Cultura | Letteratura

Il vero capolavoro di Milan Kundera è stato unire leggerezza e angoscia

Ha scritto libri elitari diventati fenomeni pop, raccontava storie di frivolezza e malessere, era realista e metafisico: Kundera è stato lo scrittore degli opposti che solo nei suoi scritti trovavano modo di convivere.

di Francesco Longo

Portrait taken on October 14, 1973 shows Czech-born French writer Milan Kundera. (Photo by AFP) (Photo by -/AFP via Getty Images)

Nel 1978, un intervistatore chiede a Milan Kundera: «Lei è comunista?». Risposta: «Lo sono stato. Adesso non lo sono più». All’epoca, già vive a Parigi da tre anni, e dà risposte che nessuno si aspetta. È un esule, ma odia questa parola “esule”, la trova troppo politica, e la politica, per Kundera, tende a ridurre tutto, a schematizzare troppo, a dare una versione semplificata della vita. Il contrario esatto di ciò che fa la letteratura. Eppure, in quegli anni, esule è una parola piena di fascino, fa anche vendere molto, sia idee che libri, ma allo scrittore che ha lasciato la sua patria, la Cecoslovacchia, comunque non piace essere etichettato come tale. I suoi romanzi vengono vietati in patria perché è considerato istigatore della controrivoluzione, saranno pubblicati molti decenni dopo. I suoi libri sono politici anche se a leggerli raccontano amori, bugie, segreti, tradimenti, gelosie («la gelosia è come un forte mal di denti. Non si può fare nulla quando se ne soffre, neanche sedersi. Si può solo camminare. Avanti e indietro», scrive nel Valzer degli addii), sono libri spesso tristi, malinconici, nelle pagine si respira solitudine, un senso di ideali decaduti, sono storie imbevute di disillusione, incarnate da corpi appena sfioriti, donne belle e malate, corpi che comunque si cercano moltissimo nonostante la disillusione o proprio spinti dal disincanto, Kundera infatti è lo scrittore di sguardi, sorrisi, carezze, labbra, flirt, lo scrittore della frivolezza sempre minata dall’angoscia.

Un mese dopo l’invasione russa, nel 1968, a Parigi esce Lo scherzo, il suo primo romanzo. Parigi è la città che dal 1975 diventerà la sua casa. Qualche anno dopo dirà: «Finché sono rimasto in Cecoslovacchia non riuscivo a immaginare che avrei potuto vivere in un altro paese. Ho tentato di restare il più a lungo possibile. Ma quando ne sono uscito ho cambiato parere, anzi ho cominciato a pensare che è importante non vivere sempre nello stesso luogo». In Italia Il valzer degli addii (pubblicato da Bompiani e tradotto da Serena Vitale) esce nel 1977. L’ambientazione è una cittadina termale di un Paese socialista, l’intreccio, con un elemento teatrale, si svolge in cinque giornate, tra i protagonisti compare un intellettuale costretto ad abbandonare il proprio Paese. Kundera spiegherà che è nato prima il personaggio e poi il suo trasferimento, è stata la sua vita ad adattarsi alla letteratura, non il contrario, come è facile supporre.

Nel libro, però, la Cecoslovacchia non è mai nominata. È un romanzo cucito con la tipica ironia di Kundera, in cui, per esempio, un dottore può dire: «I capelli biondi e i capelli neri sono i due poli opposti del carattere umano. I capelli neri significano virilità, coraggio, franchezza, azione, mentre quelli biondi sono il simbolo della femminilità, della tenerezza, dell’impotenza e della passività. Le bionde, quindi, sono doppiamente donne. Una principessa non può avere che i capelli chiari. È per questo che le donne, per essere il più possibile femminili, si tingono di biondo e mai di nero». Interrogato più a fondo sul tema aggiunge: «Se i capelli neri diventassero una moda universale, si vivrebbe di gran lunga meglio in questo mondo. Sarebbe la più utile riforma sociale mai realizzata».

A Parigi, Milan Kundera insegna letteratura mitteleuropea all’università. Già alla fine degli anni Settanta è considerato uno dei più importanti scrittori europei. Il 1980 è l’anno del Libro del riso e dell’oblio (Bompiani). Kundera è nato a Brno, in Moravia (non a Praga come a volte si è scritto addirittura nei suoi libri) ed è morto, a novantaquattro anni, a Parigi. Città di nascita e di morte sarebbero sufficienti per ricomporre tutta la sua parabola, la letteratura ceca che lo precede e porta con sé (Hasek, Čapek, Kafka, Hrabal, ecc.), la letteratura europea di cui è stato una delle massime voci. Metà ceco e metà europeo, ha scritto prima in ceco (fino al 1990), poi in francese; è stato un gigante, un mito, spesso vestito con completi di velluto, con il viso d’attore, anche se non ha mai amato farsi fotografare, gli scatti migliori sono quelli della moglie, Vera Hrabanková. Letterariamente ha spiegato di considerarsi un erede di Kafka, ma il Kafka visto con lo spirito dei cechi, che lo considerano un autore realista e non uno scrittore allegorico come viene inteso in Europa e nel mondo. Uno dei suoi più grandi amori letterari legati all’Italia è Boccaccio, e quindi tutta la letteratura che ne deriva, Rabelais, Diderot, Sterne.

Kundera è stato moltissime cose ma soprattutto l’autore dell’Insostenibile leggerezza dell’essere (pubblicato da Adelphi nel 1985). Si potrebbe dire che la pubblicazione di questo libro sia stata così deflagrante da trasformare per sempre l’immagine stessa della casa editrice Adelphi. Libro di culto, caso editoriale con un percorso curioso, specialmente in Italia. Viene adottato dalla trasmissione televisiva Quelli della notte di Renzo Arbore, lo lancia Roberto D’Agostino che lo sfrutta come tormentone, e nell’estate 1985 è già sulle spiagge sotto tutti gli ombrelloni. Prima della fine dell’anno ha già venduto oltre centocinquantamila copie. Nell’estate 1986 esce il nuovo album di Antonello Venditti, Venditti e segreti («Sempre in precario equilibrio fra banalità e capolavoro», come lo saluta Luzzatto Fegiz), che contiene la canzone Questa insostenibile leggerezza dell’essere dove il romanzo di Kundera è diventato evidentemente già simbolo di impegno e chiacchiericcio. Un matrimonio misto perfetto tra letteratura elitaria e fenomeno pop.

Per Kundera i romanzi condensano e conservano la saggezza, molto di più di quanto non faccia la filosofia. L’insostenibile leggerezza dell’essere mette in scena Tomas e Tereza, Franz e Sabina, i protagonisti diventano presto simboli dell’amore in occidente. Tomas raggiunge la felicità grazie allo scetticismo, alla perdita, e non grazie alla pienezza. Ma d’altra parte tutto ciò che appare in questo libro mostra un’anima mutevole. Quando il romanzo esce, Antonio Tabucchi scrive una lunga recensione: «Il romanzo di Kundera è un testo in mutazione: non è più un romanzo ed è già un altro romanzo, non è tradizionale ma non è neppure quello che con un aggettivo un po’ logoro viene definito “sperimentale”». Secondo Tabucchi, Kundera è un romanziere «realista e metafisico; di un realismo e di una metafisica estenuati e dolenti: e per questo capaci di lampi, di penose intuizioni, di apparizioni brucianti, di guizzi e di spasimi».

Kundera è stato un sostenitore della forma romanzo, il suo saggio L’arte del romanzo è immancabile nei percorsi universitari delle facoltà di Lettere. Una volta si chiedeva: «Cosa sapremmo dell’amore senza il romanzo? E della gelosia? E del tempo, o dell’invecchiamento? Come conoscere lo charme dell’avventura o della vita quotidiana?». Sono tutte domande retoriche, l’unica risposta è che gran parte delle cose che conosciamo le conosciamo grazie alle pagine della letteratura. A questo ha consacrato la sua vita, scrivendo poco, restando a lungo in silenzio, restando per anni e anni in aria di premio Nobel, mai arrivato. Il senso dell’Insostenibile leggerezza dell’essere, a ridurlo a uno slogan, è che tutto quello che accade avviene solo una sola volta nella vita e sarà dimenticato: questa è per Kundera la leggerezza. Una sorta di elogio dell’effimero. Con buona pace di questa sua lezione, ora che è morto, dovrà fare i conti con un pesante paradosso: la sua opera ha raggiunto la consistenza granitica, quella dei classici, e non sarà più dimenticata.