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Mathias Enard al suo meglio

Il banchetto annuale della confraternita dei becchini, appena uscito per edizioni e/o, è un trionfo dell'erudizione giocosa e dell'affollamento pittorico tipici dello scrittore francese.

di Marco Rossari

Qualche anno fa, quando il comune editore mi invitò a cena con Mathias Enard di passaggio in Italia, pensai: «Oddio, a tavola con il premio Goncourt: chissà che due palle». Arrivato, mi trovai accanto un uomo corpulento, rubizzo, allegro, con due folte basette (un tempo si sarebbero detti “favoriti”), capace di parlare non so quante lingue tra cui l’italiano. Famelico, curioso, gioviale, bevitore, simpaticissimo. La serata fu lunga, nebbiosa, stratificata, tanto quanto i romanzi di quello che si può definire uno tra i più grandi scrittori mondiali, erede di una stirpe massimalista, erudita, coraggiosa. E Il banchetto annuale della confraternita dei becchini (edizioni e/o, traduzione di Yasmina Melaouah) non fa eccezione. Anzi, dopo il funambolismo verbale di Zona e l’avventura dolente di Via dei ladri e l’orientalismo di Bussola, rilancia o rimette in gioco o rimette tout court un flusso sontuoso di parole, visto che di indigestione rabelaisiana, di vite e di storie, si parla.

All’inizio del libro ci troviamo davanti al diario in prima persona di un giovane antropologo che, per paura di flora e fauna assortite, ai climi esotici ha preferito la provincia francese (nello specifico la zona tra La Rochelle e Poitiers: verso est, diciamo che se la Francia fosse un corpo sarebbe il fegato). Ha ribattezzato il posto “Pensiero Selvaggio”, seguendo Lévi-Strauss, ed è deciso a intervistare i locali su scelte, abitudini, vocazioni, lavoro. Fare insomma un vero e proprio scandaglio antropologico per scrivere «la vera monografia rurale che mancava all’etnologia contemporanea». Patisce il freddo, gironzola in motorino, alla sera fa sesso online con la ragazza rimasta a Parigi, ironizza sul contrasto tra la modestia del soggetto di studio e l’altezza dei soggetti su cui ha studiato («… il sindaco ha deciso di presentarmi ai giocatori di carte, che mi hanno guardato come se fossi un marziano. Per usare il linguaggio di Lévinas, si potrebbe dire che hanno visto su di me il volto dell’alterità») e cataloga: c’è lo scemo del villaggio che – come un wikipedia umano – conosce a memoria ogni cosa accaduta in una determinata data passata, il pittore dall’ispirazione scatologica, il prete non del tutto indifferente al richiamo delle curve, ossia tutto quello che potrebbe entrare in un giallo sì, ma più grottesco, più articolato. Si sente che qualcosa scricchiola. In una frase come «c’è odore di pece, di legna bruciata e di ricordi», il terzo elemento in un libro di Simenon non arriverebbe mai. C’è la grazia e il tedio della provincia, ma c’è anche il ribollio di qualcosa, il brulichio della memoria e delle creature, come se stesse per arrivare un’onda anomala, un cataclisma narrativo. Che, puntualmente, arriva.

Così, superate le prime cento pagine – più deboli, ma solo per eccesso di mimesi: a scrivere è il ragazzetto senza grandi mezzi espressivi, quindi il testo è pieno di volute sciatterie – la prosa di Enard si apre come un ventaglio o come una grande dispensa affastellata o come un quadro di Bosch o Bruegel il Vecchio. E il fazzoletto di terra che ci sembrava desolato e tetro, dove abbiamo visto scorrazzare in motorino il nostro antropologo intirizzito e perplesso, si spalanca in una struttura polifonica gioiosissima – vorticante – che rivela le anime trasmigranti delle creature momentanee conosciute in precedenza, raccontando da una parte i loro avi, ma anche il territorio, le bestie, il mondo, la Storia. L’epigrafe, di tono buddhista, ci aveva allertati. Ogni esistenza si squaderna una sarabanda di voci e vicende, di passato e futuro, sfruttando l’idea orientale della reincarnazione, ossia della Ruota della Sofferenza. Non c’è un’unica trama, o forse sì: la vita, il trascorrere dell’esistenza sul pianeta, il movimento delle anime attraverso i corpi nel grande nulla. E nei mille rivoli della vita dell’essere umano la storia di guerre, nascite, adulterî, bevute, battute di caccia. E quindi di mugnai, parrucchiere, baristi, cantastorie, soldati, imperatori, principesse, porcai, ma anche cimici, allodole, cinghiali, corvi. E intorno una tribù di becchini, scavafosse, beccamorti, necrofori, tanatoprattori, pizzicamorti, guardiani, conducenti di carri funebri, lugubri “figure lunghe”, sempre alticci, curiosi e indifferenti («Si intenerivano a volte di fronte alla grazia delle curve di una tale, che sfioravano piano con la punta del dito; ridevano dei piedi torti, delle forme disperate che potevano assumere gli attributi virili, rattrappiti o contorti; decifravano i tatuaggi, osservavano le pelosità, le verruche, i nei; contavano sempre le dita dei piedi e ridevano come bambini se ne trovavano uno in più, presagio fortunato e segno di abbondanza»), veri amministratori – in luogo di un dio seraficamente muto – del mondo e dei suoi abitanti. Al centro del libro il ritrovo annuale dei becchini: pausa nell’«illusione fragorosa del mondo», memento vivere, godereccia bisboccia di caronti che sanno bene quanto il male perduri nelle anime, migrazione dopo migrazione, «come il limo sulla riva». Qui la lingua e la fantasia, piatto dopo piatto, a furia di enumerazione, diventano sfrenate, ghiottissime.

Che stia esplorando la Siria o che stia sprofondando in una piccola regione tutto sommato poco significativa, Enard fa Enard. Vive in un mondo e in una struttura letteraria a sé, dove se ne ha voglia può raccontare il viaggio in Europa di un ragazzo maghrebino o il punto di vista di un cecchino in una guerra balcanica o Michelangelo a Istanbul in preda ai turbamenti sulla propria grandezza. Genera una categoria autonoma, come in Italia certe cose di Bufalino, Eco, Mari. O, per andare altrove, come in quel romanzo incredibile di Mo Yan che è Le sei reincarnazioni di Ximen Nao. È strano: anche quando dialogano con la realtà (come nel caso di Via dei ladri, ma anche in questo nuovo romanzo compaiono ecologia e femminismo, sebbene in forma grottesca, deformata), questi romanzi sembrano estraniarsi dal mondo e parlare con sé stessi per poi rivolgersi – liberi, liberati – di nuovo al lettore, e al presente. Che però va continuamente guardato fuori fuoco, di carambola.

In un’intervista Enard raccontava d’essere partito da ambizioni professorali e quindi, nonostante fosse disgustato dall’accademia, avesse esitato a prendere la strada del romanzo, in quanto frivola. E quant’è buffo che poi questa scelta abbia comportato sì una frivolezza, ma nel senso di festosità altissima, di vivacità lessicale e strutturale, di movimento dirompente nell’arte del romanzo, pur conservando i principi dotti di partenza: studio, puntualità di riferimenti, rigore. Qui, tutto cospira all’erudizione giocosa. E non giocosa in senso sminuente, ma al contrario esaltante, euforica, divertita, anche quando è commovente o cupa, a seconda della modulazione (d’altro canto non c’è niente di più esilarante della morte), un’eredità che viene da Rabelais, da Villon, dalle ballate medievali. La prosa di Enard ha un gusto carnascialesco, un affollamento pittorico, un piccante virtuosismo. Il Banchetto è un viaggio nella Francia profonda ma anche nelle profondità del tempo, un tour de force allucinato, una millefoglie letteraria (come ha scritto giustamente Sophie Joubert in Francia), un catalogo dei vivi e dei morti e dei savi e degli stolti, una cronica dei personaggi (non) illustri (perché tutti livellati), un censimento cosmico, un’apocalissi continua, una lapide di carta, il menù dell’eternità della nostra esistenza che è sempre à la carte. Un libro mortifero, e quindi sensuale; un libro di anime, e quindi corporeo. E d’altra parte Enard sa che la nostra sublime, miserabile contraddizione è proprio questa: che siamo fantasmi di carne, e null’altro.