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Chi era Michael Jackson?

È appena uscito in Italia il famoso saggio di Margo Jefferson aggiornato da una nuova dolorosa introduzione.

di Valentina Della Seta

Il libro Su Michael Jackson di Margo Jefferson, uscito per la prima volta nel 2006 negli Stati Uniti, è uno studio affascinante sul doppio, sull’industria e gli effetti della celebrità, sulla questione della razza e del genere in America. È anche un’indagine complessa su cosa può voler dire, da fan, amare la carriera di un artista e nello stesso tempo impegnarsi a smontarne l’immagine pubblica per scoprire cosa nasconde.

«Ho sempre amato Michael Jackson», ha detto Jefferson – scrittrice e critica premiata con il Pulitzer e il National Book Critics Circle Award – in un’intervista del 2018, rispondendo alla domanda su perché raccontare un personaggio del quale si pensava di sapere già tutto. La differenza è che Jefferson aveva superato i confini di un lavoro biografico o critico per intraprendere un viaggio ossessivo e desiderante nell’universo claustrofobico del soggetto amato: «Pensiamo alla sua mente come a una casa degli specchi e diamo un’occhiata ad alcuni degli oggetti esposti: P.T. Barnum, il fondatore del più grande spettacolo sulla faccia della terra e un virtuoso del prodigio e dell’imbroglio; Walt Disney, l’uomo che ha inventato il complesso immaginario-tecnologico più potente del mondo; Peter Pan…», scrive all’inizio del libro.

Jefferson non poteva certo ignorare le vicende giudiziarie di Jackson. Le racconta nell’ultimo capitolo intitolato «Il processo», ma il punto di vista era ancora molto vicino a quello dell’artista: «Ci penserei con più attenzione oggi», ha detto nel 2018, «specialmente nel contesto del #MeToo, facendo i conti con le asimmetrie del presunto abuso sessuale». Nel libro aveva mostrato Jackson come una vittima braccata dal flash delle foto segnaletiche: «Ha l’aspetto smunto di una drag queen stordita dalla luce naturale. Possibile che qualcuno gli abbia strappato le sopracciglia alla Joan Crawford fino a dargli quella curvatura sinistra e che gliele abbia lasciate così? Ma quello è un naso vero? Sulla pelle pallida il rossetto corallo ha un’aria ruvida e scadente».

Il cantante sarebbe morto tre anni dopo l’uscita del saggio. In qualche modo Jefferson si era augurata che questo volesse dire un’assoluzione definitiva: «Speravo che la morte avrebbe ristabilito la sua grandezza di artista». Ma dopo qualche anno di silenzio, nel gennaio 2019 al Sundance viene proiettato Leaving Neverland, il film di Dan Reed in cui Wade Robson e Jimmy Safechuck descrivono nei dettagli gli abusi.

A questo punto Margo Jefferson riprende Su Michael Jackson e scrive una nuova lunga introduzione, che esce per la prima volta in occasione della prima edizione italiana del libro a cura di 66th and 2dn, con traduzione di Sara Antonelli: «In Leaving Neverland, un documentario dai toni pacati e tuttavia tremendo, due uomini di trent’anni si mettono davanti a una cinepresa e descrivono gli anni della loro infanzia, quando hanno fatto sesso con Michael Jackson», scrive Jefferson nelle pagine nuove del libro. «Usano questa espressione piatta, “fare sesso”, e lo farò anch’io», aggiunge.

Michael Jackson (1958-2009) saluta durante le riprese del video musicale di ‘Bad,’ diretto da Martin Scorcese, New York, 1987 (Foto di Vinnie Zuffante/Hulton Archive/Getty Images)

Una delle domande più insistenti che vengono fuori con l’uscita di Leaving Neverland riguarda il tema di come trattare l’arte di una persona che si è rivelata violenta nella vita privata. A quanto pare, non esiste una risposta facile: «Quando a prevalere, o a macchiare un’opera, sono i materiali oscuri della vita, dovremmo sbarazzarcene? Forse sì, ma dovremmo anche lottare per quelle parti che riteniamo significative».

Per Margo Jefferson la censura è una soluzione ipocrita e insoddisfacente: «Alcuni sostengono di aver bisogno di cancellare Michael Jackson, di smettere almeno per un po’ di ascoltarlo e guardarlo», scrive. «Nell’aria c’è anche il tentativo di eliminarlo dalla Rock and Roll Hall of Fame. Se la stessa misura fosse applicata a tutti i casi di sfruttamento sessuale e di abuso, la Hall of Fame – insieme a molti dei suoi membri maschi e spavaldamente eterosessuali – ne uscirebbe decimata».

C’è da dire che alle vittime, prima dell’esplosione del caso Weinstein nel 2017, non si faceva caso. Michael Jackson aveva sempre attuato una strategia precisa, da predatore nascosto in piena vista. Si sapeva tutto della sua frequentazione con i ragazzini; escluso il sesso, che accadeva dietro porte chiuse in fondo a corridoi con i pavimenti allarmati. A pensarci oggi è incredibile che l’abbia passata liscia. Nei reportage di Maureen Orth, che aveva lavorato al caso dall’inizio, c’è tutto: «Nell’agosto del 1993 ero in spiaggia a Nantucket quando mi è arrivata voce che Graydon Carter, il direttore di Vanity Fair, mi stava cercando: Michael Jackson era appena stato accusato di molestie sessuali da un ragazzino di 13 anni», scrive in un articolo del 2009.

Il primo marzo di quest’anno Orth ha scritto per Vanity Fair Usa un altro pezzo intitolato “Dieci fatti incontrovertibili sulle accuse di abusi sessuali a Michael Jackson”: «Molti dettagli di ogni caso sono identici», scrive. «La mira sui figli di famiglie complicate, l’abilità nel coltivarseli, i regali, la seduzione, le Jacuzzi, le modalità degli incontri sessuali, la paura e le minacce su cosa sarebbe successo se avessero raccontato a qualcuno cosa aveva fatto Jackson. Anche il loro congedo ha seguito uno schema parallelo: all’avvicinarsi della pubertà, dicono Robson e Safechuck nel documentario, erano stati allontanati e sostituiti da un bambino più giovane».

Nell’introduzione a Su Michael Jackson Margo Jefferson affronta, tra le altre cose, l’ambivalenza dei sentimenti di un ragazzino sedotto e abbandonato dal proprio idolo: «Quando diventa grande oppure troppo scontato per essere desiderabile, il favorito viene sostituito. Significa che è libero? No, non emotivamente. La colpa, il senso di abbandono, la nostalgia, la paura, il desiderio, il disgusto: gli sono già accanto, pronti a crescere insieme a lui».

Prima degli abusi Jackson doveva essere sembrato un amico fantastico. Il suo mondo era pieno di videogame, film di Spielberg in anteprima, cioccolata e caramelle (e vino, chiamato “succo di Gesù”, dissimulato nelle lattine di aranciata): «Il Neverland Ranch, acquistato nel 1988, era una casa e contemporaneamente un parco giochi» scrive Jefferson. Negli anni dopo i processi il cantante, mai condannato in tribunale ma ormai smascherato, va in rovina sotto tutti i punti di vista: «Diventò la figura iconica di qualunque storia sul declino di una star», scrive Jefferson. «Dentro c’era la storia degli uomini rovinati dagli scandali sessuali, che ha attraversato tutto il Ventesimo secolo, da Fatty Arbuckle a Roman Polanski, passando per Jerry Lee Lewis, Chuck Berry e Pete Townshend. E c’era la storia delle droghe e del viso deturpato, rappresentata da Elvis Presley e da ogni star femmina che invecchiando è stata derisa per i suoi problemi con la tossicodipendenza e la chirurgia plastica».

Nel 2009, durante la preparazione di un visionario grande tour di rientro, Jackson muore per una dose di anestetico da sala operatoria somministrata dal suo medico per l’insonnia cronica. I bambini che aveva sedotto negli anni, ormai cresciuti, continuano a soffrire dei postumi degli abusi. Robson e Safechuck hanno raccontato di aver sopportato anni di depressione latente fino a che non hanno avuto dei figli: in quel momento il trauma è esploso. Ma ormai nessuno avrebbe più potuto condannare Jackson. C’è una vicenda, per certi versi simile, che mostra un finale alternativo. È su YouTube in versione integrale. Sono le riprese di alcuni giorni nel gennaio 2018 del processo a Larry Nassar, il medico della nazionale di ginnastica artistica Usa che per anni ha abusato di più di cento ginnaste pre-adolescenti con la scusa di aiutarle. Per molto tempo Nassar è riuscito a cavarsela usando la fama e la popolarità nel suo ambiente (nel suo piccolo come Michael Jackson), mentre le ragazzine non venivano credute: «A volte mi sembra che l’unica emozione che sono in grado di provare è la rabbia», dice una di loro da dietro il microfono per i testimoni guardando l’uomo in divisa arancione da detenuto. Un’altra risolve in poche parole la domanda fastidiosa usata per togliere credibilità alle vittime: «Perché non hanno parlato prima?». Risponde per tutte: «Forse non sapete che cosa fa la vergogna alle persone».

La colpevolezza legalmente accertata di Nassar (lasciando da parte la condanna a 175 anni di carcere, che fa paura quasi quanto i suoi crimini) è forse il vero risarcimento, la possibilità di chiudere con il passato. Resta il denaro: «Wade Robson e James Safechuck hanno fatto causa all’Estate di Michael Jackson e, per rappresaglia, l’Estate li ha denunciati a sua volta e fatto causa al canale Hbo per cento milioni di dollari», scrive Jefferson. «Io mi ritrovo a tifare per questi due uomini, affinché possano ottenere il più alto risarcimento legale ed economico possibile. Al momento, questo genere di ricompensa è l’unica forma di giustizia pubblica a disposizione delle vittime di abusi sessuali».