Cultura | Arte
L’arte contemporanea italiana vista dalla Francia
Due mostre complementari a Nizza ripercorrono in modo nuovo la nostra storia dell'arte dagli anni' '60 a oggi.
25 giugno 1981. Il Centre Pompidou di Parigi inaugura una mostra, curata da Germano Celant, che consacra l’arte italiana del Dopoguerra. Le opere di Piero Manzoni, Enrico Castellani e di tutti i campioni dell’Arte Povera sono ambasciatrici di ciò che il titolo – quanto mai pretenzioso – definisce Identité italienne. L’identità italiana. Da questo weekend, oltre quarant’anni più tardi, sempre in Francia ma nello sfavillante verde e blu di Nizza, ci troviamo di fronte alla stessa domanda: qual è l’identità dell’arte italiana?
A rispondere sono Vita Nuova e Le Future derrière nous, due mostre visitabili al MAMAC (Musée d’Art Modern et d’Art Contemporain) e a Villa Arson. La prima, curata da Valérie Da Costa, attraversa gli anni Sessanta e s’interrompe nel 1975 con la morte di Pier Paolo Pasolini; la seconda, curata da Marco Scotini, riparte dagli anni Novanta e giunge fino a noi. È evidente che, nel tentativo di aggiornare le caratteristiche della fantomatica identité italienne, siamo di fronte a un vuoto, quello lasciato dagli anni Ottanta, gli anni della Transavanguardia e del ritorno alla pittura figurativa, ma soprattutto dell’economia neoliberista e delle politiche conservatrici. Gli anni esplosivi della tv commerciale e dell’industria dell’intrattenimento.
Vita Nuova reagisce a questo vuoto ispirandosi all’idea dantesca di rinascita. Il passaggio dal benessere degli anni Sessanta alle tensioni del decennio successivo è rappresentato da sessanta artisti (fra cui molte donne e alcuni “dimenticati” dalle cronache ufficiali di allora) che si confrontano su tre temi: il potere delle immagini, il rapporto fra natura e industrializzazione, la memoria del corpo. Ben diverso e più convincente è il discorso affrontato da Le Future derrière nous. Già dalle parole del titolo, capiamo che il problema principale, per misurarsi con la storia di ieri e di oggi, sta nella cognizione del tempo. Il futuro non è davanti a noi bensì alle nostre spalle. E probabilmente, suggerisce Scotini, è ancora depositato negli anni Settanta. Ora cerchiamo di capire il perché.
Le tre sezioni che compongono la mostra (Divenire ex, Esercizi di esodo, Vogliamo ancora tutto), allestita dentro e fuori Villa Arson, gioiello brutalista di Michel Marot, che già da sola vale il viaggio fino a Nizza, si sovrappongono, così come accade alle tre generazioni di artisti coinvolti, venti fra quelli emersi negli anni Novanta e quelli emersi di recente. Ad accomunarli è il loro modo di scavare dentro la storia e un generale senso di disorientamento causato dalla controrivoluzione in atto dagli anni Ottanta. Pertanto le opere non dialogano per affinità formali, il video non sta con il video, l’installazione con l’installazione e via dicendo, bensì s’intrecciano nello spazio. Fanno risuonare gli stessi temi. L’ingresso alla mostra è un ottimo esempio. Sopra alla gigantografia di uno scatto in bianco e nero di Uliano Lucas, che ritrae un sit-in a Piazzale Loreto del 1971, è esposta una Carta Atopica di Luca Vitone del 1992. La fotografia di centinaia di persone sedute in piazza fa da sfondo a una carta geografica che, sì, ci mostra città e strade, bacini idrici e rilievi montuosi, ma non ci dice i loro nomi. È una carta geografica muta. Ora, sovrapporre due opere, prodotte da artisti diversi, in decenni diversi, potrebbe sembrare una forzatura, un’operazione spregiudicata; e invece, proprio grazie a quest’associazione fisica, possiamo comprendere come al pieno sociale degli anni Settanta sia subentrato il disorientamento, il vuoto conoscitivo degli anni Novanta. Perciò non si tratta semplicemente di entrare in una mostra, di superarne l’ingresso, piuttosto davanti alle opere di Lucas e di Vitone si è obbligati a superare una soglia concettuale e temporale; ad accogliere l’idea che la storia non sia sempre da declinare al singolare – forse avrebbe più senso parlare di storie – e soprattutto che il suo percorso non sia sempre lineare e retto.
Penso anche al confronto fra Marco Cavallo, un cavallo di cartapesta azzurra alto tre metri, a firma di Claire Fontaine, e Museo Franco Basaglia di Stefano Graziani. Da un lato abbiamo la riproposizione della celebre icona realizzata nel 1973 all’Ospedale Psichiatrico di Trieste, un vero e proprio Cavallo di Troia che consentiva ai sogni e ai desideri dei pazienti di uscire e prendere il largo; dall’altro, la fotografia di una pila di libri di Basaglia che regge un vaso con delle rose recise dal giardino della stessa struttura ospedaliera. Due prospettive diverse sul concetto di alienazione.
Ecco, questo tipo di assonanze, di tensioni echeggiano anche nel resto della mostra. Ovviamente qui è impossibile citarle tutte, poiché il confronto non è solo fra artisti visivi, ma entrano in gioco figure come Nanni Balestrini, Giuseppe Pinelli, Carla Lonzi, Enzo Mari e molte altre, che allargano l’orizzonte e scompigliano il mazzo. Però, alla fine della visita, sia ha la sensazione di quanto sia poco sensato parlare d’identità italiana. O meglio, di scena artistica italiana. A essere precisi è poco sensato se si adottano categorie fuori uso come il linguaggio o il mezzo espressivo, l’estetica, lo stile, l’età o la provenienza geografica. Le Futur derrière nous ci suggerisce che, per cercare di capire qualcosa in più di quanto accade oggi all’arte contemporanea del nostro Paese, siamo obbligati a rintracciare i motivi per cui si è interrotto qualcosa, e di conseguenza abbiamo mancato il nostro appuntamento con il passato. Volgere lo sguardo all’indietro è un possibile modo di ripartire laddove ci siamo interrotti.