Cultura | Internet

Moo Deng e gli animali di internet ci piacciono perché ci fanno sentire migliori

Ippopotami, gatti, cani, lucertole, pinguini, scoiattoli: la storia di internet è fatta di animali che abbiamo venerato, soprattutto perché ci permettevano di ignorare gli altri esseri umani.

di Francesco Gerardi

Nel migliore dei mondi possibili, su internet ci sarebbero soltanto foto e video di animali. La guerra, la crisi economica, il disastro ambientale  tutte questioni del passato, risolte da un’umanità che ha capito che assai più dell’istinto di sopravvivenza può fare il desiderio di vedere un altro video di Moo Deng che se ne sta a mollo, beata, nella sua tinozza preferita. In questo mondo migliore del nostro, Elon Musk ha visto il video in cui Moo Deng perde la pazienza per colpa di una pompa d’acqua e ha deciso che le risorse di X, Neuralink, Tesla e SpaceX sono meglio spese a difesa degli ippopotami pigmei che di Donald Trump. Nel migliore dei mondi possibili, l’ultimo G7 non è stato una “italian experience” a Borgo Egnazia ma una semplice visita al Khao Kheow Open Zoo di Chon Buri, a sud di Bangkok, in Thailandia. I potenti del mondo hanno visto Moo Deng dimenarsi furiosamente nel tentativo di sfuggire al momento del bagnetto, e hanno deciso che la missione dell’umanità è conservare il mondo in cui vivranno i figli di Moo Deng, e poi i figli dei suoi figli. In questa utopia, Moo Deng non è solo «the hottest, hottest new It girl on the planet» – come è stata presentata da Hoda Kotb in un servizio dedicato (nientedimeno!) del Today show – la Charli XCX del regno animale: virale sui social, protetta dal copyright, protagonista di un livestream ininterrotto, memificata e venerata. Nel migliore dei mondi possibili, Moo Deng ha portato pace e prosperità a tutti, sue statue sorgono dove sorgevano quelle di santi e statisti, l’acqua della pompa usata dai dipendenti dello zoo per tenerla sempre idratata è una reliquia venerata come il sangue di San Gennaro e ogni anno fedeli da tutto il mondo partono in pellegrinaggio verso Chon Buri per ammirare la Sacra Tinozza che la conteneva quando era appena una cucciola.

Questo è il mondo come dovrebbe essere, o internet come dovrebbe essere, o internet come è stata un tempo e adesso non è più. Moo Deng non è la prima frugoletta animale che ci ricorda le fattezze dell’internet che ci meritiamo e di cui abbiamo bisogno: piccola, rotonda, morbida, liscia, buffa, aggettivi che si mescolano tutti in quel concetto di cuteness/kawaii che nessun umano dell’internet potrà mai incarnare altrettanto bene come un animale dell’internet. Nei momenti peggiori, internet si è sempre scelta una mascotte che la distraesse e la salvasse da se stessa: nel 2007, quando le evidenti storture della rete cominciarono a piegare le fondamenta idealistiche che l’avevano sostenuta fino a quel momento, tutti decidemmo che valeva comunque la pena proseguire l’esperimento dopo aver visto su YouTube il primo video di Keyboard Cat. Un gatto di nome Fatso, con addosso una T-shirt celeste, che suona la pianola: per quanto potenzialmente mortifera, l’infrastruttura capace sia di generare che diffondere un tale simbolo meritava una seconda occasione e poi una terza e poi una quarta e avanti così all’infinito, fino a fare dei gatti buffi il 15 per cento di tutto il traffico di internet, chiedendo la salvezza ogni volta a un diverso messia felino. Dopo il Keyboard Cat sono venuti Grumpy Cat e Lil Bub, Billi e il Colonello Miao (nell’originale inglese Colonel Meow), Henri, le Chat Noir, Jorts, Maru. La lista negli anni si è fatta così lunga che ne sono derivati archetipi come il lolcat, santini cartooneschi come il Nyan Cat e archivi quali I Can Has Cheezburger?, tutti tentativi di rispondere alla stessa domanda: ma cos’è questa fissazione che internet ha per i gatti e, in secondo luogo (molto ma molto secondo, però), con il resto della fauna?

Nonostante la ricerca prosegua ormai da vent’anni, una risposta definitiva a questa domanda non si è ancora trovata. C’è una teoria assai intrigante, però, esposta da Sam Anderson in un articolo del New York Times intitolato “Animal Videos Are How We Escape the Internet (While on the Internet)”. È una reinterpretazione della teoria della mente, quella capacità unica degli esseri umani di attribuire stati mentali a se stessi e agli altri, riconoscendone varietà e diversità. Secondo Anderson, l’animal content ci piace così tanto perché ci affascina il modo in cui gli animali dimostrano inconsapevolmente una capacità che si vuole innata ed esclusiva dell’umano: quella di essere divertenti, di suscitare il riso. Doug the Poug, Manny the Frenchie e Crusoe the Dachsund, Ricochet, Tinkerbell e Tuna non sono diventati famosi in quanto cani carini ma in quanto cani buffi: di cani carini è pieno il mondo ma su internet i cani famosi sono pochissimi e sono tutti buffi, a partire dal capostipite Doge, lo shiba inu suo malgrado diventato cryptovessillo.

Tutto per dire che chi pensa che questo tipo di fama si spieghi interamente con il feticismo della cuteness, del kawaii, della pucciosità non ha capito granché degli ingranaggi che muovono la macchina internet. Se davvero fosse quella la spiegazione della fama di cui Moo Deng è l’ultima erede (e c’è già un erede dell’erede, perché i trend ormai vanno a questa velocità e la fama dura un quarto d’ora a prescindere dalla specie: Pesto il pinguino gigante, un cucciolo che pesa già più dei suoi genitori messi assieme), non si sarebbero mai verificati prima di lei fenomeni come McGyver the Lizard (memorabile quel suo dissing con Snoop Dogg) o la capra del grindcore Biquette. La differenza non la fa la carineria ma la versatilità di questi animali, la capacità di essere significanti di qualsiasi significato, persino quando il contrasto tra messaggio e messaggero genera conseguenze demenziali, quasi allucinatorie come nel caso di Harambe (anche qui, una teoria, per far capire quanto complicato sia in realtà il rapporto tra internet e i suoi animali: secondo una corrente di pensiero, il successo di Harambe è dovuto al valore simbolico della sua morte, ucciso da un proiettile dell’autorità, vittima di un giudizio sommario, in un momento storico in cui in tutto il mondo si contestava ogni forma di potere costituito).

Internet è il luogo della personalizzazione e della rielaborazione, il luogo in cui il massimo pregio è prestarsi a essere “base”: Moo Deng, come tutti i suoi predecessori, è diventata una beniamina perché un adolescente la può usare per lamentarsi di una mamma invadente, un lavoratore per esprimere la frustrazione nei confronti del suo capo, un fancazzista ci si può divertire mettendola in una finta locandina in cui la cucciola di ippopotamo pigmeo è un kaiju capace di combattere ad armi pari con Godzilla. Come tutte le cose di internet, questa tendenza all’appropriazione diventa però un problema quando si trasferisce nella vita vera: il contrabbando di cuccioli di ippopotami pigmei pare stia diventando già un problema, perché dall’avere una propria versione di Moo Deng all’avere una propria Moo Deng il passo è purtroppo brevissimo.

C’è un estensione di quella interpretazione della teoria della mente che dà un’altra spiegazione alla nostra passione per l’animal content. Una spiegazione piuttosto pessimistica, che è: gli animali online ci piacciono in proporzione a quanto ci fanno schifo le persone online, ci piacciono perché hanno quel tanto che basta di caratteristiche umane – sono buffi, fanno ridere – ma non esiste il pericolo che scendano nell’uncanny valley che li renderebbe inquietanti perché troppo simili alle persone senza essere persone (ancora una teoria, l’ultima: come si spiega l’inquietante culto dell’odio nei confronti delle scimmie che si è diffuso tantissimo su internet negli ultimi anni? Così: con la somiglianza eccessiva delle scimmie con gli esseri umani). Umani quanto basta, insomma. Dotati di quei tratti che redimono le persone e che le persone sempre meno possiedono. Il motivo per cui il muso indecifrabile del Crasher Squirrel o quello stravolto del Dramatic Chipmunk ci fanno così ridere è lo stesso che ci fa trovare così divertente l’espressione insensatamente traumatizzata di Moo Deng quando i dipendenti dello zoo si azzardano a toccarle la pancia: questi animali ci fanno ridere semplicemente perché non sono persone, perché internet – soprattutto quella dei social – è il luogo in cui siamo stati travolti dall’umanità, quello in cui abbiamo imparato a diffidare e a evitare il prossimo con un’urgenza che forse non ha precedenti nella storia. Una struttura che rischia di crollare a causa della sua stessa pesantezza (metaforica ma pure letterale) deve necessariamente trovare un punto di forza, una posizione di equilibrio che gli permetta di continuare a reggersi in piedi. Magari non lo sappiamo ancora, o forse non lo capiremo mai, ma Moo Deng, e tutti quelli che sono stati come lei prima di lei, non solo hanno fatto internet ma l’hanno pure salvata.