Il concerto degli Oasis a Manchester è stata l’ultima notte della nostra adolescenza

Racconto di una giornata passata in attesa del concerto più atteso dell'anno, tra (troppe) birre, merchandise ovunque, Millennial attempati e karaoke continui.

15 Luglio 2025

Questa storia della reunion degli Oasis, nel mio caso specifico, era iniziata in modo rocambolesco e surreale sin dall’acquisto dei biglietti, quando l’estate del 2024 volgeva caldamente al termine, ormai quasi un anno fa. Mentre quel famigerato sabato mattina qui nella vecchia Europa tutti bestemmiavamo sul sito di Ticketmaster accedendo da ogni dispositivo immaginabile, ritrovandoci in code virtuali che per capire quante persone avessimo davanti dovevamo mettere il dito sullo schermo per dividere decine, centinaia e migliaia, un’amica riusciva a portare in salvo l’antico vaso con lestezza e nonchalance connettendosi da un telefono collegato a un Vpn dal Wi-Fi di un bar/minimarket a caso in mezzo allo Sri Lanka, dove si trovava in vacanza.

In pellegrinaggio a Manchester

Stretta la foglia, larga la via – stacco – venerdì ci si ritrova a Malpensa con un amico (l’amica che aveva comprato i biglietti nel frattempo aveva dato forfait, producendo reazioni allucinatorie in chi lo scopriva) per salire su un volo Ryanair diretto a Manchester.
Ora, io sono cresciuto in una famiglia di sinistra e da bambino non ho mai frequentato granché la parrocchia, ma sono anche cresciuto in provincia e il gene della provincia non ti lascia e non ti tradisce mai. Anzi, in certe inaspettate occasioni si riattiva, come un richiamo atavico, e così è stato proprio mentre eravamo lì in coda, con il nostro zainetto e senza priority boarding. Quello che sembrava un classico Boeing 737-800 della compagnia irlandese infatti si stava trasformando in un torpedone da gita del GREST, da blitzkrieg dell’azione cattolica, da pellegrinaggio alla Giornata Mondiale di quella che un tempo era stata Gioventù.

E niente importa che le facce e le stempiature fossero di quelle che si incontrano sui voli Orio al Serio-Istanbul “pacchetto trapianto 4 giorni tutto incluso”, no, niente, perché lo spazio tempo già lì in quel gate sfigato e ai confini dell’aeroporto stava cominciando a liquefarsi e ad arrotolarsi su se stesso e noi eravamo tutti, nessuno escluso, dei teenager. E come tutti i teenager eravamo sudati, ed eravamo eccitati, ed eravamo impauriti, ed eravamo spavaldi, ed eravamo rumorosi, e, va detto, come tutti i teenager puzzavamo pure un po’.

C’è un aspetto da sottolineare. Brutto forse, ma qui si sta facendo giornalismo con la G maiuscola e non abbiamo paura di dire le cose come stanno. La reunion degli Oasis è una roba da maschi. Come è una roba da maschi il calcio, tipo. E non è una questione valoriale o politica, è proprio una questione numerica. Ma ci torneremo dopo. Manchester è una città di mezzo milione di abitanti, che non è neanche tanto, ma sembra più piccola. È grande come Genova, ma quando poi ci arrivi sembra più di stare a Brescia o a Padova. Il centro è uno sputo, lo giri a piedi e ci sono dei tram che cercano di stenderti ogni 3 minuti. Tutti i posti dove vuoi andare – un bar, un ristorante, lo store Adidas che per l’occasione è re-brandizzato Oasis e c’è la coda fuori – sono uno a dieci minuti dall’altro. Se uno pensa di farci un giro un weekend qualunque e ritrovare in città le tracce del glorioso spirito indie e underground che ha dato vita ad alcune delle band migliori della storia (sì, è così, non c’è neanche da stare qua a discuterne) – i Fall, gli Smiths, i Joy Division, i New Order, gli Stone Roses, i Charlatans, gli Happy Mondays, gli Inspiral Carpets, ovviamente gli Oasis, e poi tutto ciò che è stata l’Haçienda e il clubbing e l’acid house – rimane abbastanza deluso.

Oasis City

Ci sono dei pub con le locandine disegnate da Peter Saville o con le foto di Ian Brown da giovane e la musica di prammatica, ma sembrano più tempietti votivi per turisti che non luoghi vivi che abbiano una qualche reale rilevanza. E del resto sono anche passati quarant’anni. L’incantesimo dei fratelli Gallagher però ha spazzato via ogni possibile nostalgica riflessione e l’effetto oggi è quello di una grande sagra. Il merch del tour è ubiquo. Tanto in vendita, quanto soprattutto addosso a chiunque. È impossibile camminare per strada senza avere nel proprio campo visivo almeno una decina di persone che indossano le maglie del concerto, i bucket hat del concerto, la maglia del Manchester City. In 48 ore di permanenza, non abbiamo incontrato una singola maglia del Manchester United.

E poi ci sono i party col karaoke a tema Oasis nei bar, c’è un concorso per sosia dei Gallagher alle 2 del pomeriggio di sabato, in ogni locale pubblico le playlist sono composte da una canzone degli Oasis alternata a una canzone britpop qualunque, in loop, e i barbieri in vetrina propongono tagli di capelli Gallagher delle varie epoche. Io non ne ho bisogno perché me li sono tagliati come Liam nel 2005 già a Milano e sto a posto.

All’inizio tutta questa roba sembra una porcata, ma già dopo la seconda birra seduti fuori (ci sono 30 gradi, le maglie in acrilico della reunion ti fanno puzzare come un animale) questa frenesia gioiosa e condivisa comincia a sembrarti il paradiso sulla terra. Quando da un pub parte a volume più alto degli altri “She’s Electric” e tutti gli avventori anche dei pub vicini iniziano un coro sincero e sguaiato, viene da commuoversi.

Sono tutti felici. Siamo tutti felici. Non serve neanche stare a spiegare il perché o il per come se uno ha mai messo su un disco degli Oasis. È un pellegrinaggio transgenerazionale in nome di una religione facile, allegra, diretta, ironica. I testi delle preghiere sono facili da capire. Parlano di essere se stessi, di non provare rancore, di sentirsi supersonici e bere il gin and tonic. I paramenti sono semplicemente fighissimi, e continuano a esserlo anche su due cinquantenni in splendida forma: parka, giacche di pelle, occhiali da sole, Adidas Spezial.

La messa è punteggiata di fockin’, maybe e D’You Know What I Mean?. Alla quarta birra io e il mio amico ci chiediamo se non sia la distanza culturale a farci percepire quest’aura e se non ci troviamo invece nel mezzo di un grande inganno e insomma al concerto di Ligabue ma nel nord dell’Inghilterra. Alla quinta birra ci rispondiamo che no, che il populismo cazzone e autoironico così britannico dei Gallagher non ha corrispettivi nel noiosissimo e seriosissimo populismo pop italiano. Formulata questa riposta ci sentiamo meglio. Dopo la settima birra andiamo a dormire. Il giorno dopo è il grande giorno.

Dal centro andiamo a Heaton Park a piedi. Un’ora e mezza di camminata. Una fiumana di bloke con il cappellino e le lattine di birra in mano. Tanti senza maglietta, il me gay trentenne spera si siano messi la protezione solare perché picchia un sole maledetto e loro sono davvero molto bianchi. È uno spirito insieme testosteronico e bambinesco, le ragazze sono poche. Pochissime.

Il concerto perfetto

Quando arriviamo ai cancelli i nostri biglietti non funzionano, per un momento penso delle cose brutte, maledico degli ipotetici hacker scammer srilankesi, invece avevo solo sbagliato a scaricare l’app. Richard Ashcroft apre e canta “Lucky Man” e “The Drugs Don’t Work” e poi chiude con “Bitter Sweet Symphony” e tutti cantiamo con lui. E già questo fa un po’ piangere, non so perché. Lui è sopravvissuto benissimo a se stesso, è ancora fico e ancora magro. Il mio amico dice che lo colpisce la fragilità che ostenta sul palco e io penso che non si potrebbe descrivere meglio di così.

Manca mezz’ora all’inizio dei fratelli. A un certo punto tra le canzoni che risuonano a basso volume per riempire la pausa, parte “I Am The Resurrection” degli Stone Roses. È così bassa che le parole si sentono appena. Ma 80 mila persone come un sol uomo la intonano come un coro da stadio. Io non sono mai stato allo stadio, ma se la sensazione di comunione e liberazione che produce il trovarsi tutti in un posto e condividere la bellezza laica di qualcosa che sia la musica oppure lo sport produce quella cosa lì, allora forse ho capito perché tutto ha un senso.

E poi arrivano Liam e Noel e si danno un pugnetto e poi succede tutto molto in fretta ed è enorme e Liam canta con le mani dietro la schiena, e non si tolgono mai gli occhiali da sole, e sono spavaldi e strafottenti e fichissimi e sostanzialmente impeccabili. I bloke si abbracciano con le birre in mano e ogni tanto uno prende la testa dell’altro sotto braccio e si baciano sulla testa come dopo un goal quando inizia una canzone che per loro significa qualcosa di speciale o è un qualche ricordo di chissà che cosa.

A me viene da piangere durante “Don’t Look Back in Anger” e un ragazzone mi fa cin cin con la birra e mi sfrega con affetto le nocche sulla testa. Gli offro una sigaretta e mi abbraccia. A metà concerto devo andare a pisciare e sulla strada verso il bagno ho un ragazzo davanti che si mette le mani in tasca per togliere il telefono e noto che gli cade una busta di cocaina. La raccolgo, lo raggiungo e gli dico “ti è caduta questa!”. Lui è incredulo, felicissimo, non sa come ringraziarmi. Mi abbraccia. Facciamo cin con le birre. Dice che sono il tipo migliore del mondo. Si chiama Adrian, non lo rivedrò mai più, ma sento che saremo per sempre amici.

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