Cultura | Dal numero

La guerra addosso

Da sempre le uniformi militari sono d'ispirazione per la moda, ma cosa succede quando entrano nel mainstream nella loro versione originale?

di Silvia Schirinzi

In uno dei saggi che compongono il catalogo di Fashioning Masculinities. The Art of Menswear, la grande mostra attualmente in corso al Victoria & Albert Museum di Londra che esplora il guardaroba e l’immaginario del vestire maschile, Elizabeth Currie traccia una breve storia dello “swagger” a partire dal curioso termine “braggadocio”, una parola che molto probabilmente deriva da Braggadocchio, un personaggio inventato dal poeta britannico Edmund Spenser nella sua opera The Faerie Queene, nientemeno che nel 1590. L’epiteto è un accrocchio tra la parola inglese “braggart” (che potremmo tradurre con “spaccone”) a cui Spenser pensò di attaccare il suffisso italiano “-occio”, avendo forse anche in testa, dice sempre Currie, un’altra parola italiana: “bravi”, intesi come gli scagnozzi di cui scriverà poi Manzoni. Questi braggadoci, se così vogliamo chiamarli, erano insomma degli sbruffoni, spesso membri di para-milizie che scorrazzavano per le città abbigliati come fossero soldati, perché tutto ciò che rimandava a un’uniforme militare – una giacca con delle mostrine, un paio di stivali, un cappello – era al tempo prova tangibile di una ben definita mascolinità, di coraggio inteso come prodezza sul campo di battaglia. Tutte qualità di cui, almeno nella versione di Spenser, i braggadoci erano ovviamente sprovvisti. Currie mette in relazione questo atteggiamento, e gli abiti e gli accessori che nel corso dei secoli lo hanno materializzato nella moda maschile, con il concetto più ampio (e decisamente positivo) di “swag”, nella forma in cui è stato codificato dalla cultura hip hop a partire dagli anni Ottanta: e quindi le collane d’oro, i grill, i capi dei brand di lusso, i berretti delle Black Panther e le rivisitazioni dei loghi europei a opera di Dapper Dan come nuovi indicatori di ricchezza e status ma anche di rivendicazione sociale, attivismo politico e, infine, potere. È una riflessione interessante, perché nel modo in cui oggi la moda si riformula continuamente, dai social alle passerelle, siamo tutti un po’ braggadoci (e meno swagger). Indubbiamente abiti e accessori continuano ad avere un significato politico, ma mai come in questo momento, soprattutto grazie all’accessibilità data dai canali digitali, i significati che essi rivestono si espandono ed esplodono in maniera piuttosto differente rispetto al passato.

Non è un caso che i ragazzi della Generazione Z si siano chiesti perché la balaclava sì e l’hijab no, ad esempio, a dimostrazione di come le conversazioni sulla moda, seppur quasi mai originali, cambino forma e contenuto a seconda della piattaforma

Guardando infatti ai trend, se così possiamo definirli in un universo estetico in cui tutto esiste contemporaneamente, alcuni degli oggetti di moda più popolari degli ultimi anni vengono indubbiamente da un armamentario di chiara ispirazione militare, dagli stivali con la suola rinforzata (come quelli di Prada e Balenciaga), che indossano tanto le influencer dello stile scandinavo-minimalista quanto il leader ceceno Ramzan Kadyrov in una foto che sembra un meme ma non lo è, all’onnipresente balaclava, l’accessorio-feticcio che dopo Instagram, dove era già presente da alcuni anni nella sua versione techno-sadomaso, lo scorso inverno ha infiammato le discussioni su TikTok, posizionandosi come il vero punto di incontro-scontro tra streetwear/warcore/sportswear e discussioni sull’identità. Non è un caso che i ragazzi della Generazione Z si siano chiesti perché la balaclava sì e l’hijab no, ad esempio, a dimostrazione di come le conversazioni sulla moda, seppur quasi mai originali, cambino forma e contenuto a seconda della piattaforma: dall’appropriazione culturale che ha lanciato la denuncia a mezzo Instagram (chi si ricorda la polemica sulla balaclava “razzista” di Gucci, che poi era un omaggio a Leigh Bowery?) alla politica degli abiti nelle strade su TikTok, appunto, fino ai corpi che quegli abiti li indossano. Come ha raccontato Zak Maoui in un articolo su Gq Uk dello scorso febbraio, in cui definiva le balaclava l’accessorio dell’anno (ma perché?, si chiedeva già nel titolo), «I passamontagna furono indossati per la prima volta dai soldati britannici durante la guerra di Crimea per difendersi dal clima aspro dell’Ucraina: l’indumento prende il nome dall’assedio durante una battaglia del 1853 nella città di Balaclava. In seguito, per gran parte del XX secolo, l’accessorio è stato associato a forze militari come la SAS, la cui preoccupazione principale era nascondere la propria identità». Quando nel 2001 Raf Simons è ritornato a sfilare con la collezione Autunno Inverno del marchio che porta il suo nome, dopo un anno di pausa, lo ha fatto introducendo alcuni degli elementi che più lo renderanno punto di riferimento per il progressivo affermarsi dello streetwear da quel momento in poi, a cominciare dal bomber militare, la sua silhouette per eccellenza, fino ai passamontagna improvvisati “costruiti” con i cappucci delle felpe e le sciarpe arrotolate: «Al mercatino delle pulci di Vienna ho visto giovani ucraini e rumeni che si incappucciavano strato dopo strato creando così nuovi volumi a causa del freddo», aveva spiegato Simons all’epoca al giornale svizzero Neue Zürcher Zeitung. La collezione si chiamava “Riot Riot Riot” e si staccava nettamente dal tipo di menswear più di successo di quel periodo, che invece prediligeva linee aderenti e pulite (si pensi al lavoro di Hedi Slimane da Dior Homme).

Oggi le silhouette di “Riot Riot Riot” sono definitivamente mainstream e la rabbia giovanile che animava quella collezione è diventata tante altre cose: accessoria, forse, ma anche stretta attualità. Dalle soldatesse curde dell’YPG che nel 2019 combattevano nel Rojava contro lo Stato Islamico fino ai soldati ucraini, e quelli russi, di cui da febbraio guardiamo con sgomento le foto su Twitter e Instagram, dalle proteste di Black Lives Matter a quelle degli studenti di Hong Kong fino alle femministe in Cile che cantano “El violador eres tú”, gli ultimi anni ci hanno restituito infinite immagini di uomini e donne dal volto più o meno coperto provenienti dai più disparati fronti di guerra e tensione sociale nel mondo. Immagini che finiscono nel loop dei contenuti che consumiamo sui social e che, rispetto al passato anche recente, ci troviamo spesso a commentare nel mezzo delle attività ricreative a cui i social stessi, nonostante quello che ci raccontiamo, sono perlopiù dedicati, ovvero alla costruzione di una versione filtrata, spesso abbellita, della vita vera. L’irruzione della realtà, e di questa realtà violenta, negli spazi delle nostre personae digitali ha creato una rottura che ancora non comprendiamo fino in fondo, a cominciare dal modo in cui quelle testimonianze vengono recepite e rigurgitate fino a diventare parte dell’estetica corrente. Anche per tutti questi motivi, una delle collezioni che più ha fatto discutere durante l’ultimo mese della moda, durante il quale sono state presentate da New York a Parigi le collezioni per l’Autunno Inverno 2022, è stata quella di Balenciaga, in cui i modelli avanzavano incespicando in una bufera di neve finta, alcuni bardati nei loro cappotti, altri in mutande con una piccola coperta termica buttata sulle spalle. L’effetto era straniante, se non grottesco, perché negli stessi giorni era scoppiata la guerra in Ucraina ed era in corso l’esodo dei profughi, esposti alla brutalità degli elementi e al caos delle frontiere.

Oggi le silhouette di “Riot Riot Riot” sono definitivamente mainstream e la rabbia giovanile che animava quella collezione è diventata tante altre cose: accessoria, forse, ma anche stretta attualità

Demna Gvasalia è georgiano ed è stato rifugiato lui stesso – «Stesso aggressore, stessi aerei militari che bombardano le case, stessa fottuta ragione geopolitica», ha detto a Tim Blanks in un’intervista su Business of Fashion – e gli elementi militari hanno sempre fatto parte della sua moda. Dai passamontagna, che ha riportato in auge con Vetements, ai bomber esagerati, dalle giacche e i cappellini con la scritta “Polizei” fino agli stivaloni che fanno il verso a quelli delle squadre speciali, Demna ha costruito con Balenciaga un immaginario complesso che tiene dentro, non senza contraddizioni ma almeno con ironia, la critica al capitalismo sfrenato – di cui i marchi del lusso sono espressione perfetta – l’ansia ecologica e l’immaginario post sovietico nel quale è cresciuto. E proprio la funzionalità dei vestiti, disegnati perché fossero tutti facilmente ripiegabili, e della sfilata stessa, che inizialmente doveva essere una riflessione sul cambiamento climatico, sembrava voler mettere l’accento sulla vulnerabilità degli esseri umani di fronte agli eventi, un po’ come quella che esprime la maglietta verde – semplice, disarmante – che il presidente ucraino Volodymyr Zelensky indossa da quando il suo Paese è stato invaso dai russi. Una T-shirt che dell’uniforme da battaglia ha solo il colore, sulla quale ogni tanto indossa il giubbotto anti proiettile, lo stesso che si sono infilati molti dei leader che sono andati a trovarlo (l’ultima, mentre scrivo, è stata la finlandese Sanna Marin), lo stesso che rapper leggendari hanno sfoggiato per testimoniare la loro provenienza, lo stesso che è diventato oggi, spogliato della sua funzione originale, un indumento come un altro per i soliti braggadoci, che osservano, e commentano, la guerra davanti a uno schermo.