Cultura | Fotografia
La riscoperta della cultura Lowrider
Dal 2014 al 2019 la fotografa Kristin Bedford ha frequentato le comunità latine tra la California e il Nevada, raccogliendo in un libro testimonianze della loro cultura fatta di cromature e sospensioni.
Una foto da Cruise Night, di Kristin Bedford, edito da Damiani
Basse e lente. Automobili metallizzate percorrono le strade di Los Angeles a rilento, con le sospensioni al minimo la carrozzeria sfiora l’asfalto: “Low and slow” è l’unica regola. Le scocche sgargianti e personalizzate – verniciature semitrasparenti su base metallica – scintillano anche di notte, come miraggi. Nelle cromature dei paraurti e nei cerchioni si riflette il mondo del lowriding: comunità di messicani in estasi alla guida dei loro prodigi. Dal 2014 al 2019 la fotografa Kristin Bedford ha frequentato le comunità lowrider tra la California e il Nevada. Si è immersa nell’estetica di sportelli aerografati, interni in velluto fucsia, sedili in pelle azzurra o gialla, ha partecipato a tanti riti e si è mescolata al vagabondare variopinto in città circondate dal deserto. Istanti di questa sottocultura urbana – uomini con baffoni e braccia tatuate, donne con pizzi neri e fiori tra i capelli – si possono osservare sfogliando le pagine del suo nuovo libro fotografico, CruiseNight (Damiani editore), che raccoglie anche testimonianze lapidarie e sentimentali dei lowrider.
Il lowriding ha origini lontane: è dagli anni ’40 che auto dalla personalità esagerata gironzolano con un andamento anomalo. Scivolano sulle strade, a parte quando i lunghi musi sobbalzano a comando. Vagare pigramente lungo le vie evoca una forma arcaica di corteggiamento tra ragazzi e ragazze: guardare e attirare l’attenzione. C’è un elemento ludico e festoso nello sfilare dei lowrider – «è come andare al ballo di fine anno, solo che lo facevamo ogni fine settimana. Andavamo al ballo di fine anno ogni settimana», dice Tommy Brizuela del Bomb Life Car Club – e all’elemento giocoso non manca la dimensione artistica. I lowrider vedono le loro auto come tele bianche, spazio per la creatività, mostre itineranti, cofani e fiancate sono l’anello mancante tra i vagoni adottati dai writer e vere e proprie istallazioni di artisti. Le loro auto di culto sono finite nei musei, di continuo vengono organizzate esposizioni e il pubblico accorre come si trattasse di capolavori riesumati, rarità, cimeli per collezionisti.
Spesso il rapporto tra i lowrider e la loro auto non è altro che una lunghissima storia d’amore. A Kristin Bedford confidano il primo incontro, di solito un colpo di fulmine che stravolge la vita – quasi sempre in giovane età – e la conquista dell’automobile da sogno, spesso legata a una serie di piccoli sacrifici, pochi dollari messi da parte mese per mese, per anni, e raccontano di come poi, una volta posseduta l’auto, si tratti di dedizione e tempo, ecco le parole d’ordine del lowrider, dedizione e tempo, ore e ore spese nelle officine per abbellire con le proprie mani macchine d’epoca e ritoccare i motori, tutto perché si possa trascorrere il resto della vita andando in giro sotto al sole, o in piena notte, lungo i fiumi d’asfalto di Los Angeles. I risparmi dei tanti lavoretti emettono ora un dolce rombo e gli esterni luccicano con temi floreali, religiosi, tra simboli di amore, nostalgia, romanticismo, un immaginario che si ritrova nei graffiti e nelle rose tatuate su spalle, schiene e polpacci. La carrozzeria è o non è una seconda pelle? «Migliore è l’aspetto della tua macchina, migliore sembrerai», dice Moses Torres.
Le vetture gioiose e decorate – divinizzate, adorate, coccolate – smettono presto di essere mezzi di trasporto, diventano tane in cui vivere e proteggersi, nidi, luoghi che incorniciano lo scorrere della vita: «Ho guidato la mia Cutlass blu polvere del 1979 come un’auto normale. Ho cresciuto tutti i miei figli in quella macchina, ci ho portato a casa il mio primo nipote dall’ospedale. All’epoca, la maggior parte delle persone al volante sui Boulevard erano uomini, e le donne erano sedute accanto a loro. Ma per me era diverso. Io sono una lowrider. È una parte di me da quando sono nata, mi rende completa. Ora possiedo sette auto e le voglio lasciare ai miei bambini. Voglio che le mantengano in vita. È la mia storia», dice Tina Martinez Perez, del Duke’s Car Club, lowrider dal 1979.
Qualche immagine del lowriding è nota a tutti. In tantissimi film auto decappottabili solleticano la strada con le pinne posteriori rosa, nei testi delle canzoni, come in Lowrider dei Cypress Hill, mostrarsi coi finestrini giù e i sedili reclinati è un modo esasperato per essere stimati: «In every barrio, I’m well respected», cantano i Cypress Hill. È un atteggiamento spesso incompatibile con la cultura ufficiale che non tollera mai stravaganze ed eccentricità. In passato si è arrivati a vietare per legge le macchine basse, la soluzione furono le sospensioni per ritirare su gli assetti di colpo in caso di polizia all’orizzonte. Lo racconta bene un personaggio del film Lowriders del 2016: «Abbiamo preso il sogno americano e lo abbiamo ricoperto di vernice sgargiante e cromatura. Ma la gente non vuole che il sogno americano si trasformi. Così hanno dichiarato illegale qualsiasi veicolo la cui carrozzeria fosse più bassa della parte inferiore del cerchione. Ma alcune tradizioni vanno conservate a ogni costo. Scorrono nel tuo sangue. Allora abbiamo preso le sospensioni idrauliche dai caccia da combattimento. Se vedi la polizia la tiri su, quando passa la polizia la riabbassi».
Negli anni Novanta l’estetica lowrider non è più solo chicana, viene sposata dall’Hip hop della West Coast e dal Gangsta rap, e in parte incarnata da personaggi come Dr. Dre, Snoop Dogg, Warren G. Si ritrova questo mondo losangelino di metà anni Novanta nel documentario LA Originals su Netflix, che parte dal fotografo Estevan Oriol e dall’artista Mister Cartoon.
Il libro di Kristine Bedford esce in un momento in cui – dopo l’epoca d’oro degli anni Settanta – il lowriding sta conoscendo una nuova vita. Dal 2016, per volontà del sindaco, si festeggia a Santa Fe, nel Nuovo Messico, il Lowrider Day. Quando il film Lowriders del 2016 di Ricardo de Montreuil esce nelle sale incassa nelle prime cinque settimane 6,1 milioni di dollari. Una nuova sezione del Los Angeles Times inaugurata nel giugno 2021, intitolata “Latino Life”, dedicata alla vita della comunità latina di Los Angeles, è partita proprio dal Lowriding – “Il lowriding è tornato” – per raccontare la cultura e lo stile di vita di quella comunità.
È difficile immaginare la cultura lowrider senza Los Angeles come fondale, la patria della “car culture”, la città con svincoli, sopraelevate e immensi parcheggi al posto di piazze e marciapiedi. Il rapporto simbiotico tra L.A. e le automobili è l’essenza stessa della città, come la simbiosi tra L.A. e le feste, le piscine, i drink, il successo, le gallerie di artisti, il vento che agita eternamente le sue palme. La cultura delle auto è stata tante volte trasformata in arte: le vedute aeree degli incroci di Los Angeles nei dipinti di Ed Ruscha e le sue fotografie ai distributori di benzina – “se non guidassi, se vivessi in un posto senza macchine, sono sicuro che vedrei le cose in maniera completamente diversa”, diceva Ruscha – l’uso del plexiglas nelle opere di Craig Kauffman, le luci a neon usate da Larry Bell. Gli artisti che lavorano a Los Angeles si riconoscono sempre per la vastità del loro sguardo, la presenza di elementi metropolitani baciati dal crepuscolo, la preferenza per il movimento rispetto ai monumenti, come si è tradizionalmente detto di L.A.
“Andammo a fare un giro in automobile” è un passaggio tipico dei romanzi d’ambientazione californiana. Il giro senza meta è un classico letterario e, specie se per percorso in coppia, precede spesso dichiarazioni d’amore, baci davanti all’oceano, bagni tra le onde. Camilla Lopez – non a caso messicana – è la ragazza di cui si innamora appena arrivato a Los Angeles Arturo Bandini, il protagonista di Chiedi alla polvere di John Fante. Camilla guida una Ford che “scalcia come un mulo” e sobbalza riempiendosi di vento. Camilla è orgogliosa dell’auto con cui lo porta a spasso. «Ha un motore fantastico», dice lei. Lui, per compiacerla, risponde: «Dal rumore parrebbe di sì». E lei: «Dovresti comprartene una anche tu». Chiedi alla polvere è un romanzo di formazione, la storia di una crescita, la trasformazione di un giovane che vuole diventare scrittore. Di fatto, a dieci pagine dalla fine, Arturo Bandini acquista una Ford del ’29 che corre «come il vento». Va su e giù lungo la costa: «Vivevo notte e giorno nella mia Ford, fermandomi soltanto a mangiare un hamburger innaffiato da un caffè in quegli strani posti di ristoro costruiti ai bordi delle strade. Questa sì che era vita: girare, fermarsi e poi proseguire, sempre seguendo il nastro bianco che si snodava lungo la costa sinuosa, liberandosi di ogni tensione, una sigaretta dopo l’altra, e cercando invano delle risposte dell’enigmatico cielo del deserto». Il romanzo è del 1939, si respira già aria di lowriding.
Chevrolet Fleetline, Impala Super Sport, Chevy del 1942, le lowrider sono tutte auto iconiche. Il libro Cruise Night di Kristin Bedford va sfogliato con lentezza, imitando l’inerzia delle macchine che immortala. La cultura lowrider è fatta di rossetti, cromature, sospensioni, fiori tra i capelli corvini di reginette al volante, è soprattutto un mondo imbevuto di desiderio, disegnato dalla luce infinita di Los Angeles, la luce che allaga ogni foto, la luce che fa sfavillare le auto e la vita, la luce sempre di taglio che rivela un aroma di Messico tra tentacoli autostradali, l’oceano e i grattacieli a specchio.