Tutte le foto sono di Stefano Galuzzi

Cultura | Dal numero

Mendini Bros

Abbiamo incontrato Alessandro e Francesco Mendini, la coppia di fratelli che da sessant’anni prende in giro il buon design, nel loro atelier. Una conversazione molto milanese su Proust, nel senso della poltrona.

di Michele Masneri

Cardigan verde su scollo a V grigio su t-shirt bianca, capelli candidi, frangetta, occhiali tondi con montatura invisibile, da esistenzialista, da maestro mai sottovalutato, da Battiato milanese. Nato a Milano nel 1931, Alessandro Mendini gioca da sessant’anni a fare il discolo del design italiano, l’Arbasino del disegno industriale e dei compassi d’oro. Passato alla storia per un cavatappi che si chiama come una sua amica, Anna G., e per una poltrona ready-made che si chiama Proust, è il paladino del design espressionista, è il Philippe Starck italiano che ha raccolto l’eredità irrazionalista di Giò Ponti per trasferirla sui terreni scivolosi ma divertenti dello Swatch, del tostapane bombato Philips by Alessi, ma anche su tradizioni kitsch del mosaico, del pezzo unico, della ceramica, del vetro Venini. Dietro ogni grande uomo c’è un grande uomo, e Alessandro Mendini ha un fratello che probabilmente è la sua pars construens, si chiama Francesco, sembrano gemelli ma hanno otto anni di differenza; Francesco, giovinetto (è nato nel 1939) è il razionale della coppia hipster di ottuagenari che da sessant’anni prende in giro il buon design milanese. Architetto, probabilmente uomo di organizzazione dell’Atelier Mendini, camicia con colletto stretto fino all’ultimo bottone, giacca grigia, occhiali, capello candido ma con riga. È il tecnico dei due; mentre Alessandro è il politico.

Alessandro è Valentino, Francesco è Giancarlo Giammetti. I fratelli Mendini nel loro loft di piazza Lodi, con pause e toni comici e ironia milanese da Franca Valeri, soft spoken, in un loftone di due piani – «case popolari, sopra lo studio ci abito io», dice con voce sottilissima Alessandro, un soppalcone a doppia altezza costruito su tubi innocenti neri, grandi ventilatori vortice al soffitto, e tutti gli oggetti dell’imprudenza domestica scatenata di Alessandro: un totem di mogano, alto più di noi, tondo, tipo colonna traiana, è un armadio quattro stagioni con sette cassetti («per le famose sette camicie», sibila Alessandro); dei vasi in edizione limitatissima; vari esemplari della poltrona Proust, iconissima Mendini con vicende di cui poi si dirà. Un vagone di un trenino, a terra, dall’ultima installazione-celebrazione dei Mendini alla Triennale, e poi cavatappi a forma di pappagallo, una poltrona di mosaico, schedari Olivetti spigolosi ridipinti, sagome di città futuribili e sudamericane, e rendering di manufatti 3D perché adesso la grande passione dei Mendini è diventare “makers” con tutte le possibilità delle stampanti tridimensionali, con progetti fatti fare in Corea del Sud. Poi c’è anche un disco dei Matia Bazar. Si chiama Casa mia, è del 1984, è contenuto nell’lp Architettura sussurrante, ed è un fantastico repertorio d’epoca. Maestro, ma i Matia Bazar? «Certo. Era un’epoca di contaminazioni», dice Alessandro, in una saletta al primo piano del loftone, tutto contento di parlare nella registrazione di questo iPad mini grigio scuro («ma che bello!»), con la passione per gli oggetti che non svanisce, anzi. Arbasino faceva le canzoni per Laura Betti (Ossigenarsi a Taranto/è stato il primo errore/l’ho fatto per amore/di un incrociatore/e sono finita, su un rimorchiatore) e Mendini giustamente per i Matia Bazar (la casa è senza fantasia/la casa è senza ali/la casa è un punto immobile mentre la vita è fuori) e chissà cosa dovevano pensare le star del design serio di quegli anni, i Castiglioni e Mari e soprattutto Magistretti.

C’è molto questa milanesità, di fratelli che lavorano insieme. I fratelli Castiglioni, col loro studio a piazza Castello. «Anche i fratelli Campari», aggiunge Francesco Mendini, con voce ancora più bassa, e sguardo basso, ma luciferino, tipo ventriloquo. E ridono. Si capisce che si son sempre divertiti, insieme. Avete mai litigato? «Mai». Perché? «Perché non si usa, non sta bene», all’unisono. E ridono. La loro opera sembra un anti-Bauhaus e un anti-razionalismo, loro sono la nemesi dei Castiglioni. Altro che «la funzione, che bel decoro», secondo il papà della lampada Arco; i Mendini hanno esplorato come bambini curiosissimi tutte le frontiere del kitsch, fregandosene molto della struttura e pensando molto alla sovrastruttura; «le mie ispirazioni sono soprattutto letterarie» dice l’espressionista Alessandro, a partire proprio dalla poltrona Proust, culto mendiniano ironico.

Avete mai litigato? «Mai». Perché? «Perché non si usa, non sta bene», all’unisono. E ridono.

Di sotto, vicino alla macchina del caffè, c’è una poltrona in costruzione, o in pittura (la Proust, uno degli oggetti del design italiano più famoso al mondo, sorta di oggetto misterico alloggiato al solito Moma: una poltrona del più sfarzoso Luigi XV, tutta dorata, con rivestimento impressionista multicolor; la «maggiorata fisica delle poltrone italiane» secondo Ugo Gregoretti in un archeologico programma Rai dedicato al design); un pezzo imbarazzante, museale, che va oltre il ready-made. Un po’ artigianato, un po’ pezzo unico. Di sotto, appunto, una signora sta dipingendo una Proust, con un pennello, pennellata per pennellata. «Quella è la puntinata, fatta tutta a mano» dicono Alessandro e Francesco, insieme. L’assistente poi si scopre che è una loro nipote («che ha un’ottima mano!»); «stiamo cercando di capire quante ne sono state fatte» – sempre Alessandro. Di questa serie circa un centinaio, cioè quella manuale. «Poi c’è una serie fatta con un tessuto stampato di Cappellini, poi un’altra ancora di Cappellini, poi alcuni esemplari per delle scenografie, al teatro lirico, qualche balletto; poi le miniature». «Poi ce ne sono due grandi una in cartapesta fatta dagli artigiani di Viareggio di proprietà della Fondation Cartier a Parigi; un’altra in mosaico di proprietà Bisazza, che è stata complicatissima da fare». «Adesso ne stanno facendo una in marmo con struttura in legno e metallo. E smontabile», dice Francesco; «Eh, ma spiega bene», intima Alessandro. «È stata fatta per una mostra ad Atene; quindi bisognava spedirla» precisa il tecnico Francesco, «quindi smontabile».

Ma perché proprio Proust? «Ho sempre pensato che il progetto fosse un romanzo autobiografico», dice Alessandro. E dunque per un oggetto iconico, nato nel 1976, ecco il pointillisme amato dall’autore della Recherche, ispirato a Seurat e soprattutto a Signac. «Le mie ispirazioni sono più letterarie e pittoriche che non architettoniche» dice Alessandro: dunque Proust ma anche Depero, Savinio e i surrealisti, filosofi come Kierkegaard. E attenzione suprema allo stile. Tutto è già stato inventato e scritto, dunque, in un’epoca alessandrina di pastiche e contaminazione, viva la citazione e il repêchage, e nessuno spazio per minimalismi e invenzioni pure. Via con Proust, a partire da una ricerca personale. «Ho cominciato facendo delle stoffe, ispirandomi al mondo proustiano – Alessandro. Ma poi non mi sembrava sufficiente. Volevo un mobile, una poltrona o un divano, una forma barocca». E come Arbasino prende manufatti letterari, un Gattopardo tradizionale e lo industrializza e lo trasforma incrociandolo con Disney nella sua stilizzazione e nella sua parodia, Specchio delle mie brame, 1974 con una torva e scopereccia famiglia siciliana tra duchi cocainomani e Targa Florio, Mendini prende un orgoglio nazionale, il barocchetto del salotto buono pompier, e lo riveste di parati dipinti optical. «Vado in Veneto, nel distretto della poltrona, prendo un modello falso di poltrona barocca piemontese, collego questi due elementi ottenendo un oggetto che non è più una sedia e non è una scultura e non è una pittura. È una specie di nulla un po’ lievitante e un po’ energetico».

In realtà il pointillisme ha molto a che fare con l’idea di decoro dei Mendini Bros: il puntinismo, pittura fondata scientificamente sulla conoscenza dei principi del cerchio cromatico di Chevreul, punta tutto sul la presenza della geometria come struttura sulla quale deporre i punti di colore, per mettere ordine nel caos dell’impressionismo. Il puntinismo è pittura per teorici, e pittura che riflette pienamente su se stessa: e il design dei Mendini apparentemente giocoso e da cartone animato è basato su una riflessione teorica importante, come in Proust c’è la riflessione sul romanzo e sui suoi meccanismi, la memoria ma soprattutto il circuito chiuso, la dimensione circolare. La poltrona Proust eponima nasce come manifesto: «Fare un patchwork combinando un oggetto esistente con il pattern di un quadro esistente. Un oggetto falso – in questo caso una finta poltrona del Settecento – e un pezzo di un prato di Paul Signac, abbinati, danno un’immagine nuova. In questo modo ho affrontato il problema della narrazione decorativa sopra a un oggetto. Ho poi tradotto il concetto anche nel mosaico, quel quadratino miracoloso con il quale puoi coprire il mondo».

Da Aiazzone al mosaico, passando per la Recherche. Il mosaico è un altro grande mezzo che appassiona i Mendini: Mosaico Mendini è un libro di Stefano Casciani (per alcuni anni vicedirettore di Domus) dedicato alla collaborazione di Mendini con Bisazza, che si configura tra le altre opere con i Mobili per Uomo, arredamenti antropomorfi con bracci, cappelli, tazze e abat-jour giganti con tesserine dorate, a sovrastare contenitori, tutto fuoriscala e impresentabile, il contrario del less is more, naturalmente.

La collaborazione con le aziende, l’impegno nel marketing è un altro tratto caratteristico dei Mendini. Qui un ruolo fondamentale ce l’ha avuto anche Francesco, il più architetto dei due, grazie al quale si è configurata la collaborazione per esempio con Swatch (il brand svizzero per cui Alessandro ha disegnato orologi, e Francesco negozi, 150 in giro per il mondo), e poi ancora Cartier, la stessa Bisazza, Philips, Hermès e Venini. E poi soprattutto Alessi. Per la casa di Crusinallo Francesco ha disegnato gli stabilimenti e gli uffici, e Alessandro un altro oggetto che avrebbe fatto inorridire i puristi del design: un cavatappi che si chiama come una sua amica, Anna G., che sta per Anna Gili, designer dal caschetto e dal sorriso inconfondibili, evidentemente, e che Mendini senior ha immortalato in un pezzo di cui Alessi ha venduto milioni di copie.

La collaborazione con le aziende, l’impegno nel marketing è un altro tratto caratteristico dei Mendini. Qui un ruolo fondamentale ce l’ha avuto anche Francesco, il più architetto dei due.

Fare oggetti di così largo consumo non era una contraddizione rispetto al ready made e al pezzo unico? «Certo» rispondono col sorriso luciferino i fratelli Mendini. La collaborazione col gruppo lombardo è stata celebrata con una installazione, “Ecosistema Alessi”, per l’allestimento TDM6 “Design. La Sindrome dell’Influenza” in mostra al Triennale Design Museum fino alla fine di febbraio scorso. Lì il famoso trenino fuoriscala elettrico che abbiamo qui tra i piedi passa in un plastico tra le creazioni dei grandi designer che hanno lavorato per l’azienda di Crusinallo: si vedono i bollitori di Richard Sapper e gli spremiagrumi di Philippe Starck, e pentole di Stefano Giovannoni, e tutto una gamma di prodotti sferraglianti su un fondo pop rosa e azzurro, e vagoni con scritto “Esperanto” e “Microrituality!” col punto esclamativo.

Il concettuale applicato alla larga scala, e questo racconta anche come il mondo intellettuale di Mendini è entrato in contatto con l’Olivetti degli accessori per la casa. «Era appena finita l’epoca di Casabella», sorride Alessandro. «Io ero andato a dirigere la rivista Modo, che era finanziata da una serie di industriali, tra cui Alberto Alessi. Lui mi chiese una storia dell’industria, io scrissi un saggio sul design della casa, poi mi chiese di disegnare proprio qualche oggetto». (Parentesi: dal 1970 al 1975 Alessandro Mendini dirige Casabella, e diventa il teorico del radical design di quegli anni, che si oppone ai designer istituzionali: insieme a Sottsass, a Gaetano Pesce, al gruppo Archizoom, e alleato a quello che stava succedendo nell’arte contemporanea, con l’arte povera; poi Mendini dirigerà appunto Modo; sono i tempi dell’interdisciplinarità; poi Domus; anche qui, cambiando le regole del gioco: nel primo caso, Domus si affaccia sulla contemporaneità, tra l’altro lancia per la prima volta le foto degli architetti con copertine con le facce di Aldo Rossi, Rem Koolhass, una cosa adesso normale ma all’epoca assolutamente rivoluzionaria).

Da teorico e critico, Mendini passa alla storia col più famoso cavatappi del mondo. «Che tra l’altro compie vent’anni», dice il suo inventore involontario. Anna G. nasce infatti nel 1994 come gadget. «Dovevamo lanciare una linea di elettrodomestici Alessi by Philips e serviva un gadget per i giornalisti olandesi. Feci questo piccolo oggettino spiritoso. Ne abbiamo fatti un centinaio. Poi seimila. Poi ne sono stati venduti alcuni milioni”. Oggi Anna G. è la madre di una famiglia allargata con tappi, alzate, servizi da caffè, e un marito-fidanzato autobiografico Alessandro M., anche puntinato come la poltrona Proust, e anche un cavatappi domestico a forma di pappagallo.

Il loft/studio di piazzale Lodi

Mendini è stato anche art director di Alessi: porta nuovi materiali come plastica, porcellana, vetro. E disegna alcuni classici, tra cui orologi, vasi, caffettiere. Poi c’è la grande collaborazione con Swatch, che interpreta quasi alla lettera il Mendini-pensiero del ready-made su larga scala. «Oggetti da centomila copie l’uno, però uno diverso dall’altro». «La grande diversità» precisa Francesco, «che disegna gli store della casa svizzera.» Francesco insieme a Alessandro disegnerà anche il museo di Groningen, sorta di palazzo della bella addormentata in pieno stile Mendini, su un lago artificiale, in Olanda, con palazzi lucidi come castelli bavaresi di Ludwig o come scatole per biscotti Alessi. La realizzazione del museo ha visto la partecipazione dei più importanti designer mondiali, da Starck a Michele De Lucchi; e naturalmente nella collezione permanente del museo figura una poltrona Proust (quella puntinata, ammiraglia della casa fatta qui sotto a mano, costo intorno ai quindicimila euro, tempi di attesa tipo Ferrari, stesso concetto di industriale-unico).

Nostalgia? Per niente. I Mendini Bros adesso sono tutti contenti del futuro di grande artigianato industriale, mostrano prototipi stampati ad Amsterdam e richiesti a Seul.

Adesso i Mendini bros sono molto eccitati per la nuova sfida della stampa 3D. Proprio col mondo delle corse automobilistiche Alessandro trova delle convergenze. «Per esempio, i volanti delle auto di Formula Uno sono oggetti di alto artigianato, stampati con sistemi 3D. Sono pezzi unici, montati a mano, realizzati in maniera industriale». Questo è il futuro, secondo i due makers ottantenni assai milanesi.

Per il futuro, difficile replicare un’epoca di grandi riflessioni teoriche e movimenti come nel Dopoguerra. «Oggi vedo estrema attenzione nell’impostare i problemi ma grande difficoltà negli esiti formali. Cambiano i metodi. Non si progetta più come una volta. Non ci sono più i gruppi: il Bauhaus, ma anche Alchimia, Memphis. Adesso i designer sono persone sole, lavorano da soli, non si confrontano» dice Alessandro. Nostalgia? Per niente. I Mendini Bros adesso sono tutti contenti del futuro di grande artigianato industriale, mostrano prototipi stampati ad Amsterdam e richiesti a Seul. I due fratelli Mendini lavorano insieme dal 1980. «Dallo studio Nizzoli» (Marcello Nizzoli, disegnatore tra l’altro della Lettera 22, Nda). Vi abbracciate, per una foto? «Non ci siamo mai abbracciati, nella vita» – si schermiscono milanesemente. Di sotto, la nipote dipinge piccoli puntini sulla poltrona finto piemontese di cui non si sa esattamente la tiratura.