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Per ricordare Brian Wilson, Vulture ha pubblicato un estratto del suo bellissimo memoir Si intitola I Am Brian Wilson ed è uscito nel 2016. In Italia, purtroppo, è ancora inedito.

Cos’è il “mother shaming” e perché è un problema

Pensate che le mamme italiane siano troppo ansiose? È perché hanno paura di cosa penseranno gli altri se non sono ansiose abbastanza.

01 Agosto 2018

Quando sono diventata madre, una delle prime cose che ho imparato è che il mondo si aspettava da me che fossi costantemente preoccupata. In preda all’angoscia, ansiosa di proteggere la mia creatura dai pericoli, veri e soprattutto immaginari. A pochi giorni di vita, la mia bambina iniziò a piangere perché aveva un po’ di aria nella pancia, così il neonatologo mi fece un discorso solenne su come era naturale che fossi preoccupata, cuore di mamma, ma le coliche non erano nulla di grave. Quando gli risposi che non ero affatto preoccupata – e perché avrei dovuto esserlo? I neonati piangono, specie quando hanno le coliche, semmai troviamo un modo per alleviarle – mi ha guardata come se fossi un mostro. Circa un anno dopo, al primo giorno all’asilo nido, un’educatrice mi prese in disparte per dirmi che avrei pianto io più della creatura: quando le ho detto che davvero non capivo che ragione avrei dovuto avere di piangere ci è rimasta davvero male. Ho raccontato l’episodio a una conoscente che ha appena mandato il pupo al nido, e c’è rimasta male pure lei: ma come non eri in ansia, che razza di madre sei?

Già, che razza di madre sei, se non ti preoccupi per un nonnulla? Fatto strano, la stessa società che esige madri perennemente in ansia è anche la stessa società che ama lamentarsi di quanto ansiose siano le madri. Non passa giorno senza che uno psicologo o un insegnante lanci qualche appello contro l’iper-protezione della prole italica, smettiamola di tarpare le ali ai nostri figli (dove per “smettiamola” s’intende “smettetela voi mamme”). Fa parte a pieno titolo di questo rovescio della medaglia la tendenza a sfottere le mamme, ree di essere troppo mamme, cioè opprimenti, ansiogene e concentrate sulla prole: basti pensare a tutto il polverone alzato nei mesi scorsi dal caso delle “pancine”, gli screenshot di presunti gruppi Facebook per giovani rincretinite nella loro mammitudine, che non si sa bene se fossero veri o falsi ma comunque sono diventati virali e ci hanno fatto ridere, perché corrispondevano a certi stereotipi che abbiamo introiettato tutti e su cui evidentemente avevamo voglia di ridere.

Il risultato è che le mamme si ritrovano davanti a una scelta kamikaze: o accettano di diventare le creature ansiogene che ci si aspetta siano, facendo la figura delle sceme, o rifiutano di farsi prendere dall’ansia, rischiando però di passare per incoscienti o, peggio ancora, egoiste. In genere optano per la prima alternativa, resta da chiedersi il perché. Ultimamente ho sviluppato una teoria: forse è perché è tutto sommato il male minore. Non in termini di benessere psicofisico dei bambini, ma di rompimenti di palle a cui vanno incontro le madri. Se le donne si stanno trasformando in mamme sempre più chiocce, è perché conviene, perché quando non lo fanno incontrano rabbia e indignazione di suoceri, medici, amici, conoscenti, passanti e persino dei maestri che poi si lamentano perché i ragazzini di oggi non sono indipendenti. In base a una valutazione rischi-benefici, si giunge alla conclusione che conviene. È una strategia di adattamento.

(Getty Images)

Qualche giorno fa è girato molto un articolo del New York Times che parlava, se non proprio di questo, di qualcosa di simile. Nell’editoriale, intitolato “Motherhood in the Age of Fear”, la scrittrice Kim Brooks rifletteva su casi recenti di madri che sono state «molestate e addirittura arrestate per avere fatto delle scelte perfettamente razionali per i propri figli». Brooks si occupa soprattutto di casi estremi, tutti avvenuti negli Stati Uniti: vicini che chiamano la polizia, o la polizia che interviene direttamente, perché una mamma lascia il pargolo da solo in macchina per venti secondi, magari mentre sta pagando la benzina. «Viviamo in un Paese dove lasciare un bambino senza supervisione adulta anche solo per un secondo è visto come un comportamento anormale, o addirittura criminale», si lamenta. Poi però ci lamentiamo se i ragazzini sono meno indipendenti di quanto vorremmo, aggiunge.

In Italia, per fortuna, non credo sia così facile venire arrestati per venti secondi di non supervisione. E quelli descritti da Brooks, si diceva, sono casi piuttosto estremi. Però l’autrice parte da lì per fare un ragionamento più ampio e ha coniato un termine che lo riassume bene: “mother shaming”, ovvero la tendenza a umiliare le madri. L’imputazione principale è quasi sempre quella di non essere iper-protettiva: le mamme povere sono “pigre”, le mamme lavoratrici sono “distratte”, le mamme ricche sono “egoiste”, ma il punto è sempre che può capitare che, per dieci secondi, non pensino al loro bambino. In questa cultura del “mother shaming”, davvero ci stupiamo se le mamme diventano un po’ troppo ansiogene? La cosa più triste è che spesso le mamme opprimenti lo diventano non perché siano veramente preoccupate per i loro bambini, ma perché sono preoccupate di cosa penseranno gli altri se non si dimostrano angosciate. Come ha detto una delle donne intervistate da Brooks: «Non sono sicura di avere paura per i miei figli. Ho paura delle altre persone che mi giudicano per la mia mancanza di paura».

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