La nuova collezione Gucci fa emergere un fenomeno già ovunque: l’industria della moda sta guardando sempre più al passato, spesso a scapito di innovazione, immaginazione e persino salute collettiva.
La moda ama raccontarsi come un territorio “altro”: consapevole, progressivo, schierato. La dissidenza come codice estetico, ma soprattutto un dispositivo narrativo attraverso cui il settore accredita se stesso come spazio culturalmente avanzato. Il problema nasce quando questa narrazione, così curata e “performative”, si incrina a contatto con le accuse dei dipendenti. È in questo contesto che, a pochi giorni dal Vanguard Award conferitole dal British Fashion Council durante i The Fashion Awards – gli “Oscar” britannici della moda – emergono le testimonianze anonime pubblicate da Fashionista sulle presunte condizioni di lavoro all’interno dello studio di Dilara Findikoglu.
La tempistica non prova nulla, ma dice molto. Mentre l’industria celebra l’avanguardia come valore simbolico, riaffiora la dimensione più prosaica del lavoro creativo: i dipendenti (o ex dipendenti) parlano di orari estenuanti, compensi assenti, confini sfumati tra dedizione e sfruttamento. Secondo le segnalazioni, ex dipendenti e stagisti protetti dall’anonimato – avendo firmato un accordo di riservatezza, esporsi coi propri nomi vorrebbe dire incorrere probabilmente in cause legali – avrebbero affrontato turni fino a 16 ore, straordinari non pagati, spese personali imposte e episodi di stress fisico e psicologico. Contattati da Fashionista, i rappresentanti del brand hanno preferito non rilasciare dichiarazioni. Eppure, amplificata dalla popolarità del brand, questa vicenda diventano simbolo di un paradosso più ampio, che non si limita ad un singolo brand.
Al di là della singola vicenda, sulla quale non ci sono stati ulteriori aggiornamenti, il punto è riconoscere una dinamica di cui si è più volte parlato tra gli addetti ai lavori: non è la prima volta che storie simili emergono, fanno rumore per qualche giorno e poi svaniscono sepolte dal feed. Restano tracce, conversazioni, talvolta indignazione: ma laddove non ci sono denunce formali e si decida di intraprendere un percorso legale, è assai difficile immaginarsi un cambio di paradigma.
Anatomia di una promessa mancata
Il problema sta, principalmente, nella retorica del sacrificio che accompagna il lavoro creativo da decenni. Lavorare gratis “per visibilità”, accettare orari indefiniti “per passione”, rimandare tutele “perché è un sogno” sono pratiche ormai normalizzate nel mondo della moda e degli uffici stile.
Londra – dove opera maggiormente Dilara Findikoglu – è anche uno dei luoghi in cui la precarietà degli stage nel settore creativo è più evidente. Secondo una ricerca del Sutton Trust, quasi un terzo degli stagisti nel settore artistico fa tre o più stage, e l’86% di questi non riceve neanche il salario minimo.
Guardando più in generale all’Europa, la situazione non migliora. L’Eurobarometro 2023 segnala che il 45% stagisti europei non viene retribuita, con picchi del 47% in Italia. A questo si aggiunge un dato ancora più inquietante, emerso da un’inchiesta di Vogue Business del 2025, che ha coinvolto oltre 600 professionisti del settore: la moda è oggi attraversata da una vera e propria cultura del burnout. La maggioranza dei rispondenti descrive livelli di stress cronici, difficoltà a separare identità personale e lavoro – il 48% lavora più delle ore stabilite da contratto – e un senso di pressione costante legato all’idea di “dovercela fare”. Il messaggio implicito è chiaro: se non reggi, non meriti di restare. Così il burnout diventa una prova di resistenza, la precarietà un test di fedeltà.
Chi è Dilara Findikoglu
Dilara Findikoglu, di suo, ha costruito dal 2016 della fondazione in poi, un immaginario potente e immediatamente riconoscibile. Il suo lavoro affonda le radici in un’estetica vittoriana oscura, riletta attraverso il punk, il gotico e una critica esplicita alla storia della repressione dei corpi femminili. Corsetti destrutturati, silhouette esasperate, merletti scuri, richiami alla stregoneria e alla sessualità non sono semplici scelte formali, ma strumenti narrativi: il corpo diventa campo di battaglia, archivio storico, atto politico.
Negli anni, Findikoglu ha costruito una reputazione che va oltre il prodotto: il suo brand è diventato un dispositivo culturale, capace di parlare a una generazione che cerca nella moda non solo abiti, ma posizioni ideologiche. Molte celebrity – da Madonna a Lady Gaga, passando per Charli XCX, Kim Kardashian e la nostrana Victoria De Angelis – hanno indossato le sue creazioni, contribuendo a rafforzarne la visibilità globale. Il recente Vanguard Award, assegnato a designer considerati portatori di visioni innovative, ha ulteriormente consolidato il suo status.
È qui che la questione si complica. Quando un brand fonda la propria identità su una visione politica così esplicita, il margine di incoerenza concesso si assottiglia. Non perché l’arte debba essere moralmente irreprensibile, ma perché premesse e promesse così forti rendono più esposti alle critiche, laddove si denuncino delle crepe.
La coerenza come capitale simbolico
Questo però è un problema che riguarda la maggior parte dei brand emergenti (e indipendenti): il mito dell’indipendenza creativa – sottrarsi alle logiche dei grandi gruppi e mantenere controllo artistico – nasconde nella pratica il rischio di fragilità operative che ricadono sui lavoratori. L’assenza di strutture HR, contratti standardizzati e risorse dedicate rende il lavoro opaco e altamente personalizzato, basato su fiducia e passione. In questo contesto emergono conflitti, tensioni e pratiche decisamente discutibili, indipendentemente dalle intenzioni dei singoli creativi.
Il marketing dei valori accentua la contraddizione: vendere ideali funziona, ma espone al rischio del purpose washing. Quando un brand costruisce il proprio immaginario su determinati valori, il divario tra racconto e pratica pesa il doppio. La coerenza smette di essere un concetto astratto e diventa un questione di credibilità.
Oltre i brand indipendenti: un problema sistemico
Ridurre tutto ai brand indipendenti sarebbe rassicurante, ma falso. Negli ultimi anni, anche il lusso più istituzionale è stato coinvolto in indagini sullo sfruttamento all’interno della catena di produzione. Di recente la Procura di Milano ha notificato ordini di consegna documenti a 13 brand del lusso. Si tratta di una formula light, come riportato da IlSole 24Ore, nella quale si chiede ai brand, tramite la consegna volontaria di report e audit, di dimostrare che non ci sia sfruttamento nella loro filiera produttiva: una richiesta che nasce dalle “pesanti condizioni di sfruttamento” riscontrate in alcuni opifici cinesi che hanno collaborato con i brand ai quali è arrivata la notifica (tra loro ci sono Dolce&Gabbana, Prada, Versace e Gucci).
Dal non detto al feed
E se però il cambiamento prendesse forma più nei nostri feed che nel backstage? D’altronde per anni la moda ha usato i social per costruire la propria immagine; oggi iniziano a smontarla, raccontando un altro lato della medaglia. L’account 1Granary – non solo account Instagram ma piattaforma globale di fashion education e network creativo – ha contribuito a rendere visibile il disallineamento tra quanto va in scena in pubblico e cosa invece accade, secondo le testimonianza anonime, nel backstage. E proprio la raccolta anonima di testimonianze di design director, dipendenti, stagisti e non solo, ha trasformato esperienze isolate in un racconto condiviso. Non tanto per accusare, quanto per nominare. E nominare è già un primo passo verso una responsabilità più diffusa.
In questo senso, la decisione di 1Granary di lanciare i propri Awards è tutt’altro che innocua. Premiare non solo il singolo designer o il brand, ma anche l’intero team – facendo nomi e cognomi dove per anni c’è stata solo una firma – significa scardinare l’idea che il valore creativo coincida soltanto con la figura del direttore creativo. Le oltre 20 categorie, tra cui quelle dedicate a visione, impatto e manifattura, spostano l’attenzione dal risultato finale a ciò che lo rende possibile. È un segnale ancora fragile, certo, ma non irrilevante. Indica la possibilità di un immaginario alternativo, in cui il valore non coincide solo con il genio creativo, ma anche con le condizioni che permettono a quella visione di esistere.
La moda in cortocircuito
Il caso Findikoglu, al netto di verifiche e responsabilità individuali, è quindi solo un sintomo: come un segnale luminoso su un cruscotto, potrebbe indicare un problema strutturale che oggi trova nei social non tanto un tribunale (per quanto sommario), quanto una superficie di visibilità.
Se la precarietà verrà accettata come prezzo inevitabile dell’accesso alla creatività, la moda correrà il rischio di restare intrappolata in un cortocircuito irrisolto: raccontarsi come radicale mentre opera secondo logiche che suggeriscono tutt’altro. La vera avanguardia, oggi, potrebbe non tanto ritrovarsi in un paradigma estetico, quando nell’adozione di maggiore trasparenza. E fino a quando questo squilibrio non verrà affrontato, la ribellione proclamata sulle passerelle potrebbe rimanere una posa ben costruita, ma vuota.
