con il tempo ho trovato un metodo, ho acquisito esperienza tecnica, ma non riesco a razionalizzare il mio lavoro. La parola che definisce il cinema è sempre e solo una: incertezza».

Almodovariano è, nella nostra testa, un modo di raccontare e raccontarsi controcorrente, la movida appunto, e la libertà, i colori, quegli attori lì, e le case, le canzoni, il sesso. Come sta oggi la vecchia voce della minoranza camp negli abiti dell’autore mainstream? «Se mainstream vuol dire aver guadagnato spettatori, se vuol dire che i miei film circolano meglio di quanto facessero agli esordi, allora sì: mi sento diventato maggioritario. In Paesi come l’Italia, la Francia e il Regno Unito il mio cinema ormai arriva al grande pubblico, trent’anni fa chi l’avrebbe mai pensato. Ma per me il mainstream è, da parte di chi scrive, il tentativo di prevedere cosa vuole il grande pubblico, e dunque provare a inseguire il gusto della maggioranza. Io questo tipo di concessioni non le ho fatte mai. Forse il pubblico è cresciuto insieme a me. O forse è solo che i miei film oggi non sembrano trasgressivi come potevano esserlo negli anni ’80. Quello era un periodo iconoclasta per definizione, io volevo solo imporre la mia mentalità, raccontare la nuova Spagna. Se il risultato è stato scandaloso, l’ho preso come una risposta comunque viva». Dolore o gloria? «L’etichetta di provocatore di scandali m’ha accompagnato per anni, ma non ci ho sofferto mai. L’ideale, da artista, è incontrare la complicità del pubblico, vedere che gli spettatori si rispecchiano in ciò che racconti. Quello è accaduto. Altri si sono indignati, ma l’ho accettato. Vuol dire che erano vivi i miei film ed era vivo il pubblico. Io certamente la trasgressione non l’ho mai cercata. Non sono come Madonna, lei sì cerca lo scandalo. Io ho sempre scritto naturalmente quel che mi sentivo di scrivere, se poi la gente ne usciva scioccata andava bene comunque. Non mi sono mai voluto mettere nella situazione di dover difendere i miei film: sono quello che sono. Solo una volta è successo, ma perché in quel caso fu quasi censura. Légami! uscì negli Stati Uniti classificato come un film pornografico, confinato nei cinema a luci rosse. Con la Miramax, che lo distribuiva, denunciammo la Motion Picture Association of America, che decide il rating di ogni film. Vincemmo la causa a New York, e da quell’anno, era il ’90, i distributori statunitensi dovettero inventarsi una nuova classificazione per quei film d’autore che sì, avevano scene di sesso molto esplicite, ma non erano certamente dei porno. Ecco, solo in quel caso ho difeso un mio film come si difenderebbe un figlio».

Questa storia sul senso (e il consenso) del pudore, oggi di ritorno, racconta la libertà raggiunta. Anche l’omosessualità, sfrenatamente e anticonformisticamente vissuta nel cinema di Almodóvar, oggi è diventata mainstream? «Ha guadagnato in visibilità. Si è normalizzata, se posso usare questo termine». Tanti che, come lui, militavano trent’anni fa criticano proprio questo: l’imborghesimento, le cerimonie di nozze noiose come quelle etero, il sogno della famiglia e del mutuo. «Che la gente possa vivere la propria sessualità molto più liberamente mi sembra un fatto solo positivo. Ma i problemi mica sono scomparsi. Madrid è sempre stata tollerante con noi omosessuali, ormai è la capitale mondiale del Gay Pride: ma ancora c’è chi picchia le coppie di ragazzi che passeggiano tenendosi per mano. In Italia non so. Ma, finché Roma dentro di sé avrà uno stato così profondamente omofobo come il Vaticano, possiamo parlare davvero di normalizzazione?».

Pedro è un autore europeo, i suoi film hanno iniziato a circolare ovunque quando l’Europa abbatteva i suoi confini, fino al successo, per l’appunto, in Italia, in Francia, nel Regno Unito: «Ma oggi gli inglesi li possiamo ancora chiamare europei oppure no?». Ride. «Io mi sono sempre sentito un autore europeo, nella misura in cui essere europei significava poter condividere culture diverse. Oggi il cinema è sempre più digitale, il che dovrebbe facilitare tutto questo. Le nuove tecnologie semplificano la distribuzione. E democratizzano i processi di avvicinamento dei giovani aspiranti autori alla narrazione cinematografica: io avevo solo i Super8 artigianali. Ma credo che oggi in Europa si vedano molti meno film europei rispetto a trent’anni fa. Il gusto degli spettatori è peggiorato, almeno in Spagna, per ragioni commerciali, o va’ a sapere per cosa. Le sale chiudono, posti di provincia che prima avevano il loro cinema ora non ce l’hanno più. Il cinema nelle sale io continuerò a difenderlo: è lì che sono nato». Senza nostalgia. Come per la storia di quell’edicola, fa un sorriso.

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