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Lou Reed, così stronzo che non riuscivi a non volergli bene
A dieci anni dalla morte esce una biografia che racconta la vita dell'ultra-tossico, iper-alcolista, stra-tabagista, immortale Re di New York.
«Is that Lou or booo?». Così domandava nel 1989 dal palco, sornione, in un palazzetto che ora si chiama in tutt’altro modo, verso il pubblico che lo invocava.
In quel lungo congedo dal novecento artistico che è il rosario delle morti celebri di idoli che hanno fatto la storia di qualcosa e che ancora non è finito, ognuno ha la sua speciale linea d’ombra al rovescio in cui realizza d’essere invecchiato grazie alla cessazione di una comune permanenza sulla faccia della terra: noi e quella persona, persona che magari non sfornava un libro o un disco decente da secoli – poco importa – non respiriamo più sullo stesso pianeta. Può essere Martin Amis o Jane Birkin: ci restiamo sotto, realizziamo qualcosa, passiamo oltre. Eppure. È un piccolo groppo in gola, niente di cui veramente preoccuparsi. Ma le cose, ebbene, finiscono. I tempi cambiano. Le ere svaniscono. Per me è stata la morte di Lou Reed. Nemmeno quando avevo letto del tardivo trapianto di fegato mi ero preoccupato granché. Non ci pensavo. Lou Reed, dai: uno dei tanti sopravvissuti, dato per spacciato chissà quante volte. Uber-eroinomane, ultra-tossico, iper-alcolista, stra-tabagista, sempre in bilico, immortale. Forse è stata una delle prime morti davvero riverberate dai social: foto mai viste, video che non ricordavo, frasi che sollecitavano una reazione emotiva immediata (un semplice “It’s so cold in Alaska” mi commosse). Sarebbe diventata di lì a poco una gara al necrotweet più efficace. Ma quella è stata – mi pare – la prima di così vasto impatto.
A distanza di dieci anni esce una poderosa biografia, scritta da un giornalista di Rolling Stone (Will Hermes, Lou Reed. Il re di New York, traduzione di Chiara Veltri e Paola De Angelis, minimum fax) che sistema e riordina il lavoro già svolto nel corso del tempo da altri biografi – anzi pettegoli, come li avrebbe chiamati lui. Già, perché Lou Reed, che aveva fatto di “Lou Reed” un frontman, una facciata, un vezzo, soprattutto un personaggio, detestava che si andasse a frugare nella sua privacy. Ci aveva giocato su per una vita (tanto che nell’antologia definitiva dei suoi scritti – Fra pensiero ed espressione, pubblicata in Italia da Arcana – sotto il testo grand guignol di “The Blue Mask” scrisse “autoritratto” e invece sotto quello pacato di “Average Guy” scrisse “A volte mi piace mentire”), ma poi s’irritava per quattro domande. Quella dell’intervista litigiosa o mancata o degenerata era un vero genere che fece la fortuna dei giornalisti, Lester Bangs in primis con i memorabili bisticci degli anni Settanta (uno che gli dà del ciccione, l’altro che risponde: «Nel naso di Lester nemmeno ci cagherei»). Cosa gli dava fastidio? Essere figlio di un contabile? Avere patito la dislessia da piccolo? Essere stato – forse essere – una persona insicura e quindi ostile?
La natura stessa di Lou Reed era quel chiaroscuro, quell’evanescenza tra persona e personaggio: tutto gay e tutto etero; ebreo che gioca a indossare la Croce di Ferro; fanatico di doo-wop ma vicino alle avanguardie più estreme; junkie irredimibile ma incantato dalle filosofie orientaleggianti. Si era nutrito di boutade alla Andy Warhol: «Io non ho una personalità, prendo quella degli altri». Oppure: «Probabilmente sono più bravo di chiunque altro a fare l’imitazione di me stesso». O ancora: Lou Reed è solo «un mezzo per andare in posti in cui io non andrei o dire cose con cui non sono d’accordo». Mescolare, confondere. E non sarà un caso che non sia mai riuscito a scrivere un’autobiografia: come scegliere in mezzo a tutta quella letteratura dell’io? Percorrere quel crinale è stata la sua vita. Cresce in una famiglia con pochissimo amore, borghesuccia. A cosa appigliarsi? All’inizio di questa storia, in realtà, c’è una bomba. Sfonda il tetto di una famiglia polacca in Europa e cade su un tavolo, ma non esplode. È la prima guerra mondiale e in quella casa ci vive una certa Shirley, che è un’ebrea di orientamento comunista. A diciannove anni decide di respirare un’aria più salubre e scappare a Montréal. Da lì s’intrufola negli Stati Uniti sotto una coperta, dentro la macchina di un amico. Alla stazione di New York, ad aspettarla c’è un certo Mendl, che è il nonno di un certo Lewis Allan Reed. Questa cugina – soprannominata Shirley la Rossa – avrà sul piccolo Lou un duraturo influsso ribellistico. La bomba inesplosa, anche.
La famiglia è biecamente perbenista. Quando Lou molla la scuola i genitori decidono – ma forse ha un peso anche la sua sessualità – di mandarlo in cura, che per l’epoca si traduceva in un trattamento con l’elettroshock. Siamo in zona Sylvia Plath o Woyzeck (che l’avrebbe affascinato) e il giovane Lou – talentuoso ma incerto – non reagisce bene, comprensibilmente (tutto questo viene raccontato in una delle sue canzoni più dolorose e meno riuscite, “Kill Your Sons”). Al college si barcamena, stringe amicizia con i compagni più strampalati, diventa pupillo di uno scrittore in disgrazia come Delmore Schwartz (ispiratore del Dono di Humboldt di Saul Bellow e autore di un celebre racconto breve in cui un uomo va al cinema e assiste a un film con malessere crescente, finché non si rende conto di stare guardando il corteggiamento dei suoi genitori, allora si alza in piedi in mezzo alla sala e grida: “Non fatelo!”, titolo: Nei sogni cominciano le responsabilità, amatissimo da Vladimir Nabokov e citato dagli U2 in “Acrobat”, canzone di Achtung Baby dedicata – guarda un po’ – a Lou e Sylvia Reed). Di Schwartz, come di Warhol, Lou Reed si sarebbe ammantato per darsi credibilità artistica, pur nella modestia del pensiero e dell’espressione (nella prefazione a un’antologia di Delmore Schwartz del 2012, scrisse: “Oh Delmore, quanto mi manchi. Grazie a te ho iniziato a scrivere. Sei il più grande uomo che io abbia mai conosciuto”, e allora capisci che è meglio tornare alle schitarrate). E tuttavia quel barlume di arte lo aiuta a trovare coraggio, a mettersi a fuoco, a circondarsi di persone giuste.
Una volta mollata l’università e scelta la musica, si aggira per il sottobosco newyorchese alla disperata ricerca di contatti e contratti. Una fatica, con Dylan che già spadroneggia (e infatti, saggiamente, Lou da giovane non porta mai la fisarmonica a tracolla). Per attirare l’attenzione non resta che épater. La bomba è lì. Attende. Fin dai primi abbozzi sul giornalino della scuola Lou Reed corteggia il disastro: mette in scena drammi edipici, pestaggi famigliari, frasi apodittiche come: «Aveva sempre trovato disgustosa l’idea della copulazione». Ogni volta che da giovane canta una qualche cover aggiunge un fuck che gli procura un allontanamento dal concerto (ancora prima del classico consiglio di Warhol: “Mettici le parolacce”, fai parlare di te in ogni modo, walk on the Wilde side: non posso credere che nessuno abbia mai fatto questo idiota gioco di parole: mi immolo). Ma proprio Warhol, con la sua capacità di aggregazione e stimolante perfidia, lo fa uscire dal guscio.
Incontra uno strano tipo, John Cale, figlio di un minatore inglese e di una maestra gallese, un ragazzo che nei primi anni di vita aveva parlato solo gaelico e fino a sette anni non era riuscito a comunicare con il padre, a sedici era stato ricoverato per un esaurimento nervoso perché la madre era diventata invalida a causa di un tumore. Strano: si trovano. Reed gli spara la prima pera in vena, un gesto di un’intimità quasi oscena. È l’inizio di una lunga storia d’amore-odio e dei Velvet Underground. La bomba è innescata. Recuperata una tizia che suona le percussioni in modo ossessivo e un altro nerd della letteratura che strimpella bene, debuttano in un modo che nessuno scrittore troverebbe plausibile, dopo gli elettroshock e i ricoveri e i disagi e le prime botte di eroina e le botte in generale e i sottoscala come dormitori e gli scarafaggi di una città invivibile che non esiste più. L’esordio in pubblico dei Velvet avviene alla 43esima cena annuale della New York Society for Clinical Psychiatry. Bisogna immaginarla questa scena: trecento medici in abito da sera in un albergo, con roast beef e fagiolini sul piatto. Questi tizi tutti in nero con gli occhiali da sole escono dalle quinte e attaccano una canzone sull’iniettarsi l’eroina. Salta fuori un tipo che fa schioccare una frusta e una ragazza bellissima imbottita di speed che semplicemente danza. Poi saltano fuori altri due tipi strambi con una cinepresa e un riflettore puntati sui dottori, vanno da una donna e le chiedono, indicando il marito: «Ce l’ha abbastanza grande?», e a lui: «L’hai mai leccata?». Herald Tribune il giorno dopo titola: “Elettroshock per gli psichiatri”.
E la bomba esplode? Sì, ma anche no. In fondo non se ne accorge nessuno. Quattro dischi, più o meno. Tutti diversi. Uno più bello dell’altro. Uno più potente dell’altro. Le dissonanze, la distorsione, il feedback, l’aggressione del pubblico (ma anche le carezze di certe ballad). Un giornalista li paragona a un veliero che sbatte contro uno scoglio. Contro il flower power (a San Francisco gli hippy disegnano una bara accanto al loro nome sul camerino: «Fu fantastico»), contro i Beatles, contro un po’ tutto il mondo. Primitivi e avanguardisti insieme, naïf per forza di cose: chi mai aveva idea di quello che stava accadendo? Ogni incertezza e ogni errore diventano punti di forza. Uno per tutti. Mentre registrano “Heroin” a un certo punto Moe Tucker non sente più gli altri e smette di suonare, eppure come dice bene Hermes «quell’improvvisa assenza ritmica diventa il colpo di grazia finale, perché esalta il bagliore rumoristico della viola di Cale e mette in risalto la voce di Reed». O leggende meravigliose come l’ingegnere del suono che durante “Sister Ray”, scorato, abbandona lo studio e butta lì: «Voi intanto registratela. Poi, quando avete finito, mi chiamate». Ma forse sono tutte cose a posteriori che ci raccontiamo per fascino, incantamento, illusione. Perché, alla fine di quella piccola esplosione, il nulla. Lou Reed – quel tizio minaccioso con gli occhiali scuri che parlava di aghi in vena e sadomaso – torna a vivere dai genitori e si mette a lavorare come dattilografo per il padre.
È facile oggi snocciolare le band illustri nate dai loro dischi secondo il celebre motto: «I Velvet hanno venduto poco ma tutti quelli che hanno comprato il disco hanno formato una band», e quindi Patti Smith, Television, Joy Division, Roxy Music, REM, Pixies, Sonic Youth, Cowboy Junkies, Nirvana, eccetera. Verissimo, la discendenza è infinita. Ma in quel momento il culto è davvero underground. In questo libro c’è una storiella tra le più tenere. Quando la batterista Moe Tucker se ne torna a stare per conto suo e mette su famiglia, a un certo punto un figlio torna a casa da scuola e le dice che il prof di Storia s’è emozionato. «Ma come! Tua mamma suonava nei Velvet Underground?». Bello da raccontare, a posteriori. Ma in quel momento è il vuoto. E per Lou Reed ancora di più. I Velvet sarebbero rimasti uno spauracchio. «Mi trovo nella curiosa condizione di dover competere con me stesso». Ci voleva di nuovo la maschera e chi meglio di Bowie – alieno, folletto, mimo trasformista – poteva dargliene una? E così il musone dark diventa un efebo trasparente tutto mossette e glitter, più queer che mai, più tossico di prima. Anzi, negli anni Settanta diventa un esperimento biologico (in un’occasione, disarmante: «Sembra che il mio corpo non mi appartenga più»). Si fa di tutto. Nella biografia è impossibile tenere il conto delle combinazioni, degli esperimenti. Categorie banali come eroina e cocaina sono spazzate via. Mancano solo le supposte all’oppio di William Burroughs. Con un disco anomalo trova l’hit della vita e finalmente la bomba esplode davvero.
Dopo Transformer, che doveva tutto a Bowie, e Berlin, che era troppo bello e malato per essere capito, sprofonda in un character ostile e estremo. Da lì in poi è una posa difficilissima. Antico metodo già analizzato da Sartre su Genet: «Vedremo più tardi Genet, nelle sue opere, compiacersi nel mettere in piedi delle nozioni aberranti, il cui scopo è di scuotere la tranquilla sicurezza delle persone oneste (…) Confesserà senza difficoltà che s’è divertito alle nostre spalle, che ha cercato semplicemente di scandalizzarci sempre più». Togli Genet, metti Lou ed è fatta. Eppure – come per Genet stesso – il processo è facile da individuare, ma è così facile da attraversare? Lou Reed consacra davvero gli anni Settanta a buttarsi via e che arrivi tutto sommato in forma all’appuntamento con gli anni Ottanta è un miracolo. La definizione data di Delmore Schwartz da un critico calza a pennello per quel periodo: “Il comico dell’alienazione”. Beffardo, sempre tongue-in-cheek, eppure disperato, tale e quale a Lenny Bruce, ugualmente linguacciuto. Esausto, capace di non dormire per tre giorni, spettacolare nella dipendenza fino alla turpitudine. Oggi fa un certo effetto vedere su YouTube il filmato in cui si buca sul palco. Ma poi: l’esilarante adesivo su un disco del ’78, prima dei vari “explicit lyrics”: «Questo album è offensivo». Un nemico pubblico. La gente andava a vederlo dal vivo e aveva paura di lui e paura per lui.
Da lì in poi l’incubo di doversi giustificare di continuo, perché la musica non è letteratura e non puoi dire quello che ti pare. Non so quante volte nelle interviste, gli tocca citare I fratelli Karamazov. Anzi, il rapporto con la letteratura diventa un angolo ossessivo. Sono una rockstar mondiale e riempio le arene in Australia, ma – gnégné – non vengo preso sul serio. Teneramente, ridicolmente, cita di continuo l’unico premio di poesia che gli avevano dato. All’uscita del cofanetto celebrativo Between Thought and Expression, curato da lui stesso, appone a mo’ di blurb una frase che recita: «Lou Reed è il poeta più sottovalutato degli Stati Uniti d’America». Da chi era firmata? Da un grande scrittore? Da un critico sopraffino? Macché: da Bob Ezrin, ossia il produttore di Berlin, ossia l’uomo che Lou aveva fatto sbiellare fino all’esaurimento nervoso nel corso delle registrazioni.
Per non parlare delle disinvolte interviste in cui sostiene di avere scritto il Grande Romanzo Americano, mentre aveva scritto – che diamine – canzoni bellissime. Nessuno si libera mai del peso inutile dei libri.
Ad ogni modo i dischi erano nulli, cuciti intorno a un pezzo forte (tipo “Coney Island Baby” o “Street Hassle”) o intorno a un chitarrista stratosferico come Robert Quine (“The Blue Mask” e “Legendary Hearts” dove però l’ingrato Lou abbassa tutte le sue parti, per competizione). Il materiale era spesso riciclato dai tempi dei Velvet, gli strumentisti insomma, la confezione bruttarella. Ma anche senza un vero grande disco riesce a mantenere carisma, autorità. Con quella voce così particolare, mai addestrata, Brooklyn in ogni sillaba. Un amico di gioventù: «Io cercavo di essere intonato, ma Lou non ci provava nemmeno». C’è gente che – giustamente – ha dedicato un intero articolo all’“oooh!” sbottato da Lou Reed in “Sweet Jane”. Insomma Transformer è un disco eccezionale, ma è una creatura di Bowie. Rock’n’roll Animal è dinamite, ma è una rilettura heavy metal con due chitarre tiratissime e distanti da ogni cosa avrebbe fatto prima o dopo, Berlin è un torbido film di Polanski ma è anche un’accozzaglia di turnisti.
Tutto il periodo dal 1973 al 1989 viene occupato da una serie di tentativi per trovare sé stesso che trovano un fuoco soprattutto (se non soltanto) in Berlin e in “Street Hassle” (il brano capolavoro, non il disco) e alla lunga la cara vecchia semplicità abbinata al caro vecchio spirito caustico si condensano in un disco compatto, concept, potentissimo, dal solenne e banale titolo New York, vero capolavoro della maturità e vero erede di Velvet Underground and Nico. Solo allora comincia a tornare a fuoco, fino ad arrivare a una nuova, tardiva fioritura di enorme spessore: tre dischi, uno più bello dell’altro. Dopo New York ecco Songs for Drella (con il vecchio socio John Cale, di nuovo su Warhol) e Magic and Loss, altro concept. Quindi la reunion dei Velvet che, per quanto un po’ grottesca (mi ritrovai a cantare a squarciagola nella calca: «… when I put a spike into my vein…»), fu musicalmente notevole. Da allora in poi, lo status meritatissimo di venerato maestro, con una compagna non più ancillare come Laurie Anderson, e tutti i progetti sensati di mantenimento: gli spettacoli con Robert Wilson, la collaborazione con i Metallica per un disco terribile (ma con un pezzo “Junior Dad”, che buffamente fece piangere Hammett e Hetfield, sensibili alle questioni paterne), l’amicizia con Bono. Infine un documentario proprio sulla zia Shirley, la Rossa, quasi centenaria. La bomba era stata disinnescata e anche lui era invecchiato, eppure continuava a girare, un po’ dileggiato. Quando mi sono ritrovato a chiacchierare con uno degli organizzatori di un concerto, mi ha detto: «L’altra sera s’è addormentato a tavola». E pensavo: nemmeno avere scritto “All Tomorrow’s Parties” ti può garantire un po’ di rispetto? Ma anche io durante un concerto tardivo, quando è apparso sul palco il maestro di Tai Chi, sono uscito dalla sala per farmi un gin tonic. D’altra parte tutto il concerto era stato difficile, sibilato, senile.
S’era addolcita, quella che da Michael Stipe è stata definita «la prima icona queer», peraltro – in modo analogo a Bowie – sempre menefreghista, aggressiva, mai vittimista. Essere brutale, in fondo, per nascondere la dolcezza. Anzi, per enfatizzarla. Tutta questa vita a brutto muso come una piccola manipolazione del prossimo, da Nico agli ascoltatori, in cui la sua tenerezza viene occultata dietro agli occhiali scuri, come attestano diverse persone. Un piede in una cosa e uno nell’altro. Da una parte il pop puro e semplice («Il mio sogno è scrivere solo pezzi di due accordi, tre è già jazz»), dall’altra la sovrapposizione noise. Piccoloborghese di Long Island e squatter a Manhattan, integerrimo sperimentatore e rocker sputtanato (di nuovo Lester Bangs: «Perché non scrivi musica per le pubblicità dei chewing-gum?» «Perché non sono abbastanza bravo»). Scrivere “Venus in Furs” e metterci accanto “I’ll Be Your Mirror”. Prendere Moondog e Ornette Coleman per sovrapporli a Dion DiMucci. Assumere ingenti dosi di Burroughs, Rechy, Selby Jr., Algren, Chandler e metterci i coretti. Prendere il punto di vista di un personaggio aberrante, esplorare l’immoralità, scrutare l’abiezione: raccontare tutto in una nursery rhyme. Era uno strano mix di punk e perfezionismo, cercare quella sensazione cruda e secca ma accurata. “Emotional”, come dice in diverse interviste, ma rigoroso. Le ultime parole a Laurie Anderson sono state: “Portami alla luce”. Ecco: soprattutto prendere il buio e metterlo a frutto, fino a trovare quel piccolo bagliore dove, al termine di quel turbinio scintillante, è morto in pace.
Era Lou quello che gridavamo al concerto dell’89. Lou, Lou, Lou. Così stronzo che era impossibile non volergli bene.