Cultura | Letteratura

Megan Nolan e il desiderio di annullarsi per un uomo

Intervista alla scrittrice irlandese trentenne di cui è da poco uscito in Italia il libro d'esordio, Atti di sottomissione.

di Francesca Faccani

Un selfie di Megan Nolan dal suo profilo Instagram

Era lo scorso dicembre quando la sezione commenti del New York Times si era praticamente intasata per colpa di un op-ed che i lettori giudicavano scandaloso, come scrivevano sui tweet dove menzionavano furiosamente @nyt in cerca di spiegazioni. A firmarlo era stata la giornalista irlandese Megan Nolan, che, appena trentenne, era molto sorpresa, non aveva mai visto nessuno dei suoi pezzi ricevere così tanta attenzione, nemmeno quello del 2019 in cui chiedeva di normalizzare la bruttezza. Questo op-ed si intitolava “The Joys of Frivolous Sex”, e l’autrice rivendicava il valore dell’intimità fisica con gli sconosciuti nel bel mezzo della pandemia, tanto inibita dalle restrizioni del lockdown che hanno favorito invece la monogamia. Ha cercato di spiegarsi, non è che avesse risposto al pitch del giornale «Cosa ti manca di più dal lockdown?» con «il sesso casuale», come invece sospettavano i lettori del Nyt su Twitter. Di solito si occupava di editoriali sulla Brexit, sull’alcolismo, sull’arte di mangiarsi le unghie; quella volta il giornale le aveva chiesto di parlare di sesso, di amore e di ossessione.

È esattamente di sesso, di amore e di ossessione che scrive nel suo romanzo d’esordio. Si chiama Atti di sottomissione, uscito lo scorso mese per NN Editore. Qui, però, ribalta tutto quello che ha tanto difeso nel suo pezzo flop, che rimane, ad ogni modo, una validissima riflessione su quanto siano ancora moraliste le nostre istituzioni quando si tratta di normare i nostri rapporti. A un certo punto nell’articolo scrive: «Ho bisogno veramente poco degli altri individui, ma sono avida del mondo. E perché non lo dovrei essere? È un’avidità sensata e genuina, alimentata non dalla disperazione ma da un amore smisurato per il mondo e per le persone che ci abitano: come posso vergognarmene?», ed è esattamente dalla ricerca disperata di una persona da amare che ha inizio il suo Atti, che in originale esce proprio come Acts of Desperation.

Una storia semplice, riassumibile in un TikTok, una relazione impari e “tossica” tra la narratrice ventenne e un critico d’arte più grande, Ciaran, che si realizza nel palcoscenico di una galleria d’arte, nel momento in cui lei, a caso, fa un commento autodenigratorio sul fatto di non capire l’arte, e che trova il suo picco quando questo, voltandosi verso di lei, risponde: «Non è forse il nostro compito capire, perché questi oggetti in questa stanza?». In un commento vengono assestate tutte le dinamiche: questo uomo la tratterà male, e lei lo inviterà a farlo. Forse continuiamo a sfogliare le pagine proprio per sezionare la banalità di questa sottomissione, oggi quasi sconfessata, per capire perché la protagonista sorride mentre pulisce il cesso della loro casa in ginocchio, perché butta via giornate a inventarsi nuove ricette per il compagno, perché ogni sera si accontenta di un sesso quasi cordiale, quando lei lo vorrebbe brutale. «Fingiamo di desiderare cose che non desideriamo affatto, in modo che nessuno si accorga che non riceviamo ciò di cui abbiamo bisogno», aveva scritto Lisa Taddeo in Tre Donne parlando della facilità con cui queste reprimono i propri impulsi immolandosi per qualcun altro o qualcos’altro, un’idea, per amore. Ecco, Megan Nolan ha cercato di spiegare questa meccanica raccontando la sua storia, in un romanzo che ha scomodato persino Karl Ove Knausgård per lo strillo in copertina.

Ammetto che mi sono avvicinata al libro perché prometteva una certa famigliarità con il canone irlandese contemporaneo (Dolan e Rooney), ma in realtà ho finito per amare Atti di sottomissione precisamente perché l’ho trovato così diverso, a partire dalla scrittura, volutamente imprecisa, sicuramente istintiva, monologica. Potrebbe avere a che fare col fatto che tu, a contrario loro, ti sei tenuta fuori dal mondo accademico e letterario dublinese? Mentre loro frequentavano workshop e lezioni, tu invece hai deciso di lasciare l’università, al posto di studiare scrittura leggevi quella degli altri.
Sono d’accordo, da un punto di vista demografico, io, Naoise Dolan e Sally Rooney rientriamo più o meno dentro a una tipologia (trentenni, donne, abbiamo vissuto a Dublino), ma non considero la mia scrittura in alcun modo simile alla loro. Se non ti soffermi sul fatto che i nostri romanzi parlano di giovani irlandesi, che è una metrica generica e quindi anche abbastanza inutile, non ci trovi poi tante somiglianze. La differenza principale tra di noi è, credo, che Naoise e Sally sono scrittrici molto più raffinate, come hai detto tu, incredibilmente studiate, poi certo, hanno un talento naturale nello stile che io non ho. Il mio libro è meno filtrato, meno controllato, più crudo. Non è per dire che ci sia uno stile migliore dell’altro, ma che si creano delle esperienze di lettura molto diverse.

Ma la differenza sostanziale tra di voi sta nel modo in cui scrivete dello stesso materiale, le dinamiche di potere in una coppia. Tu vai oltre alle parole, ci metti l’ossessione, la morbosità, alla fine pure violenza. Il tuo è un romanzo sull’amore e sul sesso sì, ma è un libro sfrontatamente politico, femminista, mi ha ricordato più Rebecca Solnit e Roxane Gay.
Però non identificherei Atti precisamente come un romanzo femminista, per come la vedo io semplicemente si fa carico di identificare alcuni dei problemi che il femminismo nella sua forma ideale sradicherebbe, mostrando come la conoscenza femminista non si traduca sempre in un comportamento femminista.

E come lo fa?
Ammettendo la nostra sostanziale vulnerabilità. Credo che sia una delle cose più difficili e pericolose al mondo, indipendentemente dal genere, il che è assurdo se pensi a quanto siamo tutti a nostro modo fragili. Eppure c’è ancora questo senso di divieto ad ammettere che spesso siamo feriti, stressati, frustrati, bisognosi. Per quanto riguarda le donne e le storie d’amore, si aggiunge un livello di paura perché, da un punto di vista culturale, la donna bisognosa è un tropo stomachevole. Una donna innamorata di un uomo in maniera ossessiva è imbarazzante e fa paura; invece, se pensiamo a un uomo, ce lo immaginiamo appassionato e fervente, gli concediamo il beneficio del dubbio. Non so se sia coraggioso ammettere questi sentimenti così umilianti, ma credo che serva accettare semplicemente che sì, qualcuno ti troverà stucchevole, ma così è.

Eppure ti chiedi com’è possibile che una ragazza Millennial, cresciuta in questi tempi in cui ti insegnano il consenso, il desiderio femminile, la parola empowerment scritta sui cupcake, desideri annullarsi dietro a un compagno. Cioè, lo sceglie lei, viene sottomessa perché sceglie di sottomettersi. Partecipare consapevolmente alla propria degradazione attenua le sue conseguenze?
Le donne occidentali hanno avuto pari diritti rispetto agli uomini da quando sono nata, ma il fatto è che l’antica dinamica dell’eterosessualità (dove un uomo ha il potere, domina, decide e una donna si conforma alla sua presenza, vive per servirlo e per soddisfarlo) non può essere smantellata da una sola generazione, o semplicemente da alcune leggi. Tutta la storia dell’umanità ha predicato il sistema del patriarcato con pochissime eccezioni sociali. Certo, questi ruoli, queste abitudini e disfunzioni, non spariranno velocemente, anche se noi sappiamo bene che nessun genere è inerentemente superiore. Così la mia narratrice ne è sì consapevole, ma agisce assecondando impulsi libidici più forti, più che l’intelletto.

In uno dei capitoli finali c’è questa frase che pronuncia la narratrice: «La gente oggi parla sempre più del desiderio femminile, e siamo tutti d’accordo che sia una cosa buona, un passo avanti. Ma mi stupisce sentire di persone che si agitano a ogni vago accenno al fatto che il desiderio di una donna possa ancora essere determinato dagli uomini». Mi trovo molto d’accordo, mi/ci rende meno femministe secondo te?
Le immagini e rappresentazioni della sessualità vengono ancora scritte più da uomini che da donne, quindi crescere in questa società significa che le donne non hanno lo stesso punto di partenza per sviluppare una vita sessuale autonoma e libera dall’influenza maschile. Non significa che le donne non abbiano una vera immaginazione sessuale o desideri che sono loro, certo, ma significa che molti degli incontri sessuali che ci hanno formate, da un punto di vista visivo o fisico, sono stati colorati dalle preferenze degli uomini. Dobbiamo lavorare per trovare quella verità e cercare di chiarire cos’è che vogliamo veramente. Non sarà mai possibile ricominciare da capo e ridefinire la nostra sessualità liberandola dai contributi caotici dell’adolescenza, però essere consapevoli di come siamo state influenzate è sicuramente un ottimo punto di partenza verso una libertà maggiore.

Quando nelle prime pagine la narratrice descrive Ciaran ne parla come di un uomo bellissimo, tranquillo, sorridente, ma specialmente «senza dubbio integro, come se contenesse tutto il suo mondo dentro di sé» e credo che sia la chiave della sua attrazione: che cosa contiene esattamente?
Il bisogno funziona come repellente, specialmente prima che conosciamo una persona: no, prima la amiamo, la rispettiamo profondamente e la apprezziamo, e poi il bisogno diventa comprensibile e quasi perdonabile. Prima di questo, invece, è un segnale d’allarme: evitiamo istintivamente di farci appesantire dai bisogni tediosi degli altri, che sia un bisogno materiale, un bisogno di essere amato o magari di attenzione, così quando vediamo una persona che sembra non aver bisogno di niente ci sembra seducente, attraente. Eppure è un punto di attrazione senza senso, perché ognuno qui ha dei bisogni, che vengano rivelati immediatamente o dopo un anno, e una persona che non ha proprio bisogno degli altri in realtà fa molto paura.

Una frase che mi ha fatto sorridere la dice la protagonista al primo appuntamento con Ciaran, lei gli ha appena confidato che scrive, e si sta aspettando che lui mostri un certo interesse, che le faccia qualche domanda, ma «come gran parte degli uomini non c’era alcun pericolo che succedesse e Ciaran non era diverso dagli altri», infatti cambia subito argomento. Secondo te perché?
Penso che in parte sia ancora collegato alla questione della vulnerabilità e dell’esporsi. È imbarazzante voler essere uno scrittore! Prima di avere qualche evidenza concreta del fatto che hai almeno un minimo di talento, è vergognoso parlare della tua scrittura con altri, e gli altri sentono questo imbarazzo anche per te e non vogliono che riveli qualcosa di così delicato di te stesso. E forse è anche perché Ciaran è una specie di scrittore che non vuole farle spazio come figura-che-scrive con cui dovrebbe poi mettersi in relazione: vuole rimanere lui il protagonista. Quante volte l’abbiamo vissuto, no? Poi le scrittrici fanno paura.

Ti ho sentita citare I Love Dick di Chris Kraus così mi è venuta in mente una frase attribuita a Hannah Wilke che cita nel libro: «Se le donne non sono riuscite a fare arte “universale” dato che siamo intrappolate nel “personale”, perché non universalizzare il “personale” e farne il soggetto della nostra arte?». Credi che il vittimismo possa essere un punto di partenza per creare un’arte femminile?
Trovo che ci sia qualcosa di prezioso nel dissimulare l’idea di vittimismo, specialmente quella femminile, e farne un’arte. Il vittimismo è un concetto e un ruolo così semplicistico che da solo finisce per essere insufficiente, ormai perfino nauseante. È importante decostruirlo, per capire come funziona, come può venire usato come arma e come, allo stesso tempo, è in grado di corromperci.