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16:33 lunedì 29 dicembre 2026
Il primo grande tour annunciato per il 2026 è quello di Peppa Pig, al quale parteciperà pure Baby Shark La maialina animata sarà in tour in Nord America con uno show musicale che celebra anche i dieci anni di Baby Shark.
Bolsonaro è stato ricoverato d’urgenza per un singhiozzo che andava avanti ininterrottamente da 9 mesi Il singhiozzo cronico dell'ex Presidente si è aggravato durante la detenzione in carcere, rendendo necessario il ricovero e anche la chirurgia.
Il thread Reddit in memoria di Brigitte Bardot è stato chiuso subito perché quasi tutti i commenti erano pesanti insulti all’attrice Accusata di essere una lepenista, islamofoba, razzista, omofoba e classista, tanto che i moderatori hanno deciso di bloccare i commenti.
Migliaia di spie nordcoreane hanno tentato di farsi assumere da Amazon usando falsi profili LinkedIn 1800 candidature molto sospette che Amazon ha respinto. L'obiettivo era farsi pagare da un'azienda americana per finanziare il regime nordcoreano.
È morto Vince Zampella, l’uomo che con Call of Duty ha contribuito a fare dei videogiochi un’industria multimiliardaria Figura chiave del videogioco moderno, ha reso gli sparatutto mainstream, fondando un franchise da 400 milioni di copie vendute e 15 miliardi di incassi.
A Londra è comparsa una nuova opera di Banksy che parla di crisi abitativa e giovani senzatetto In realtà le opere sono due, quasi identiche, ma solo una è stata già rivendicata dall'artista con un post su Instagram.
Gli scatti d’ira di Nick Reiner erano stati raccontati già 20 anni fa in un manuale di yoga scritto dall’istruttrice personale d Rob e Michele Reiner Si intitola A Chair in the Air e racconta episodi di violenza realmente accaduti nella casa dei Reiner quando Nick era un bambino.
Il neo inviato speciale per la Groenlandia scelto da Trump ha detto apertamente che gli Usa vogliono annetterla al loro territorio Jeff Landry non ha perso tempo, ma nemmeno Danimarca e Groenlandia ci hanno messo molto a ribadire che di annessioni non si parla nemmeno.

Che anno è stato il 2020 per la moda

La pandemia ha drasticamente accelerato tutti i processi di cambiamento che abbiamo visto mettersi in moto nell’ultimo decennio, dimostrando che non possono più essere rimandati.

29 Dicembre 2020

Quando l’anno scorso si provava a tirare le somme di un decennio nell’industria della moda, il 2020 sembrava solo un anno di passaggio simbolico, non quello in cui tutti i problemi e gli stravolgimenti emersi negli ultimi dieci anni, alcuni latenti altri già in piena esposizione, sarebbero definitivamente esplosi fino a travolgere l’intero settore. La pandemia ha infatti drasticamente accelerato i processi di cambiamento che la moda stava già affrontando, portandoli all’estremo. Le sfilate si sono fermate prima di approdare su traballanti piattaforme digitali, le settimane della moda hanno dovuto reinventarsi in fretta, alle prese con il solipsismo dei grandi marchi che hanno colto l’occasione per ristabilire nuovi calendari, sempre più lontani dal circuito e dalle tempistiche tradizionali. Si sono fermate anche le aziende produttrici della filiera italiana, per un breve periodo durante il primo lockdown, prima di sperimentare una parziale riconversione in produzione di materiale tecnico sanitario e quindi il riavvio delle attività al ritmo dei Dpcm, anche qui in frettissima, perché le collezioni venissero consegnate in tempo per arrivare nei negozi che, perlopiù, sarebbero rimasti chiusi, almeno in questa parte del mondo. Senza eventi, sfilate e assembramenti da notificare su Instagram, la moda sembrava aver perso la dimensione del sogno che le è propria, ridotta a un flusso continuo di contenuti che si accavallano senza lasciare traccia nei feed social.

Ovviamente non è stato tutto così, perché di cose interessanti, in questi tempi rilassati e angoscianti che l’industria sta affrontando, ne sono successe. Le discussioni su cui ci si è accapigliati negli ultimi anni hanno ripreso nuova linfa di fronte all’evidenza della crisi, soprattutto quelle sulla sostenibilità del modello e dei ritmi di produzione, le implicazioni della filiera globale e il crescente bisogno dei consumatori di acquistare consapevolmente, tutte questioni che hanno posto in primo piano la tracciabilità delle materie prime. Mentre gli influencer Millennial si riciclavano panificatori e baluardi della famiglia su Instagram, giustamente sfottuti dai ragazzi più giovani su TikTok, e mentre in Cina i canali di live streaming facevano faville, al punto che negli uffici di marketing occidentali ci si sarà chiesti come ritornare alle televendite senza farle sembrare televendite, la grande macchina della moda provava a rimettersi in piedi, mandando in passerella, virtuale e in qualche caso reale, fashion week curiosamente emozionali (lo sono state quelle di Milano e Parigi, sia a luglio che a settembre con annessa la prima volta digitale di Miuccia Prada e Raf Simons), frutto dello stordimento della prima ondata, ma anche grandiosi eventi che avevano il sapore agrodolce dell’altro secolo come Louis Vuitton a Shanghai prima e a Tokyo poi, Dior a Lecce, Valentino a Milano. Eventi che un po’ hanno fatto rimpiangere le sfilate quelle vere, riacceso la speranza che in un futuro non troppo lontano si potrà tornare ad assembrarsi a Parigi, a Milano o chissà dove, stabilito una volta per tutte che la sfilata di per sé non è un genere morto, rimane anzi il modo migliore per presentare una visione sull’abito, solo che è diventata ancora più eccezionale di quanto non fosse stata nel Novecento.

Nel frattempo, Gucci ha sperimentato la formula del flusso di streaming prima e della serie televisiva d’autore poi, accompagnata dal festival culturale, per presentare le nuove collezioni, tenendo fede alla promessa del direttore creativo Alessandro Michele di sfilare solo due volte l’anno, in capitoli indipendenti ma interconnessi. Balenciaga ha invece puntato prima su un video musicale, una delle cose meglio riuscite di Parigi, e poi su un videogioco, Afterworld. The Age of Tomorrow, dimostrando che la questione dell’identità, nella moda, si riduce il più delle volte al conoscersi bene e a fare solo quella cosa lì: la natura della materia (la moda stessa, appunto) è poi talmente vasta che ognuno potrà trovarci i significati che preferisce, ma allo stesso tempo riconoscere che quelle cose lì sono irrimediabilmente Gucci o Balenciaga, nelle versioni di Michele e Demna Gvasalia. Rimbalzando dalla camera da letto al salotto o in cucina, provando a ricavare degli angoli ufficio negli angusti spazi urbani, mentre gli open space rimanevano vuoti, un nuovo, potente, ripensamento del ruolo dei vestiti nella quotidianità ha toccato tutti, anche chi fino a quel momento pensava di non doverci pensare. I fenomeni di cui si è discusso abbondantemente, e cioè l’abbandono dell’abito formale, vessillo di luoghi che il lavoro contemporaneo abita sempre di meno, e l’evoluzione delle nuove categorie dell’abbigliamento, che nuove non lo sono affatto, come lo streetwear, si sono schiantati contro le nuove abitudini di consumo rimodellate dal virus. A fronte delle pesanti perdite che il settore sta affrontando, e delle incerte previsioni sulla riapertura dei mercati, soprattutto quelli occidentali, c’è un intero movimento che riguarda i vestiti, le persone, le case e lo smart working di cui dovremo studiare gli effetti.

Le notizie dell’acquisizione di Stone Island da parte di Moncler e di Supreme che diventa proprietà di VF. Corp. (che già possiede Vans e North Face) sono chiari esempi di quell’evoluzione, operazioni da seguire con attenzione perché rappresentano lo stadio successivo di quello che abbiamo chiamato strapotere dello streetwear. Due marchi sinonimo di una certa figaggine delimitata nello spazio e nel tempo (gli anni Ottanta dei paninari milanesi, i Novanta degli skater di Lafayette Street a New York), “locali” per definizione ma che sono diventati di culto anticipando la cultura dell’hype di cui oggi tutte le industrie creative si nutrono, sono ora entrati nella terza fase della loro storia e cercheranno di diventare globali. E proprio quel rapporto tra locale e globale è oggi la sfida principale, la contraddizione da risolvere che racchiude tutti i grattacapo dell’industria: la tutela dei lavoratori e dell’ambiente, la trasparenza della filiera di produzione, la diversità e l’inclusività della rappresentazione estetica, l’accesso ai posti di potere e la rielaborazione degli spunti culturali, ormai imprenscindibili nel racconto di un marchio.

Lo abbiamo visto con le proteste antirazziste del 2020, ad esempio, terreno scivolosissimo dove postare su Instagram sembra (ma non lo è affatto) più facile che ragionare su cambiamenti strutturali, anche nella moda italiana che pensa di non doversi porre il problema del razzismo. Intanto online tutto è in saldo, da quasi un anno, ci sono marchi che stanno cercando di dissociarsi dalla filiera cinese del cotone dove sono impiegati gli Uiguri, questa cosa di relegare a ciò che compriamo i nostri valori è qualcosa che dovremmo analizzare meglio, come ha scritto Whitney Bauck su Fashionista. Siamo nel bel mezzo del caos, insomma, ma non c’è più nessuno che prova a negarlo e questo è già un buon inizio.

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