Cultura | Musica
Gli Oasis, i nostri bulli working class preferiti
Il fascino unico dei Gallagher viene da un'attitudine rock che non ha mai dimenticato la questione di classe.
Sono dell’avviso che la giusta ricetta per una corretta educazione emotiva e culturale stia nell’equilibrio tra lo studio e lo svago. Così sembra però una frase vaga, allora potrei dire meglio: tra la biblioteca e la strada. In un saggio incompiuto di Daniele Del Giudice, uno degli scrittori più colti che la letteratura italiana abbia avuto negli ultimi decenni, c’è un inaspettato passaggio in cui scrive: «Quand’ero ragazzo avevo due famiglie, una era quella dei miei coetanei con cui parlavo di filosofia, di letteratura, l’altra era quella dei miei coetanei motociclisti, con cui parlavo solo di motori; le due etnie si detestavano, nel senso che la mia famiglia dei motociclisti giudicava quella dei filosofi e dei letterati come puri secchioni, e quella dei filosofi e dei letterati e puri secchioni giudicava quella dei motociclisti una famiglia di bruti e snaturati». Questo per spiegare il motivo per cui, per me, non ha mai avuto senso la scelta dicotomica tra Blur e Oasis, scuola d’arte e curva nord, letteratura e motociclisti. Anzi: il valore di questi soggetti è tale solo quando sono bilanciati dal loro opposto.
Che gli Oasis, all’annuncio della reunion, mobilitassero un hype globale così enorme è un fatto che non mi aspettavo, in tutta onestà. È sempre difficile, in effetti, capire quanto è sincera l’esultanza che si avverte attraverso i social network, e quanto invece molte grida di gioia non siano altro che imitazioni fatte per rimanere al passo con la tendenza. Mi chiedo: lo status di band planetaria, come appaiono gli Oasis alla luce di questo annuncio, una band, diciamo, tipo i Coldplay, può convivere con lo status, che richiede dei confini identitari ben più solidi, di band di culto? Mi dico: probabilmente sì. Perché, per quanto riguarda gli Oasis, gli è successo quello che succede talvolta alle grandissime band della storia della musica. Che non riflettono un’immagine unica di sé, ma un fascio di luce così ampio che ognuno ci prende quello che più gli sembra adatto. E quindi naturalmente a Cardiff, Dublino, Wembley e Manchester ci saranno i fan della canzoni d’amore, che vorranno ascoltare “Wonderwall” e poco altro. Ci saranno i carnevaleschi cinquantenni intrappolati nello spazio-tempo del Britpop, con le acconciature ridicole che sono state tanto prese in giro dai meme in questi giorni. Ci saranno i parvenu che hanno seguito l’hype e conoscono giusto tre pezzi, e ci saranno anche certi tamarri (chav) a dimostrarci che più o meno tutto quello che riteniamo “alto”, in Italia, è in realtà poppissimo e massificato nel suo luogo d’origine. Ci saranno hooligan calcistici e nostalgici dei Beatles, e influencer e veri fan working class. Ognuno con il suo pezzo di Oasis. Mi sono chiesto, allora: cos’è il filo rosso nascosto, in questa band, che riesce ad attrarre tutto questo pubblico così eterogeneo?
La risposta non ha molto a che fare con la musica, ma più, penso, con le motociclette citate all’inizio. Farei una premessa necessaria, in questi tempi di facilissime offese, per dire che poche band sono state per me seminali come gli Oasis, nella mia vita. Fatto, proseguiamo. Ecco: il contributo musicale di Liam e Noel alla storia del pop, del rock, e anche a quella nicchia che chiamiamo Britpop, non fu granché importante, e penso che si possa dire senza timore di scomunica. Questo non significa che non siano o siano stati bravi musicisti, compositori, arrangiatori: ma che il loro segno di originalità prettamente sonora sarà sempre meno profondo di quello degli Stone Roses, dei Suede, degli stessi Blur. Quello che invece penso che ci trovino di estremamente affascinante, stavolta sì in senso unico, tutte queste persone, e sono milioni, ha a che fare con la loro parte “motociclistica”. Ciò che gli Oasis hanno saputo fare meglio di chiunque altro, anche a costo di mostrarsi posticci, sfidando il senso del ridicolo, è spremere come nessuno prima l’attitudine del rock’n’roll.
Per questo, è stata fondamentale la narrazione della provenienza working class. Non era una strategia di comunicazione, era vero: entrambi nati e cresciuti in una council house, i Gallagher crebbero con la sola madre, senza progetti universitari né ambizioni accademiche. Liam e Noel ci insistettero così tanto, però, che arrivarono a definirsi più con questa lente che con quell’altra, decisamente più ambiziosa e infatti meno rispettata, di eredi dei Beatles. Così, i rivali venivano screditati tramite lo stesso metro: i Blur diventarono i «middle-class bastards», e i Radiohead dei «boring bunch of fucking students». Nonostante la fama e lo stardom che arrivarono praticamente immediate – nel 1996 2,5 milioni di cittadini britannici si misero in coda per il concerto di Knebworth: il 4 per cento della popolazione di tutto il Regno Unito – gli Oasis non smisero mai di battere il tasto della classe. Ancora nel documentario Supersonic del 2016, con i nostri all’alba dei 50 anni, Noel diceva frasi come: «Siamo arrivati dal niente, e volevamo tutto». Curioso come nel 1994, lo stesso anno di uscita di Definitely Maybe, vedeva la luce anche il più grande successo di Notorious B.I.G. – “Juicy” – con un testo che esprimeva gli stessi – ma declinati in salsa afroamericana – concetti degli Oasis: «Born sinner, the opposite of a winner / Remember when I used to eat sardines for dinner».
L’altro ingrediente fondamentale di questo fascino che ancora perdura è ancora più intangibile, e lo riassumerei nella parola: attitudine. Non è un concetto slegato da quello di classe, e allo stesso tempo non penso sia da confondere con il ribellismo. L’attitudine degli Oasis non era quella autodistruttiva di una Amy Winehouse, di un Kurt Cobain, di un Sid Vicious o uno dei molti componenti del Club of 27. Sì, la droga è stata fondamentale nel loro racconto, ma a differenza di questi ribelli tristi, i Gallagher sono stati soprattutto ribelli cattivi. Gli Oasis hanno voluto essere una gang: la loro attitudine è quella del gruppo di teppisti seduti sulla panchina che non devi guardare negli occhi quando ci passi vicino. «I hope the pair of them catch AIDS and die because I fucking hate them two», una delle più famose frasi di Liam, diretta a Graham Coxon e Damon Albarn, non rientra nemmeno nel più estremo copione del musicista maledetto: è puro bullismo. E nonostante la scorrettezza, i bulli hanno la loro aura, la violenza ha il suo fascino: noi lo sappiamo dalle scuole medie, il mondo lo sa dalla notte dei tempi.
Credo sia tutto questo, insomma, l’umami nascosto, anzi proibito, che ha contribuito a uno status di cult così unico degli Oasis. Naturalmente, anche questo ha a che fare con una questione di classe. Dopotutto le prime gang nacquero a metà Ottocento, quando la regolamentazione del lavoro minorile, diventata più severa e quindi umana, riempì le strade delle metropoli occidentali di ragazzini poveri ma ormai inoccupati, che non si potevano più sbattere in fabbrica, ma che non erano nemmeno più dei bambini – la scuola dell’obbligo arrivò a fine secolo, e fino ai 10 anni. Di questi giovani uomini non si sapeva che farne, come controllarli. Loro, allora, si organizzavano da soli: in bande che facevano paura, che facevano casino. Facevano anche dei gruppi musicali, a volte.