A The Voice of Hind Rajab di Kawthar ibn Haniyya il Gran premio della giuria, Toni Servillo vince la Coppa Volpi per la sua interpretazione in La grazia, di Benny Safdie la Miglior regia con The Smashing Machine.
Le lacrime di Alberto Barbera alla presentazione di The Voice of Hind Rajab in concorso facevano presagire un’edizione esplosiva della Mostra, che invece poi è andata a finire come (quasi) tutti gli anni. Ovvero che se di politica si parla, la scuola è quella democristiana del presidente Servillo in La Grazia di Paolo Sorrentino. I vincitori di quest’anno non sono affatto male, specie considerando che buona parte dei cinefili inferociti sui social che gridano allo scandalo dei film ignorati non ne ha (ancora) manco visto mezzo, di film (e poi non è detto che).
Partiamo dalla polemica sul Leone d’Oro finito nelle mani di Jim Jarmush («Oh shit» oggettivamente un notevole incipit per un discorso da neo Leone d’oro): chi parla di delusione si dimentica che a una bella fetta di stampa il film è piaciuto parecchio (vedi il tabellino della critica dell’International Cinephile Society o l’onestissimo 79 raccolto sull’aggregatore di recensioni Metacritic). Non è affatto il Leone che miagola di cui si parla in queste ore sui social e su parte della stampa specializzata e non.
La scelta di Park
Questo non è stato un anno di vacche magre in concorso, anzi: c’era davvero l’imbarazzo della scelta, perciò questo premio “riparatore” per quello che ormai è quasi un Grande Vecchio del cinema che presenta un onesto, ben scritto film antologico su sgrammaticature sentimentali familiari ha fatto storcere il naso a molti. Fa però sorridere questo stracciarsi le vesti per la mancata vittoria di Park Chan-wook con Nessun’altra scelta. Un regista che non sbaglia un film dal 2006 e che potrebbe ormai mettere nella bio il fatto di non essere andato mai oltre il premio alla regia. Un po’ perché gioca un campionato tutto suo, un po’ perché il suo peccato originale è quello di non scendere mai a compromessi. Park Chan-wook è troppo sofisticato, troppo disinteressato: arriva a Venezia, presenta un film di assurda complessità e torna a casa tranquillo, sapendo che basterà aspettare dieci anni perché tutti dicano “Oh, ma che figata era Nessun’altra scelta!”.
D’altronde il problema dei premi non è mai calibrarli a tavolino per far quadrare cinema, rappresentazione geopolitica, visibilità per quei film che senza i festival quasi non esistono e buffetti sulle guance al tuo favorito. Il nocciolo della questione è farlo senza farti sgamare, anche se da tradizione ogni anno si giura e spergiura che no, nella bolla felice della giuria le sensazioni sono differenti, tutti i film sono bellissimi ma purtroppo i premi sono solo otto.
America First
Tutti tirano l’acqua al proprio mulino, solo che alcuni lo fanno con un’eleganza tale che nessuno ha nulla da ridire. Come spesso accade in questioni cinematografiche, la maestria maggiore la vantano i francesi che, di riffa o di raffa, un premio lo portano sempre a casa. Stéphane Brizé avrà sicuramente spinto per il premio alla sceneggiatura a Valérie Donzelli per À pied d’œuvre, puntando sulla sorpresa francofona di questa edizione e scegliendo un premio molto coerente. Il film infatti tiene insieme una critica all’economia dei lavoretti e una riflessione sulla natura radicale che può avere una vita votata alla creazione artistica. Sta allo stesso livello di sofisticatezza di Park Chan-wook? No, ma non c’erano giurati coreani e, semmai, il vero passo falso del presidente di giuria Alexander Payne è stato il premio alla regia.
Con il Leone d’argento alla regia a Benny Safdie per The Smashing Machine, onestissimo biopic tutto camera a spalla che ha palesi progetti di Oscar, si è capito che Payne stava cercando di portare a casa il più possibile per i suoi compatrioti, nuove leve e vecchi maestri. Tra l’altro, dando così a Safdie l’occasione di dimostrare che deve migliorare parecchio sui discorsi d’accettazione se vuole reggere tutta una stagione dei premi senza incappare in gaffe disastrose. Se ringrazi due volte tua moglie ma ti “scordi” di citare tuo fratello Joshua con cui hai raggiunto la notorietà, hai voglia poi a smentire le voci che avete scazzato per le ambizioni artistiche incrociate.
Anche se nella gara dell’imbarazzo probabilmente la spunta la vincitrice della Coppa Volpi per l’interpretazione femminile Xin Zhilei, premiata per la sua parte in The Sun Rises on Us All, un premio che ha senso se si intende la categoria come una gara a quale personaggio riesce a farsi infliggere il maggior numero di traumi senza piangere. In sala si è alzato un applauso piuttosto frigido e si è sentito persino qualche fischio. C’è solo una cosa più imperdonabile di vincere senza meritarselo poi così tanto: non saper portare a casa il discorso di ringraziamento, dimostrando almeno la buona volontà di levare tutti dall’impiccio il più in fretta possibile. La povera Xin Zhilei non ha capito che aria tirava e ha infilato un discorso lunghissimo, persino un po’ infantile, che sapeva di Miss Italia più che di Sala Grande.
Toni Servillo, vecchia Volpi
I padroni di casa, maestri di questo gioco, sono calati a infierire. Prima Emanuela Fanelli con una stoccata dolce dolce, poi Toni Servillo. Con la Coppa Volpi per la Migliore interpretazione maschile in mano, Servillo ha provato almeno tre cose. La teoria del giurato che porta acqua al mulino nazionale (Maura Delpero ha saputo far saltare fuori un riconoscimento anche a Gianfranco Rosi per Sotto le nuvole); quella della giuria che la legge eccome, la stampa (Variety ha scritto una pagina incredibilmente elogiativa di Servillo); e che il punto è saper tenere il palco. Servillo è sceso da quel palco tra gli applausi, pur avendo, nell’ordine: punzecchiato la giovane collega cinese, fatto a sua volta un discorso molto lungo ma soprattutto aver dedicato il premio alle persone in viaggio verso la Striscia di Gaza con la Global Sumud Flotilla.
Qui arriva il trionfo dell’attenzione italiana per le realtà locali, un momento surreale che narreremo ai posteri in cui, dopo i premiati della sezione Orizzonti, prima dei Leoni del concorso, la Sala Grande rimane a luci basse, in silenzio, perché la diretta passa da RaiPlay a Rai3, dove sta andando in onda la coda dei Tgr. Jim Jarmush, Cristian Mungiu e Julia Ducournau che stanno seduti composti e in silenzio in attesa che venissero elencate le farmacie di turno. Insieme a Mara Venier zia d’America che consegna alla regista esordiente Nastia Korkia l’assegno da 50 miladollari del premio Luigi De Laurentis, si tratta di gustosi antipasti per i Josh O’Connor e i Timothée Chalamet del futuro a cui toccherà presenziare alla prossima edizione dei David di Donatello.
La parola ai giurati
La storia di Fernanda Torres che smatta e lascia il Lido perché in disaccordo con le scelte di Payne è degli altri giurati è stata invece un gustosissimo abbaglio collettivo pre red carpet finale. D’accordo che è una grande attrice, ma era lì presente, elegantissima e partecipe: non esattamente l’attitudine di una che è rimasta lì solo perché l’hanno implorata, solo per evitare l’intrigo internazionale. Una panzana, insomma, il disaccordo in giuria? Non necessariamente, ma se i litigi ci sono stati, sono rimasti sotto il livello d’allarme, se la verità la sapremo mai la sapremo tra dieci anni, quando uno dei giurati, con in mano un premio alla carriera vattelapesca, si lancerà nel racconto dell’aneddoto d’epoca. Quindi no, Fernanda Torres non se ne è andata anche se The Voice of Hind Rajab di Kaouther Ben Hania – lo strafavorito della vigilia – si è fermato al Gran premio della giuria, il secondo premio per ordine d’importanza. Immaginatelo come il premio “volevamo ma non possiamo” spesso assegnato da tante giurie nel triangolo mistico festivaliero Berlino-Cannes-Venezia.
Il Gran premio salva capra e cavoli: è prestigioso, ma evita alla Mostra la temutissima etichetta di “politica”. Anche senza il Leone d’Oro a The Voice of Hind Rajab, si tengono così a bada i detrattori e al contempo si costruisce la narrazione di un film già di per sé importante e imprescindibile, e ancora più importante e imprescindibile perché scomodo, potente, troppo potente per vincere. La giuria di Payne, semmai, può essere criticata per avere sbagliato il titolo con cui controbilanciare la narrazione.
Uno dei candidati a questo ruolo di “bilanciatore” era proprio il film di Park Chan-wook, eterno ignorato il cui primo premio importante, atteso e meritatissimo, avrebbe curato ogni mal di pancia. Senza contare che pure Nessun’altra scelta politico lo è e parecchio, dato che racconta una Corea del Sud da incubo e un tardo capitalismo brutale come gli imperi al tramonto. L’altro papabile rimasto cardinale è Silent Friend di Ildikó Enyedi, regista ungherese che fa film che solo lei può immaginare e portare a casa. Una storia piena di sentimenti delicatissimi ma profondi, il cui fulcro narrativo ed emotivo è un albero di Ginko Biloba, elencato tra i membri del cast insieme a gente come Tony Leung Chiu-wai e Léa Seydoux. Il genere di film scaldacuore ma non ruffiano, immaginifico ma mai divisivo, che anche il più cinico dei critici gli fa un po’ specie parlarne male. Forse tutti questi ragionamenti li aveva fatti anche Jarmush, ed è così che si spiega quell’esclamazione, «Oh shit», apparsa sincera nonostante gli occhiali da sole scuri a coprire gli occhi.
Insomma, bene o male anche questa Venezia è andata, con una compagine italiana assolutamente all’altezza che porta a casa una marea di riconoscimenti (nella sezione Orizzonti entrambi i premi attoriali sono andati a italiani, cioè Giacomo Covi, protagonista di Un anno di scuola, e Benedetta Porcaroli, per la sua interpretazione nel Rapimento di Arabella) e almeno un premio a mettere tutti, ma proprio tutti d’accordo, critica e pubblico, chi era al Lido col pass attorno al collo e chi ha seguito l’affare giorno dopo giorno da casa: il premio sex symbol di questa edizione della Mostra del cinema di Venezia va con voto plebiscitario a Jacob Elordi.

A The Voice of Hind Rajab di Kawthar ibn Haniyya il Gran premio della giuria, Toni Servillo vince la Coppa Volpi per la sua interpretazione in La grazia, di Benny Safdie la Miglior regia con The Smashing Machine.

L'opera prima di Giulio Bertelli, presentata alle Settimane della critica a Venezia e distribuita in sala da Mubi, mescola fiction e documentario per raccontare tutto il sangue, il sudore e le lacrime nelle vite di tre atlete.