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Un paravento di Picasso per nascondersi da tutto

La mostra Paraventi di Fondazione Prada mostra opere d’arte poco conosciute dei maggiori pittori del Novecento, ma anche un sogno domestico di comfort e protezione.

di Davide Coppo

Una parola che andava di moda, un po’ di anni fa, e adesso non va di moda più, è “hygge”: un sostantivo danese che indica un sentimento che è un mix di comfort, comodità, sicurezza e familiarità. Una cosa che ti immagini facilmente, in effetti, in Danimarca: la neve fuori, un conto in banca in salute, la casa calda in cui ti ritrovi la sera a bere una zuppa. Una famiglia felice. I mobili di legno, le coperte soffici, i colori tenui, sabbiosi. Felpe di pile. Fortunatamente questo poster da Mulino Bianco scandinavo sta lasciando posto ad altre estetiche meno snervanti e ipocrite e più libere e incasinate, ma ho ripensato comunque al concetto di hygge visitando la mostra Paraventi, che ha inaugurato a fine ottobre alla Fondazione Prada di Milano.

Va detto, con sincerità, che non sapevo cosa aspettarmi da una mostra di paraventi: non ho mai vissuto in una casa dotata di uno o più paraventi, né ho mai pensato di acquistarne. L’immagine che avevo dei paraventi era quella di oggetti antichi, tendenzialmente di origine orientale, che si portavano dietro tutto un carico di fascino un po’ esotico e un po’ erotico. Mi aspettavo quindi di passare molto tempo chinato con il naso a pochi centimetri dai pannelli di cotone, legno o seta, a scandagliare i dettagli delle figurine di principi, guerrieri, sacerdoti e samurai, pagode e templi, cavalli e draghi. Ed effettivamente la prima parte della mostra (curata da Nicholas Cullinan, con progetto espositivo dello studio SANAA), quella al piano terra del Podium, si trovano subito paraventi cinesi e giapponesi del XVII e XVIII secolo, con battaglie navali e vedute dall’alto, e poi altri anche del XX secolo con uccelli e fiori e rappresentazioni di stagioni, quindi neve, nebbia, alberi, fiori.

In primo piano il paravento “Brick Screen” di Eileen Gray (1925); sullo sfondo, i due paraventi lignei di Alvar Aalto e Charles e Ray Eames

La storia del paravento è una storia di migrazione e appropriazione culturale: almeno, così qualcuno la chiamerebbe adesso. In realtà è la storia di un oggetto che viaggia, e della sua funzione che cambia, e con lei cambia anche il profondo significato, per così dire interno, che quell’oggetto ha. Per come erano stati pensati in origine, i paraventi erano oggetti di contemplazione spirituale. Siamo nel pieno della dinastia Zhou, circa 700 avanti Cristo, in Cina. Poi viaggiano in Giappone, dove diventano strumenti per allontanare gli spiriti maligni. Sempre in Cina, nel 16° secolo, vengono anche utilizzati all’esterno, con una funzione più decorativa e soprattutto pratica: per proteggere i ritrovi e i banchetti en plein air dal vento. Nel Vicereame della Nuova Spagna, più o meno Messico e la parte meridionale degli Stati Uniti, circa nella stessa epoca, piacciono così tanto che iniziano a essere prodotti in loco, copiando certe forme e decorazioni orientali ma ibridandole con elementi autoctoni: pittura a olio, tela di canapa, soggetti americani.

Ma è il piano superiore della mostra quello che colpisce di più, e quello che sarà inevitabilmente più fotografato, e di cui mi sembra anche più interessante parlare, e ragionarci su – e così arrivo a ricollegarmi, finalmente, a quel pensiero iniziale della hygge. Il paravento, in Europa, diventa nel Barocco un elemento decorativo per il teatro e per l’opera, ma è nel Diciannovesimo e Ventesimo secolo che si trasforma in una tela per artisti. Ecco il tema del primo piano del Podium di Fondazione Prada, ecco la parte stupefacente e meravigliosa della mostra Paraventi.

Lo stupore e la meraviglia sono i sentimenti dominanti, qui, mentre si passeggia tra un paravento di Duncan Grant, con uomini stilizzati che ricordano dei proto-modellini di moda o delle incisioni rupestri antichissime, e uno di Pablo Picasso. C’è il paravento grafico di Magritte e quello surrealista di Man Ray. Andando un po’ più avanti negli anni, ecco il paravento a quattro blocchi nero, giallo, grigio e verde di Le Corbusier, realizzato nel 1950 per la Cité Radieuse di Marsiglia, e i quattro pannelli inconfondibilmente blu di Yves Klein. Poi quello di plastica trasparente ma tratteggiata dai suoi caratteristici segni firmato Carla Accardi, quello inebriato di Anni Ottanta di David Hockney. Quello sulle “condizioni meteo” di Jim Dine, che si chiama infatti Landscape Screens (Sky, Sun, Grass, Snow, Rainbow), e poi quelli che vanno più in direzione della scultura, come il maxi-pannello di acciaio di Jean Prouvé o il paravento di cemento di Isa Genzken.

I paraventi di Yves Klein, Charles e Ray Eames e Sol LeWitt

Ci si stranisce, oltre che meravigliarsi, perché la forma-paravento, nonostante sia a tutti gli effetti in questi esempi quella di una tela da dipingere (con echi medievali, che rimandano alle decorazioni d’altari religiose), non riesce a smettere di sembrarci un oggetto d’arredamento, da prendere e manipolare come si fa con una sedia, un tavolino. E c’è del divertimento, in questo straniamento, perché gli autori che siamo abituati ad ammirare dietro a un vetro allarmato paiono all’improvviso lì, a portata di mano (ma non fatelo, non cercate di spostare il Picasso, né nessun altro paravento, sia chiaro). È un cortocircuito tra forma e funzione, tra significato e significante, che mette in gioco noi spettatori in primis, in come viviamo lo spazio espositivo e il rapporto con gli oggetti esposti.

Ed ecco infine la hygge. Le ultime tre mostre del Podium di Fondazione Prada hanno, in modo diverso, seguito un’idea simile di interpretazione e analisi della realtà contemporanea attraverso un rimbalzo con il passato. “Recycling Beauty” mostrava come le opere d’arte anche del passato più antico, considerato classico e per questo quasi santificato, copiavano forme di altre opere precedenti a loro, addirittura utilizzando pezzi di quell’arte, quando necessario: statue di santi cristiani costruite utilizzando teste di divinità pagane, fonti battesimali diventati troni per il potere temporale, e così via. Parlava di originalità e di produzione in serie. Poi “Cere Anatomiche”, che mostrava corpi femminili de-sessualizzati e in cui, al contrario, l’erotismo prendeva tutta un’altra direttrice, medica ma anche più sottilmente perversa, attraverso l’esposizione dei modelli semi-squartati della Specola di Firenze. Questi paraventi dialogano infine con i concetti di migrazione e appropriazione culturale, eppure visitandola ho sentito un ulteriore significato, più nascosto ma decisamente più intimo, e ugualmente contemporaneo.

Il paravento di Cy Twombly, in primo piano, e dietro quelli di Kerry James Marshall, T.J. Wilcox e William Kentridge

Il paravento è dopotutto un confine: qualcosa che si frappone tra un ambiente e l’altro, che divide ambienti, crea spazi privati laddove non sembravano poterci essere. Camminare in mezzo a decine di paraventi ti dà l’impressione di vagare per un labirinto domestico, in cui basta abbassarsi un poco per essere nascosti da tutto. Il paravento, anche se di Marlene Dumas o Cy Twombly, continua a fare nella mostra quello per cui è stato progettato: ripara, nasconde, infonde un senso di privatezza. Ci si trova a immaginare, tra un Picasso e un Balla, che sarebbe bello avere dei paraventi da potersi portare in giro per frapporli tra noi e questo orrore di mondo che ci tocca vedere proprio nelle settimane in cui la mostra viene inaugurata, ma anche tra noi e il mondo quando non è proprio così orrendo. Tra noi e il lavoro, tra noi e i social, tra noi e le notifiche e la socialità e la Fomo e tutto questo caos che ci circonda senza spegnersi mai. Ci si sente protetti, e anziché starsene davanti, ci si proietta dietro, a quel paravento. A diventare non spettatore, ma un fruitore. Come quando da ragazzini sognavamo di passare la notte nei supermercati o all’Ikea per fare feste di birre e caramelle, e dormire in tutti i letti esposti, mi sono ritrovato a pensarmi accucciato, nascosto in piena vista, dietro a un paravento di Alvar Aalto.

Foto della mostra scattate da Delfino Sisto Legnani e Alessandro Saletta – DSL Studio