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Si può costruire un nazionalismo di sinistra?

Per anni i liberal hanno sognato un futuro post-nazionale. Forse è stato un errore, dice il politologo di Harvard Yascha Mounk.

di Anna Momigliano

TOPSHOT - The squad of Frecce Tricolori from the Italian Airforce performs during the Airshow "Airpower 16" on September 2, 2016, in Zeltweg. / AFP / APA / ERWIN SCHERIAU / Austria OUT (Photo credit should read ERWIN SCHERIAU/AFP/Getty Images)

Circa tremila anni fa un tizio si mise in testa di costruire una città reclutando gente dai popoli vicini. Fondò una nazione, ben coesa e piuttosto incazzata col mondo esterno, accomunata non dal sangue, ma da un progetto comune. La Roma dei sette re era una società multi-etnica, almeno per gli standard dell’epoca (gli orizzonti geografici del 700 avanti Cristo erano piuttosto ristretti): c’erano latini, sabini ed etruschi. In tempi molto più recenti, ma più barbari, un altro tizio si mise in testa di riportare l’Italia ai suoi romani splendori vaneggiando di una superiorità razziale. Il fatto è che si può concepire una nazione come qualcosa tenuto insieme dal passato o come qualcosa tenuto insieme dal futuro: da un lato il sangue, ma anche una storia e tradizione che si tramandano di generazione in generazione, dall’altro un patto sociale.

Ora, nessuno si sognerebbe di additare la fondazione di Roma come un modello di liberalismo cosmopolita (era gente che cercava moglie rapendo le figlie dei vicini), però è una storia che aiuta a inquadrare alcune sfide odierne delle democrazie occidentali, in tempi di ridefinizioni dei confini e delle identità, di dibattiti sullo ius soli e di etnocentrismi di ritorno. Cosa definisce la nostra comunità d’appartenenza: da dove veniamo o dove vogliamo andare? E, soprattutto, è così importante avere una comunità di appartenenza? Domande ottocentesche che tornano attuali nell’Europa di oggi, dove la sinistra cosmopolita e liberale sembra avere perso parte del suo appeal, e dove sta riscuotendo successi una destra sempre più identitaria. Da qui a poco la Lombardia avrà per governatore un uomo che ha detto: «Dobbiamo decidere se la nostra etnia, se la nostra razza bianca, se la nostra società deve continuare a esistere o se deve essere cancellata», come riporta La Stampa.

Yascha Mounk, giovane politologo tedesco che insegna a Harvard, ha lanciato una proposta: i liberal, ha scritto in un editoriale sul New York Times, devono riappropriarsi del nazionalismo. Devono rompere il monopolio della destra su questo tema, che evidentemente trova consensi tra le masse, ma devono anche trovare il modo di declinarlo in modo diverso. È il momento, sostiene, di creare un nazionalismo inclusivo. Mounk parte da quello che considera un dato di fatto: dall’America alla Russia, dalla Turchia all’Europa, il nazionalismo sta ritornando, ed è probabile che «resterà una forza politica centrale nel futuro prossimo». Questo è un bel problema per la sinistra liberal, che col nazionalismo non va un gran che d’accordo. In parte, ammette, c’è da capirla: la storia del Novecento offre ottime ragioni per guardare con sospetto all’orgoglio nazionale. Il problema però, dice Mounk, è che una reazione diffusa della sinistra è stata «negare la necessità di ogni forma di identità collettiva e invitare la gente a trascendere completamente i legami tribali».

nazionalismo

La direzione presa da molti Paesi in questi anni dimostra che le persone avvertono ancora un forte bisogno di un’identità collettiva. La proposta di Mounk allora è questa: «Invece di inseguire il sogno di un futuro post-nazionale, i liberali dovrebbero sforzarsi di rendere il nazionalismo più inclusivo». L’idea è separare il nazionalismo dall’etno-centrismo, continuare a celebrare l’idea di nazione come comunità d’appartenenza separandola dalla mitologia del sangue. Come esempio cita un discorso di Emmanuel Macron: «Vedo armeni, italiani, algerini, marocchini, tunisini. Ma cosa vedo veramente? Il popolo di Marsiglia, il popolo della Francia». Mounk, il cui ultimo libro, Popolo vs Democrazia, uscirà a maggio per Feltrinelli, è convinto che gli aspetti più pericolosi del nazionalismo possano essere separati da quelli che considera più innocui, se non positivi: «Se il nazionalismo resta associato a un particolare gruppo etnico o religioso, servirà per escludere gli altri o metterli in condizione di svantaggio. L’unico modo per tenere a bada il potenziale distruttivo del nazionalismo è combattere per una società dove l’identità collettiva trascenda i confini etnici e religiosi».

Questa proposta ha molti pregi, ma anche un difetto. Da un lato, si prende atto, senza isterie, di una tendenza osservabile, e cioè che in questa fase storica il sogno post-nazionale della sinistra non se la sta cavando un gran che bene; e partendo da lì si cerca di trovare una quadra. Mounk nota, e a ragione, che non tutto l’orgoglio nazionale vien per nuocere e che a volte può essere una forza propulsiva. Però pecca forse di superficialità quando sostiene che basta separare il nazionalismo dalla mitologia del sangue – o della fede – per renderlo “buono”: se prendiamo alla lettera quello che ha scritto sul Nyt, dire “prima gli italiani” è pericoloso se per italiani s’intende “bianchi di discendenza latina e di fede cattolica”, ma non lo è se per italiani s’intende i cittadini della Repubblica italiana (Studio ha provato a contattare l’autore per chiedere alcuni chiarimenti, ma non ha risposto in tempo per questo articolo). Portato all’estremo, questo ragionamento rischia di essere vicino alla posizione proclamata, almeno formalmente, dalla Lega. Da un lato il “no all’invasione degli stranieri” e il “prima gli italiani”, dall’altro la candidatura di Toni Iwobi, il senatore di origine nigeriana: lui, dopotutto, è cittadino italiano, e noi stiamo dalla parte degli italiani contro gli stranieri, mica siamo razzisti.

Un nazionalismo inclusivo non può essere soltanto una forma di orgoglio nazionale dove l’idea di nazione e di etnia non corrispondono. Per conciliare liberalismo e nazionalismo, è necessario trovare prima il modo di conciliare l’amore per la propria comunità con il rispetto per chi non ne fa parte. La Pasqua ebraica, che si celebra tra poco e la cui tradizione è stata assorbita dal Cristianesimo, celebra l’Esodo dall’Egitto. È una festa in un certo senso nazionalista, perché si ricorda la libertà di un popolo specifico (gli ebrei) dall’oppressione di un altro popolo (gli egiziani) e con mezzi tutt’altro che pacifici (la morte dei primogeniti). Però include due messaggi di apertura all’altro. Il primo, che viene dalla Bibbia, è un appello a rispettare sempre lo straniero: «Ricordati che sei stato straniero nel paese d’Egitto». Il secondo è un canto aramaico: «Noi eravamo schiavi, tu sei il benvenuto». Io l’ho sempre visto come un promemoria: avere una storia condivisa è un onore e un privilegio, e una delle cose più belle di questo privilegio è il potere ospitare a tavola chi di questa storia condivisa non fa parte. Noi eravamo schiavi, tu sei il benvenuto. C’è sempre un noi, ed è giusto che sia così, ma a che cosa serve quel noi senza un tu?