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Scrivere per vendicarsi

Nel suo nuovo libro, L'abito bianco, Nathalie Léger collega la vita di Pippa Bacca, l'artista uccisa in Turchia a 34 anni, a quella di sua madre.

di Laura Pezzino

Un frame dal documentario di Simone Manetti del 2020, Sono innamorato di Pippa Bacca

Se le vite delle nostre madri non fossero così fuori fuoco, allo stesso tempo troppo lontane e troppo vicine, non avremmo bisogno di un telescopio per guardarle. Nathalie Léger, una scrittrice francese sessantenne che frequenta il terreno della cosiddetta letteratura ibrida – tra literary essay, autobiografia e fiction –, ha impiegato una decina di anni e tre libri travestiti da biografie surrogate per capire che quella che stava osservando era proprio sua madre, l’abbandono da parte del marito, la lacerazione e le umiliazioni che ne erano derivate.

Per portare a termine l’esplorazione ha usato il metodo dickinsoniano, di dire la verità ma «obliqua» («il successo è nel cerchio»), passando per le vite di tre artiste, la Contessa di Castiglione, una delle nobildonne più famose del secondo Ottocento protagonista di L’Exposition (non ancora tradotto in italiano), la regista e attrice Barbara Loden in Suite per Barbara Loden (2020) e, infine, Pippa Bacca ne L’abito bianco (La Nuova Frontiera, tradotto da Tiziana Lo Porto, in libreria in questi giorni), dove tratteggia la figura luminosa della trentenne milanese che nel 2008 aveva portato la sua performance in vestito da sposa, il cui candore doveva assorbire lo sporco del mondo, per le strade dell’Europa balcanica e che poi era stata violentata e uccisa fuori Istanbul.

In questo «trittico della memoria» – è proprio la madre a dirle «hai le prove, cioè i ricordi» – Léger, che è anche direttrice dell’Imec, un mega archivio di documenti provenienti da case editrici, riviste e scrittori francesi, indaga, «nidificando» una donna dentro l’altra, l’autorappresentazione femminile in diverse epoche storiche, la fine dell’Ottocento, gli anni Settanta americani e l’Italia, ma si potrebbe anche dire Europa, contemporanea. La sua missione non si ferma qui: man mano che la figura della madre prende corpo – nell’Abito bianco finisce addirittura per rubare la scena alla stessa Pippa – iniziamo a sentirne la voce che ci strazia, come può solo un genitore che chiede aiuto a un figlio: «Puoi agire per me, puoi parlare per me, puoi difendermi e anche vendicarmi».

Quella di Léger, che utilizza la feconda forma del frammento, è, a tutti gli effetti, una scrittura per procura, con tutte le implicazioni tra cui quella di definirsi a un certo punto «vindex» che, nel diritto romano arcaico, era colui che prendeva il posto della vittima e reclamava giustizia. È sua madre a metterle in mano un misterioso fascicolo con le prove delle ingiustizie subite e le chiede di giurare di continuare a «descrivere», di raccontare. In ultima istanza, di «testimoniare» per lei, alla maniera in cui centinaia di donne avevano affidato le proprie parole a Svetlana Aleksievic perché, con esse, scrivesse una storia della guerra che poi, alla fine, si era rivelata essere una storia dei sentimenti.

Mettersi a scrivere per dare voce a un’altra donna, spesso la propria madre, è una postura tipicamente femminile assunta da tante, da Marguerite Duras ad Alice Walker, da Dorothy Allison a Elena Ferrante, come in una via matrilineare alla riparazione perché, scrive Léger,«questo sì, questo la scrittura lo può fare, aggiustare, aggiustare alla cieca, è poco ed è decisivo».

ⓢ Aveva concepito un trittico fin dall’inizio?
No. Ho capito che lo era solo dopo avere finito il terzo libro. Ciascuno mi aveva posto delle domande sia sul piano formale e narrativo sia su quello dell’elaborazione psicologica e dei sentimenti. C’era come una questione legata a mia madre che non poteva essere esplorata se non attraverso questo gioco di nidificazione, di registri narrativi diversi e di circolazione tra interno ed esterno, tra me stessa, un’altra donna e lei.

ⓢ In L’abito bianco sua madre le chiedeva di «fare giustizia». Ora giustizia è fatta?
Sì, e per questo penso che lei non sarà più al centro dei miei libri. È morta un mese prima della pubblicazione, ma ero comunque riuscita a leggerglielo e lei mi aveva detto: “Mi hai salvata”, e penso che per lei davvero qualcosa fosse stato fatto, qualcosa si fosse depositato. Per quanto riguarda, invece, la presenza delle donne e la relazione tra scrittura e arte, ecco credo invece che queste tematiche continueranno ad accompagnarmi nella scrittura, anche se non so ancora quale forma acquisiranno i miei libri futuri. Anche la questione del montaggio è importante per me, per il semplice fatto che è una grandissima fonte di piacere.

 Scrivere «per procura» delle altre donne, delle madri, crede che risponda a un bisogno storico di raccontare i fatti da un punto di vista escluso fino a pochissimo tempo fa?
La questione del femminile nella storia, la potenza e l’impotenza, la necessità di fare sentire la propria voce sono ormai dei dati di fatto. D’altra parte, però, non ritengo che quando si scrive lo si faccia per un qualche mandato specifico. Come scrittori si è attraversati da forze contraddittorie e sotterranee delle quali è difficile parlare in maniera conscia. Con questo non intendo sostenere la visione romantica, ma sono convinta che la letteratura riguardi qualcosa di molto segreto che cerca di dirsi. Quello della scrittura è un sentiero pieno di biforcazioni sul quale è difficile incarnare in maniera programmatica il grande soggetto storico e sociale perché si sta tutto il tempo nell’interiore. Per esempio, io all’inizio non sapevo di volere parlare di mia madre, mi ero fatta condurre da una specie di selvaticità della Contessa di Castiglione.

ⓢ Nessuna scelta politica a priori, quindi.
No, ma quando qualcosa nella scrittura ha iniziato ad affermarsi, e ho compreso meglio la natura della mia relazione con queste donne, allora è emerso il desiderio di affermare qualcosa di politico. Perché quando si parla di donne non si può fare a meno che parlare del politico.

ⓢ Ha ricevuto delle critiche dalle femministe, però.
Per Barbara Loden, per esempio, alcune si erano infuriate perché non era possibile, a loro avviso, parlare di una donna così fragile, passiva e sottomessa ai desideri di un uomo. Ma quello che non avevano compreso era che Loden, tenendosi di lato rispetto alle grandi lotte dell’epoca, aveva cercato di salvarsi la pelle. Ed è per questo che il suo film Wanda è un capolavoro, perché ci dice in modo chiaro quello che significava davvero essere una donna. Per nutrire attivamente una questione non si ha sempre bisogno di ricorrere al dichiarativo: iscrivendosi nel suo negativo, è possibile anche scoprire qualcosa di affermativo.

Pippa Bacca, 9 dicembre 1974, Milano – 31 marzo 2008, Gebze, Turchia

ⓢ Questo modo di intendere la letteratura è un rovesciamento rispetto all’assoluta necessità di assertività dei social media.
Su un versante che definirei più “sociale”, penso che si abbia bisogno di un discorso che sia combattivo e affermativo. Ma questo non vale per la scrittura, che è percorsa da correnti ambivalenti. Per questo mi è così difficile parlare della mia. Non è facile scoprirne le fonti. Non si può procedere in maniera rettilinea, ma per rizomi, e l’incertezza è la sua legge, la sua materia. La storia di Pippa Bacca è esemplare. Io non so se lei abbia avuto torto o ragione. Di sicuro, ha avuto una grande idea e questo deve esserle restituito. E se anche si fosse sbagliata, giudicarla è un errore. È il tentativo che mi interessa, di lei come di tutte le donne artiste di cui parlo nei miei libri. Anche degli uomini, certo, perché non ne faccio una questione di genere, anche se sono convinta che le donne, con le performance, abbiano fatto delle cose impressionanti. Quello della performance è uno strumento di cui le donne sono riuscite a impossessarsi sia per esprimere la propria forza recalcitrante sia per trasgredire, cosa di cui Pippa era assolutamente consapevole.

ⓢ Il tentativo di Pippa Bacca di riparare i torti del mondo assomiglia al suo di riparare i torti subiti da sua madre, non trova?
Tra queste due storie c’è un’implicazione segreta che a lungo non sono riuscita a capire. Tra una madre e una figlia – e sono a mia volta madre di una figlia – è sempre presente un lavoro sotterraneo di identificazione: è solo mia madre che cerca giustizia? Oppure sono anche io che voglio vendicarmi di un padre amatissimo che ci ha voltato le spalle? L’abito bianco è un libro di riparazione per mia madre, ma quando si ripara “a nome di” la riparazione diventa multipla e obbedisce a principi di identificazione e di specchi incessanti. Non so nulla del rapporto che c’era tra Pippa Bacca e sua madre, fino a che punto anche lei si trovasse al centro di un cumulo di contraddizioni. So però che ha cercato di dare una forma a questa complessità attraverso le sue performance.

ⓢ A quali scrittori si ispira per quanto riguarda la frammentarietà della sua scrittura?
Quella struttura mi si è imposta fin dal mio primo libro su Samuel Beckett, ma allora pensavo che fosse dovuta al fatto di non avere mai tempo di scrivere e di doverlo fare negli interstizi. Le fonti che conosco meglio sono due. La prima è Roland Barthes, che dice che nel frammento c’è la gioia di iniziare a finire, che è poi il piacere del ritmo, perché bisogna sia trovare la nota giusta sia non dimenticare quella precedente. Tra le due note, o tra i due frammenti, c’è un soffio, un respiro, che non dico sia importante quanto il frammento stesso ma è comunque potente: quel bianco, quell’ellissi, permettono di creare temporalità differenti. La seconda è Novalis, e il Romanticismo tedesco, per i quali il frammento ebbe un ruolo nell’instaurazione di un nuovo rapporto tra mondo e scrittura. Pur rendendomi conto che il frammento è qualcosa che fa per me, a volte, leggendo Faulkner o Kertész, sogno come potrebbe essere scrivere un libro in un solo soffio, un unico grande frammento contenuto tra due bianchi.

ⓢ Ha detto anche non le interessa esplorare un diverso modo di scrivere in ogni libro e che ama l’idea dello scrittore come di un «recidivo».
C’è stato un momento, tra L’Exposition e Suite per Barbara Loden, in cui ho accettato l’ossessione. Mi sono detta; chi se ne frega se mi ripeto, se parlo ancora una volta di mia madre, se continuo a usare la forma del frammento. Abbiamo questa idea per cui lo scrittore debba essere diverso in ogni libro, ma non è la realtà. Del resto, anche dentro a una frase ci sono sempre le stesse lettere dell’alfabeto che si ripetono. Nel momento in cui ho detto di sì, ho trovato il mezzo di trasformare tutto.

ⓢ In un’intervista sul suo ultimo libro Suivant l’azur, lei ha parlato del «MacGuffin», usato anche da Hitchcok nei suoi film, che è un espediente narrativo – un oggetto che non ha un valore di per sé, ma per quello che significa per i personaggi – che serve da motore dell’azione. Possiamo considerare l’abito da sposa di Pippa Bacca un MacGuffin?
Credo molto a questa teoria e credo che possa riguardare tutto il mio lavoro e in generale il lavoro dello scrittore: a partire dall’Odissea, l’oggetto dell’arte, è sempre un oggetto apparente al quale, in fondo, non si crede.

Fotografia di Danilo Borrelli dal sito di Pippa Bacca, www.pippabacca.it

ⓢ Nell’Abito bianco, a un certo punto sua madre indossa il proprio abito da sposa in quello che penso sia il climax del libro. Che relazione c’è tra quel vestito, quello di Pippa Bacca e il suo?
Tornando all’associazione impossibile, e quindi indispensabile, tra il lavoro di Pippa Bacca e la vita di mia madre, credo che il legame tra di loro sia proprio il vestito da sposa, che potrebbe anche essere considerato il MacGuffin della scrittura di tutte le donne. Con questo intendo dire che ogni donna è abitata da alcuni emblemi, discorsi, oggetti, e che l’abito bianco, almeno per la mia generazione, è uno di questi. Quando mi sono sposata, per esempio, per me era fuori discussione indossare l’abito bianco, perciò indossai una gonna in plastica e cuoio e una camicetta a fiori che mi ero cucite da sola. Quando mia madre indossa il proprio, è lì che raggiunge Pippa Bacca nell’appropriazione epidermica di un passato nel quale si iscrive la storia di tutte le donne che hanno sognato e hanno creduto in ciò che rappresentava quel simbolo – mentre io credo che una donna dovrebbe sognare una cosa sola, di essere libera.

ⓢ Spesso lei ha parlato della «vergogna» di raccontare di sé, una cosa di cui parla anche Annie Ernaux.
Pur non avendo la stessa storia, si tratta della stessa vergogna, perché la vergogna è sempre un’ustione ereditata, ciò che crea quel sistema di lealtà e di promesse non dette alle quali si resta incatenati. E non riguarda soltanto le donne: è quel sentimento di cui parla anche Orson Welles in Rapporto confidenziale, quel senso di tradimento e quella necessità della confessione da cui si inizia a scrivere. E il romanzo, la letteratura, esistono per questo, perché per confessare bisogna mentire».

ⓢ Una volta ha detto che la scrittura è soprattutto una cosa materiale.
È la natura stessa della lingua che ci permette di dire cose astratte passando per cose concrete come le pause e le virgole. Per uno scrittore, il sentimento è un luogo fisico nel quale entrare, guardare e raccontare. Se voglio dire la rabbia, la collera, la vendetta non posso dirle da lontano, ma fare uno sforzo di rappresentazione fisica. E ogni volta mi rendo conto che quando scrivo capisco di più. Scrivere mi rende più intelligente.