Cultura | Musica
Marracash tra critica letteraria e psicanalisi
Dopo Persona e Noi, loro, gli altri, con È finita la pace completa la sua trilogia raccontando la crisi senza fine che ha investito lui, l'hip hop e il mondo intero.
Ormai quasi un secolo fa il filosofo Theodor Wisengrud Adorno si chiese, da un’assolata villa in California, se fosse possibile fare arte dopo Auschwitz. Agli inizi degli anni ’90, un promettente scrittore statunitense, David Foster Wallace, si faceva domande simili: che senso ha pubblicare romanzi se non esiste più un’utenza per cui quei romanzi sono scritti, visto che i nordamericani hanno a disposizione forme di intrattenimento molto più appetibili? Al giorno d’oggi la domanda è stata riproposta (non poteva essere altrimenti) da un rapper, vero interprete della tribù in questi tempi farmacologici e post-umani: è possibile fare musica di qualità, che non si esaurisca nel giro di una settimana, che prescinda dagli algoritmi, dalle classifiche di Spotify, dalle visualizzazioni e dalle logiche produttive dell’industria musicale? O meglio, è ancora possibile, nel 2024, prestare attenzione a qualcosa? E più in generale, fare arte?
Marracash crede di sì, e È finita la pace è una risposta prepotentemente affermativa fin dal titolo. La guerra in Ucraina e il genocidio di Gaza hanno posto fine alle fine della Storia, hanno ripreso i fili di un tempo sospeso, ghiacciato da trent’anni di politiche neoliberiste che hanno eroso l’agency del corpo politico. Il Novecento non è mai stato così lontano. Ma la pace è finita anche perché Marracash è tornato, o meglio, forse, è nato, e vuole porre la propria produzione come argine all’instabilità e alla deprecabilità di un’epoca che non sente sua. Il Novecento, stavolta, è vicinissimo. La nuova scena trap/rap italiana è rasa al suolo nelle prime due tracce dell’album (“Power Slap”, “Crash”), accusata di serialità, derivatività, mancanza di originalità, e, sostanzialmente, di essere stata sussunta dal capitale, perdendo la sua originale vocazione antagonista. Marracash invece rilascia un album di tredici tracce, complesso, dai toni cupi, intimo, adulto (cosa già di per sé singolare in un genere che predilige gli adolescenti) e, soprattutto, privo di featuring. Se consideriamo il featuring come il minimo comune denominatore dalla musica rap e pop e di questi tempi, perché è capace di moltiplicare gli ascolti e di intersecare diversi pubblici, al punto che a volte gli album dei rapper sembrano solo delle scuse per fare featuring (in un’inversione tra sfondo e figura), la pulizia di È finita la pace, la sua monodia, rappresentano una reazione fortemente oppositiva.
La pastosità caratteristica della voce di Marracash nei suoi ultimi album (come se parlassimo a un amico che si è appena svegliato e che la sera prima ha fumato decisamente troppo) è qui però accompagnata da un uso massiccio del sample: Ivan Graziani (la bellissima “Firenze”), i Pooh, “Lunedì” di Bluem, un’aria di Madama Butterfly di Puccini ecc. Il featuring è stato così sostituito dal campionamento. E, tolto il caso di Bluem, tutti campionamenti di un certo tipo di tradizione italiana, che potremmo definire alta. La postura del rapper, che non smette di ricordarci di essere il king, si sovrappone a quella del cantautore, a tratti dell’intellettuale.
È un processo già iniziato in Persona (2019), portato alle sue estreme conseguenze in Noi, loro, gli altri (2021, si parlò anche di un deandreismo di Marracash a proposito di questo album) e approdato a una sua fase conclusiva/palingenetica in È finita la pace, l’ultimo capitolo di quella che potremmo chiamare la “trilogia della crisi”, in cui Marracash si offre come diagnosta della condizione dell’uomo nel tardo capitalismo. A metà tra la Psicopatologia della vita quotidiana e Massa e potere di Canetti, Marracash porta il rap forse fuori dal suo genere, o meglio, porta il proprio genere alle sue estreme conseguenze, non solo stiracchiandolo nella canzone d’autore, ma estendendolo al pamphlet, alla critica culturale. Parafrasando il concetto di Hegel di morte dell’arte, si potrebbe dire che il rap si è estinto per diventare saggismo. È difficile immaginare in Italia qualcosa che vada oltre a Noi, loro, gli altri.
Proprio per queste ragioni, È finita la pace, più che una sintesi dei due precedenti movimenti, sembra piuttosto un passo indietro, la negazione di alcune premesse. Se Persona è la rappresentazione di una crisi personale, e anche una precoce messa a tema del problema del maschile (in una scena anfetaminica e muscolare, Marracash ha il coraggio di soffermarsi sulla propria fragilità, e poi, nell’album successivo di metterla a sistema come condizione sociale), in Noi, loro e gli altri il sé, l’io, riconosce se stesso come fondamentalmente alienato, in quanto la sua identità dipende dal riconoscimento dell’Altro. Qui la crisi non è più personale ma propriamente politica. Entriamo nel regno del Simbolico lacaniano. E la prospettiva di Marracash è non banalmente materialista (al termine di Soli, in La pace è finita, ascoltiamo una vera e propria epigrafe all’album precedente: «Senza materialismo sei smaterializzato/ anzi asociale»), mettendo al centro l’oscuramento del concetto di classe a favore dei movimenti di emarginazione delle minoranze (questo il messaggio di Cosplayer: possiamo essere tutto quello che vogliamo, ma non possiamo essere poveri. La libertà esiste, ma solo a certi livelli di reddito. “Crash”, in È finita la pace: «È una questione di potere, non di gender»). Marracash, che cita Mark Fisher prima che citare Mark Fisher diventasse fuori moda, riflette alcune posizioni degli studiosi marxisti: in “Vittima”, contenuto ne È finita la pace, critica la postura vittimaria, colpevole di sollevare il soggetto dalla propria responsabilità e dalla propria agency, facendo il verso a un saggio decisivo di questi anni, Critica della vittima di Daniele Giglioli.
Su che terreno ci porta, allora, È finita la pace, che sì, recupera spunti dagli album precedenti, ma arriva a una soluzione che li nega? Perché quella sintesi tanto attesa si riduce alla fine in una regressione solipsistica: la guarigione, la risposta alla crisi, è un rifiuto del simbolico (del mondo delle leggi e degli scambi) e un ritorno alla sfera del privato, come dimostrano “Detox/Rehab” e “Happy End“, forse i pezzi più significativi di questa inversione. Se il mondo è allo sfascio bisogna evitarlo, stare nello “qui-e-ora”, aspettare che “la bolla assuma la propria forma”. La vittoria contro la crisi sancita in Persona (si potrebbe pensare che in realtà il titolo dell’album sia antifrastico: la pace è tutt’altro che finita, ma è stata appena trovata) è quella di «essere se stessi/ e l’unico modo di essere se stessi è scegliere». O ancora: «C’è una nuova pace/ la consapevolezza». La disciplina, l’isolamento, l’interruzione dell’assunzione di sonniferi portano Marracash a una guarigione (temporanea), che è sorprendente egli non riconosca come parte integrante del problema che vuole analizzare. Se la grandezza di pezzi come “Dubbi” era proprio il riconoscimento di questo meta-livello, ovvero che la messa in scena del conflitto personale dell’autore portava a rafforzare lo stesso meccanismo capitalistico cui si opponeva, in È finita la pace ci sono poche tracce di questa lucidità adamantina. C’è anzi l’ingenua accettazione di un messaggio promozionale: “sii te stesso”, lo stesso sfruttato ormai a pieno dal libero mercato. “Vivere il qui-e-ora” è del resto la grande lezione che i pubblicitari hanno mutuato dalle filosofie orientali (molto più morbide per il tardo capitalismo di quelle continentali, perché fanno leva proprio sull’unicità del soggetto), ed è sostanzialmente il senso della monadologia marracashiana. Cinque anni di una seduta di terapia di gruppo (dal 2019 di Persona al 2024 di La pace è finita) hanno portato a un risultato deludente (è lo stesso Marracash che ci ricorda in “Cliffangher” «io non rappo/ psicanalizzo») – e dovremmo forse ricordare, con Freud, che non è compito dell’analisi portare alla guarigione, che la guarigione è propriamente l’inarrivabile.
C’è una traccia del disco che però mette in discussione questa conclusione consolatoria. In “Penthotal”, la terz’ultima traccia, l’io appare ancora scisso e conflittuale, lontano dall’unità fallace e illusoria proposta dalla conclusione esclamativa dell’album. Quest’io è propriamente senza speranza, incapace di non mentire, incistato nelle sue contraddizioni e nella sua tossicità: «Donne monoporzione/ come se poi ammetterlo lo rendesse più nobile/ metto le mani avanti/ tutto rimane immobile/[…] troppe storie, troppo Penthotal/ non mi sento qua, non mi sento più/ in realtà non sento niente tranne perdita […] io non so dire mai la verità senza mentire/ e la tua cura sai non fermerà le mie tossine». Se c’è una lezione che ci ha offerto il folto entourage dei pensatori negativi, da Leopardi a Cioran, è che una speranza propriamente detta può apparire solo quando sono messe da parte tutte le illusioni, quando, scartate tutte le speranze, si osserva e si riesce ad esprimere lo scacco in cui ci siamo cacciati (in cui, direbbe Heidegger, siamo stati gettati). Marracash, che ha analizzato come pochi artisti il nostro tempo, fa invece un passo indietro e, arrivato a due passi dal vuoto, si copre gli occhi.
David Foster Wallace arrivò alla conclusione che sì, bisognava continuare a scrivere romanzi, e che questi romanzi dovevano essere avvincenti ed intrattenenti come la televisione, ma dare anche al lettore qualcosa in più, qualcosa di propriamente letterario, di propriamente umano. L’umanesimo di Marracash in È finita la pace si rivela invece un umanesimo in parte di risulta, regressivo, un umanesimo che rifiuta di confrontarsi con un tempo che è sì capace di rappresentare, ma che alla fine depreca e che si rifiuta di capire. C’è un qualcosa di anacronistico, di novecentesco, in questo sforzo titanico del singolo di ergersi contro “un mondo cattivo” (di cui fanno parte indifferentemente i suoi colleghi e il pubblico). C’è, soprattutto, una fiducia nel concetto di autenticità e unicità che stride a contatto con un’epoca che costantemente ci ricorda che ogni autenticità è sempre e solo di massa. Che non c’è niente di più falso e omologato dell’essere se stessi. L’individuo non può essere una soluzione: volenti o nolenti il modernismo è finito, per quanto ne portiamo addosso le scorie. È finita la pace risulta insomma la risposta sbagliata a una domanda corretta, che non smetteremo di porci.