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L’ultimo carro dello Zar

Storia dell'uomo che tra Prima Guerra Mondiale e Rivoluzione d'Ottobre ha documentato a colori la varietà del mondo russo al crepuscolo del'Impero.

15 Febbraio 2013

Ritrae un uomo anziano seduto a gambe accavallate con la schiena leggermente arcuata, la barba bianca elettrica fino alle spalle, i lucidi stivali neri poco sotto il ginocchio e lo sguardo severo dritto all’obiettivo con al centro la rotondità del naso leggermente a tubero, che verso l’alto sgorga nella fronte sferica e corrugata. È una fotografia formidabile, e in un certo periodo è stata tra le più ammirate di tutta la Russia, per almeno tre ragioni. La prima: è un ritratto di Lev Tolstoj. La seconda: è l’unico ritratto di Lev Tolstoj a colori. La terza: la qualità dei colori è sbalorditiva anche senza aggiungere che la foto è stata realizzata, insieme ad altretra il 22 e il 23 maggio 1908.

Nel giro di pochi mesi dallo scatto, l’immagine ottenne una popolarità tale («il primo ritratto fotografico a colori nella storia russa ottenuto solo per procedura tecnica senza l’intervento del pennello di un pittore», come specificava la più importante rivista tecnologica moscovita del tempo) che persino Nicola II Romanov, l’ “ultimo Zar” di Russia, chiese di conoscerne il realizzatore. Esattamente nove estati più tardi i bolscevichi della rivoluzione d’Ottobre ne scioglievano i resti nell’acido solforico ma a quel tempo Nicola era ancora il regnante più ricco del mondo e, con un capitale stimato intorno ai 240 miliardi di euro contemporanei, poteva esaudire qualunque richiesta. Sergei Mikhailovich Prokudin-Gorsky, l’autore del ritratto a Tolstoy, ne aveva una sola e tutto sommato modesta paragonata a tanto denaro: un carro a vapore provvisto di una camera oscura e degli speciali permessi di viaggio. Conquistato da quell’uomo, Nicola II gli concesse entrambi senza battere ciglio.

A bordo di quel carro, tra il 1909 e il 1917, Prokudin-Gorsky ha attraversato  in lungo e in largo il territorio dello Zar; dalla Siberia agli Urali, dal Tajikistan al Don per compiere quella che sentiva come la missione della sua vita: documentare, a beneficio di ogni futuro scolaro dell’Impero, usi, costumi, volti, tradizioni, innovazioni, lavori, panorami e architetture di una sterminata civilizzazione i cui estremi erano talmente distanti da far dubitare che potesse davvero esistere un’ unica grande entità chiamata Impero Russo (e no, non poteva “davvero esistere” come ha dimostrato la Storia in almeno un paio di occasioni, anche recenti). Come se l’impresa non fosse già abbastanza straordinaria in sé, Sergey Mikhailovich aggiungeva un contributo personale di non secondaria importanza: il colore straordinario delle sue fotografie, ottenuto tramite una tecnica basata sulla realizzazione di tre scatti in rapida successione (un’intera take durava al massimo 2-3 secondi) su tre filtri di diverso colore (blu, rosso e verde) che, una volta sovrapposti uno all’altro – tramite l’uso di una “lanterna magica” a tre bocche – restituivano il cromatismo naturale dell’immagine senza ritocchi o pennellate in post-produzione.

Prokudin-Gorsky riusciva a realizzare questo “miracolo” tecnologico”, grazie alla sua vasta conoscenza dei processi chimici coinvolti nella fotografia. Non solo anni prima aveva studiato addirittura sotto Dmitri Mendeleev all’Istituto tecnologico di San Pietroburgo ma, per perfezionare le sue tecniche, nel 1902 si era spinto fino a Berlino per sei settimane, passate ad apprendere le più avanzate tecniche di sintetizzazione del colore presso lo studio del foto-chimico Adolf Miethe,  il “pioniere del flash” e di altre innovazioni in campo fotografico.

Nel suo viaggio intorno all’Impero, Gorsky ne visitò gli angoli più remoti, incontrando culture lontanissime tra loro. Fotografò i pastori del Dagestan e gli Emiri Uzbeki in paramenti, le contadine armene in costume tradizionale e gli operai al lavoro nelle fabbriche degli Urali, gli insegnanti ebrei di Samarcanda e i nomadi Kyrgyz di Golodnaia, i soldati bielorussi di Minsk e i Mandarini al confine con la Cina, moderne dighe in Ucraina e vedute di città di pietra in Kazakistan, chiese cattoliche in rovina e monasteri ortodossi, le steppe Siberiane e i tetti di San Pietroburgo. Tra ruralità e industrializzazione, proprio mentre Gorsky proseguiva nel suo decennale progetto, si infilò dapprima la Prima Guerra Mondiale e poi la Rivoluzione dell’Ottobre 1917, due eventi in breve successione che portarono alla lenta e brutale liquidazione di quelle contradittorie immagini di tante diverse Grandi Russie, sotto il peso di un’unica egida, capillare come l’Impero zarista non era mai riuscito a essere. Il tempismo storico del lavoro documentale di Gorsky è quindi un ulteriore valore aggiunto delle sue fotografie: è un testimone dell’esistenza di culture pressoché scomparse, a cavallo della loro sparizione.

Quando l’ala bolscevica del Partito prese definitivamente il controllo delle masse rivoluzionarie, sebbene gli fosse stato offerto un lavoro accademico, Gorsky decise di lasciare il paese per emigrare in Francia, a Parigi dove morì nel 1944 mentre infuriava un’altra guerra. Dei 10.000 negativi che aveva scattato riuscì a portarne con sé soltanto 3.500 che sopravvissero all’occupazione Nazista al riparo in una cantina fino a quando, finita la Seconda Guerra Mondiale, nel 1948 la Libreria del Congresso degli Stati Uniti non lì acquisto dagli eredi di Prokudin per 5000 $ con l’intento di restaurarli e riportare le foto al colore originale. Nel 1980 la casa editrice londinese Sidgwick& Jackson ne raccolse alcune in un volume intitolato Photographs for the Tsar: The Pioneering Color Photography of Sergei Mikhailovich Prokudin-Gorskii Commissioned by Tsar Nicholas II. L’autunno scorso la casa editrice berlinese Gestalten ne ha raccolte alcune altre in un ulteriore volume. Si chiama Nostalgia ed è bellissimo.

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