Cultura | Letteratura
Il ritorno a Gilead di Margaret Atwood
È uscito I testamenti, il seguito del Racconto dell'ancella, da cui fu tratta The Handmaid's Tale.
I testamenti (foto di Tolga Akmen/Afp/Getty Images)
I testamenti di Margaret Atwood (Ponte alle Grazie, traduzione di Guido Calza) è per due terzi un romanzo per adolescenti, da riporre nello scaffale di distopie politiche young adult accanto a Hunger Games. Non è un problema. I libri che leggi negli anni del liceo sono importanti. Atwood per esempio da teenager negli anni 50 ha letto 1984 di Orwell: «Avevano appena inventato i paperback. Li vendevano al supermercato, con copertine di cattivo gusto che ti facevano pensare di essere abbastanza intelligente per capirli».
Il nuovo romanzo è ambientato quindici anni dopo il finale aperto de Il racconto dell’ancella e alterna le voci di tre personaggi che, come nell’originale, sperano di far arrivare ai posteri memorie e testimonianze. Due delle voci sono di ragazze nate a qualche anno di distanza. La più grande, Agnes, è cresciuta a Gilead come figlia adottiva di un Comandante e di sua moglie. L’altra è Daisy, quindicenne che vive in Canada con una coppia che gestisce un negozio dell’usato. Forse avete già capito. La terza voce, che apre il libro, è di Zia Lydia. Avevamo imparato a conoscerla come aguzzina sadica delle ancelle nel primo romanzo. I cattivi sono personaggi che vengono fuori bene: «Ho sempre amato Riccardo III», ha detto Atwood e ha aggiunto: «Quando ho scritto Il racconto dell’ancella non ho pensato molto al personaggio di Lydia. Nella mia mente l’avevo trattata come la moglie di Mr. Rochester prima di leggere Il grande mare dei sargassi di Jean Rhys, la immaginavo parte dell’arredamento, come una lampada. Leggendo Jane Eyre non pensi mai al suo passato o alla sua vita interiore. La vedi come un impedimento».
Nella contaminazione tra libro e serie tv, che si sono influenzati a vicenda (ma non si sono fusi come nel caso del Trono di spade) Atwood ha raccomandato agli autori solo di non ucciderla. La serie costruisce per Lydia un passato patetico di professoressa sfortunata in amore. Atwood, più raffinata, ne fa una giudice minorile. Nei Testamenti la vediamo anni prima che diventi una Zia. Lavora in uno studio di avvocate che si occupano di diritti delle donne. All’arrivo degli invasati di Gilead lei e tutte le altre impiegate dello studio vengono prese e rinchiuse nello stadio, trasformato in carcere: «Ho già accennato alla mancanza di carta igienica? E quindi? Usavi la mano, cercavi di lavarti le dita sporche sotto il filo d’acqua che ogni tanto scendeva dai rubinetti», racconta Lydia. Ricorda molto le testimonianze di chi ha visitato i centri di detenzione dell’amministrazione Trump al confine tra Messico e Texas. «Mi rincresce dilungarmi tanto sui servizi igienici», continua, «ma ti sorprenderebbe scoprire quanto diventino importanti certe cose – beni primari che hai dato per scontati, su cui a malapena ti soffermi finché non te li levano». Atwood lo ha sempre detto: «Mi sono data una regola. Non includere nei libri nulla che non fosse già stato fatto nella realtà, in qualche altro luogo o tempo, o per cui non esistesse già una tecnologia. Non volevo essere accusata di invenzioni perverse, o di rappresentare in modo errato il potenziale umano per i comportamenti deplorevoli». Probabilmente non pensava di ritrovarsi a parlare del presente.
Dal punto di vista letterario ai Testamenti manca la rarefazione gelida del Racconto dell’ancella («Non sono mai stata così vicina alle sue scarpe prima. Sono dure al contatto, senza crepe, come la corazza di un insetto, nere, lucide, inscrutabili. Non sembra che possano ricoprire parte di un corpo umano»). L’Ancella ha dalla sua parte il potere delle ellissi narrative e del finale aperto, mentre ai Testamenti tocca spiegare, sciogliere nodi, concludere. Forse è inevitabile che diventi un po’ più didascalico. Può darsi che c’entri anche la pressione di doversi confrontare con un precedente così famoso. Quando Atwood ha iniziato a scrivere il romanzo, nella primavera del 1984 durante un soggiorno nella Berlino del Muro, non poteva immaginare che sarebbe diventato così totalizzante per il suo lavoro: «Alcuni libri perseguitano il lettore. Altri perseguitano lo scrittore. Il racconto dell’ancella ha fatto entrambe le cose», ha detto. «Nel corso degli anni ha venduto milioni di copie ed è stato ripubblicato in innumerevoli traduzioni e edizioni. È diventato un simbolo per coloro che scrivono di politiche di controllo sul corpo delle donne, in particolare quelle riproduttive. “Sembra uscito dal Racconto dell’ancella” è diventata una frase di uso comune».
Atwood, nata nel 1939 a Ottawa, è tra le scrittrici canadesi più amate. I suoi romanzi, raccolte di racconti e di poesie – in totale sono più di sessanta – hanno vinto ogni premio possibile (escluso il Nobel, andato a Alice Munro nel 2013). Ma non c’è nulla nella sua carriera che possa eguagliare la celebrità dell’Ancella. Grazie alla serie di Frank Miller, la cuffia bianca e il mantello rosso di June/Offred/Ofjoseph disegnati dalla costumista Ane Crabtree sono diventati riconoscibili quanto le orecchie di Topolino o la cicatrice a forma di fulmine di Harry Potter. Margaret Atwood è una star: «Ormai sono venerabile», ha detto scherzando in un’intervista. I suoi fitti riccetti da permanente anni Settanta, oggi grigi, sono su copertine ed editoriali di moda (l’ultimo è sul nuovo numero di The Gentlewoman). Ogni incontro pubblico con Atwood registra il tutto esaurito, è affollato di cosplayer vestite da Ancelle, Zie, Mogli e da oggi anche dalle Ragazze Perla che debuttano nei Testamenti. Non è sempre stato così. Nel 1986 Mary McCarthy aveva stroncato l’Ancella sul New York Times: «La caratterizzazione è debole. Non riesco a distinguere Luke, il marito, da Nick, l’autista-amante che potrebbe essere un Occhio (una spia del governo) e/o far parte dell’organizzazione segreta Mayday. Nemmeno il Comandante funziona». Ma qualcosa di buono lo aveva trovato: «Le zie sono le migliori».