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Asimmetria è il libro dell’anno?

Un romanzo che si fa conoscere per un gossip si rivela un riuscito esperimento letterario. Ne abbiamo parlato con l'autrice, Lisa Halliday.

di Cristiano de Majo

Lisa Halliday (foto di Francesca Mantovani, courtesy éditions Gallimard)

Uscito in inverno negli Stati Uniti, e in questi giorni in Italia con Feltrinelli (traduzione di Federica Aceto), Asimmetria è un libro su cui si è chiacchierato parecchio nei mesi scorsi per ragioni letterarie e non. Il modo in cui è stato lanciato negli Stati Uniti non mancava di sottolinearne l’originalità, ma si soffermava anche su un indizio biografico trapelato: uno dei principali personaggi del romanzo era ispirato a Philip Roth, con cui la scrittrice, che vive a Milano da otto anni, aveva intrattenuto da giovane una relazione sentimentale, poi diventata una lunga amicizia. C’è stata dunque una certa attenzione ai dettagli biografici trasfigurati, il solito gioco del cosa è vero e cosa no, un certo pizzicore scandalistico se vogliamo, ma molti critici hanno finito poi per esaltare le qualità letterarie di questo libro d’esordio. Siamo insomma in presenza di uno strano caso, quello di un libro che si fa conoscere per un gossip, che però si rivela essere uno dei romanzi più interessanti della stagione. Le ragioni della sua peculiarità si trovano soprattutto nella struttura. Asimmetria è infatti un romanzo diviso in tre parti: nella prima (scritta in terza persona) si racconta la storia di una giovane editor e aspirante scrittrice che ha una relazione con un anziano e famoso scrittore; nella seconda (scritta in prima persona) si racconta, invece, l’incubo aeroportuale di un economista iracheno bloccato a Heatrow come individuo sospetto; la terza, infine, è la trascrizione di un’intervista all’anziano scrittore per la trasmissione della Bbc Desert Island Discs. Abbiamo raggiunto Lisa Halliday per parlare di questo libro, che si legge con piacere grazie alla sua scrittura limpida ma che, al tempo stesso, fa vibrare le corde dell’esperimento letterario, come piuttosto raramente capita di questi tempi.

ⓢ Sei arrivata all’esordio molto tardi, ma lavori nell’editoria sin da giovane, ti va di dirmi che processo c’è stato? Vuoi fare la scrittrice da sempre ma hai aspettato di avere la storia o l’idea giusta? Oppure lavori da tanto a queste pagine e non le hai fatte leggere fino a quando non sei stata soddisfatta?

Da bambina leggevo avidamente, ma non ho mai avuto una chiara aspirazione a diventare scrittrice se non molto più tardi. All’università ho studiato storia dell’arte – la mia tesi, tra l’altro, era su due musei di Milano, il Poldi Pezzoli e il Bagatti Valsecchi – e dopo che mi sono laureata ho lavorato in un’agenzia letteraria per otto anni. È stato durante quegli anni, intorno al 2000, che ho iniziato molto timidamente a scrivere fiction. Ma raramente finivo per essere soddisfatta. Tempo dopo, un racconto che ho scritto, “Stump Louie”, venne pubblicato sulla Paris Review e questo mi diede più fiducia. Nel 2006 ho lasciato il mio lavoro in agenzia e, per i successivi cinque anni, mentre lavoravo come editor freelance, ho continuato a sperimentare con strutture, voci e temi. Asimmetria ha iniziato a prendere finalmente forma nel 2011. Molte bozze dopo, nel dicembre del 2015, l’ho fatto leggere alla persona che sarebbe diventato il mio agente e lui lo ha mandato agli editori la successiva primavera. In sintesi: vedo la scrittura come un lungo processo di errori e prove – di meditazione rigorosa, escissioni, e revisioni; nel bene o nel male, quando si tratta di parole sono una perfezionista.

ⓢ Il tuo è un romanzo composto di due parti che sembrano appartenere a due romanzi diversi, la trama non è didascalica, ma c’è un titolo molto bello, che funziona come una chiave e grazie al quale tutto si tiene. Vorrei capire se questo titolo nasce prima del libro, durante la stesura o dopo. Se, insomma, l’idea di tenere insieme queste due parti attraverso qualcosa di esterno al libro sia nato prima o dopo la stesura del libro stesso.

Il titolo è arrivato verso la fine del processo e, come hai detto, si riferisce (in parte) alle differenze tra le storie di Alice e di Amar, non solo in termini di circostanze e di eventi, ma anche nel modo in cui sono scritte. Ho sempre pensato, però, che Alice e Amar dovessero stare nello stesso libro, nello stesso universo. Nelle prime stesure la loro relazione era più perspicua, più legata alla trama. Ma poi ho deciso di rendere le due storie in modo più discreto, e sebbene la struttura appaia frammentaria, nella mia testa il libro è indivisibile.

ⓢ Un’altra postilla sull’asimmetria è che controintuitivamente la parte più immediatamente riconducibile alla tua biografia è scritta in terza persona, mentre quella che per ovvie ragioni è più marcatamente di finzione è scritta in prima: la trovo una scelta interessante, ti andrebbe di commentarla?

Nelle prime versioni, ho provato a scrivere la storia di Alice in una prima persona riflessiva e analitica, ma il risultato non mi piaceva. Mi sembrava troppo farraginosa – troppo in affanno e involuta. Così ho optato invece per una terza persona più descrittiva e cinematografica, che credo restituisca al lettore un’esperienza più vivida, più limpida della relazione e lasci anche dei margini di interpretazione, rispettando più fedelmente le sue dinamiche. Lo stile della prima parte fa anche significativamente da contrasto con quello della seconda parte, che è raccontata da Amar, la cui consapevolezza, in un certo senso rovescia il romanzo. Le due voci contrastanti servono anche a dare un’idea di progressione, dell’evoluzione di Alice come scrittrice e come attenta cittadina del mondo.

ⓢ Il libro, che quest’inverno ha avuto molta risonanza negli Usa, con recensioni spesso lusinghiere uscite un po’ ovunque, inizialmente ha attirato attenzione anche perché è trapelato che si trattava di un romanzo in cui c’era un personaggio ispirato a Philip Roth, con cui tu avevi effettivamente avuto una relazione da giovane (viene detto a chiare lettere nel pezzo del Nyt, per esempio). Col senno di poi avresti preferito che questa “ispirazione” fosse stata più nascosta, e credi che abbia nuociuto al libro? O pensi invece che ti abbia avvantaggiato? Ti ha creato problemi di qualche tipo?

Avrei preferito che la mia relazione con Philip – che per anni e anni è stata una cara amicizia, fino alla sua morte – avesse ricevuto meno attenzione. Sono rimasta sorpresa da quanta energia e inchiostro alcuni giornalisti abbiano sprecato su dettagli esterni, invece di parlare del libro in sé. Perché il romanzo è strutturato in questo modo? Perché “Follia” (la prima parte del libro) sta insieme a “Pazzia” (la seconda)? Mi sembrano domande più interessanti di quelle sulla mia vita privata. “Follia” non è un memoir. Non è la cronaca fedele di una relazione che ho avuto. Alcuni eventi drammatici, significativi e centrali che accadono in “Follia” non li ho mai vissuti, e viceversa. Non ho semplicemente scritto qualcosa che mi è successo cambiando i nomi, come alcuni sembrano suggerire. Ci sono esperienze e dettagli in “Follia” che sono collegati a esperienze e dettagli con cui ho avuto contatto diretto, ma sicuramente è qualcosa che si ritrova in qualunque opera di fiction e i fatti sono largamente superati dalle deviazioni.

A volte mi chiedo se un romanzo scritto da un uomo su un relazione sentimentale simile a quella di “Follia” avrebbe suscitato tutta questa attenzione sulla relazione che lo scrittore aveva avuto nella vita vera. Comunque me lo chiedo solo perché è interessante. Non ho la presunzione di sapere o anche di
sospettare cosa succederebbe. Ma sono incline a pensare che ogni scrittore se vuole scrivere bene – anzi, se vuole scrivere tout court – deve superare un certo grado di autocensura o di oppressione auto-inflitta. Preoccuparsi troppo delle persone che possono confondere la tua vita con la tua finzione è probabilmente il modo più efficace per perpetuare questa paralisi.

ⓢ Vivi in Italia da quanti anni? Vorrei sapere che giudizio ti sei fatta del mondo editoriale italiano dopo aver conosciuto così bene quello americano: differenze, similitudini… e anche: cosa ti aspetti dai lettori italiani, che tipo di reazioni temi.

Vivo in Italia da circa otto anni, ma ho passato la maggior parte del tempo a lavorare sola a casa e, negli utlimi tredici mesi, a prendermi cura di mia figlia. Quindi non posso dire di essere un esperta del mondo editoriale italiano – né lo sono di quello americano, in cui non lavoro dal 2006. Trovo interessante che in Italia sembra esserci un’aspettativa diversa sui generi letterari rispetto all’America. In America i lettori tendono a voler sapere con certezza se quello che stanno leggendo sia fiction o non fiction. Si sentono traditi se un libro viene presentato come non fiction e si dimostra non interamente “vero”. Mentre in Italia sembra ci sia una tradizione consolidata e accettata nel drammatizzare i fatti allo scopo di ottenere una storia più appassionante ed evocativa. Non ho testato questa ipotesi in modo rigoroso; è solo una congettura. Di sicuro non è abbastanza per suggerire delle differenze nazionali in un senso più largo. In ogni caso fiction e non fiction sono categorie inadeguate: ipersemplificano la complessa amalgama di “invenzione” e “verità” che riguarda ogni tipo di scrittura. L’invenzione, dopotutto, si fonda sulla consapevolezza che abbiamo del mondo, che acquistiamo facendo esperienza. La verità, a causa dei falsi ricordi e del nostro limitato punto di vista, non è pura come pensiamo che sia. Di sicuro le potenzialità del romanzo di esplorare la tensione tra “realtà” e “non realtà” è per me irresistibile.

ⓢ In un’epoca in cui sono molto di moda le scrittura basate su realtà ed esperienza (memoir, autobiografie, literary non fiction in genere), sembra che tu abbia scelto di fare un libro che sta a metà tra l’autobiografia e l’invenzione (mettersi nei panni di un personaggio che non ha niente a che fare con te). È stata una scelta consapevole frutto di una qualche riflessione rispetto alle polarità fiction/non fiction, o risponde a un altro tipo di processo?

Non è solo una scelta consapevole, ma tutto il romanzo può essere descritto come un’esplorazione di questa falsa dicotomia ­ o della irrisolvibile tensione tra “autobiografia” e “invenzione” e della relazione tra immaginazione ed empatia. Ho già detto che “Follia”, la prima parte, non è interamente autobiografica. Per contro, “Pazzia”, non è interamente non autobiografica. Come Amar, una volta sono stata trattenuta di notte a Heatrow. Le circostanze erano diverse: sono stata tenuta lì dalle 8 di sera fino alle 3 del mattino perché avevo fatto troppi viaggi nel Regno Unito nei due anni precedenti, per visitare il mio ragazzo che lavorava a Londra. Alla fine, la polizia di frontiera mi lasciò andare ma con un bollo che mi impediva di tornare finché non avessi ottenuto un visto. Come nel mio caso, la libertà di viaggio di Amar è minacciata. Ma, diversamente da me, lui si trova in una situazione di sospensione ostile, con la sua identità e le sue intenzioni che vengono sospettate. Le ragioni di questo sospetto non vengono rivelate, ma sembra abbiano a che fare con il suo aspetto, il suo nome, o quella che si presume sia la sua religione. Quindi un dettaglio della mia vita è stato usato per esplorare qualcosa che ha poco a che fare con me. Ho fatto un enorme lavoro di ricerca per scrivere la storia di Amar (sebbene va detto che ho fatto un sacco di ricerche anche per la prima e la terza parte di Asimmetria). Ho letto libri sull’Iraq, ho letto cronache e memorie di corrispondenti di guerra, ho guardato telegiornali e documentari, ho parlato con amici iracheni-americani, ho studiato mappe.

Ritornando alla questione dell’autobiografia e della fiction: spesso dettagli che sembrano appartenere a una categoria non lo sono, e cercare di scrivere in modo soddisfacente comporta (nel mio caso) anni di ricombinazioni, riformulazioni, evocazioni e invenzioni. Amar dovrebbe assomigliarmi molto poco, ma in qualche modo la sua coscienza mi rappresenta più di quella di Alice. E tra l’altro, se qualcuno come Lisa Halliday o Alice Dodge può scrivere in modo convincente dalla prospettiva di uno come Amar Jaafari, questo chiama in causa alcune questioni fondamentali come la diversità (quanto diversi siamo veramente?) e l’appropriazione culturale.

Per caso ho sentito per la prima volta la parola “autofiction” dopo aver finito di scrivere Asimmetria. Non sapevo cosa fosse l’autofiction e ancora non lo so. Non trovo che sia un termine molto utile. Ogni frase che sia stata scritta, fiction o non fiction, è collegata e condizionata dalla biografia dell’autore. Anche se quello che inventiamo o immaginiamo non è completamente inventato o immaginato: ha origine nella nostra coscienza, o nella nostra esperienza di vita, altrimenti non saremmo capaci di scriverla. Credo che ciò che determini la definizione di “autofiction” sia questione di quanto il narratore o il personaggio condivida con l’autore in termini di segni identificativi (età, genere, nazionalità, professione, coordinate geografiche). Ma dare alla biografia dell’autore più attenzione di quella che andrebbe data al lavoro creativo, mi sembra un modo limitato e forse cinico di leggere e riflettere sulla finzione.

Lisa Halliday è americana ma vive in Italia da circa 8 anni. Asimmetria (Feltrinelli, 2018) è il suo primo libro (foto di Vittore Buzzi)

ⓢ Nel tuo libro si parla di due degli argomenti che hanno tenuto banco negli utlimi mesi anche nella cronaca, sui giornali, e cioè i rapporti di potere tra uomini e donne e la dinamica tra occidente e “altrove” rispetto alle questioni migratorie (Trump, Salvini…). Questo dimostra un particolare sensibilità rispetto al nostro tempo. Credi che questa sensibilità sia una caratteristica indispensabile per uno scrittore? Sei cioè quel tipo di scrittore che ritiene si debba essere dentro il tempo in cui si vive?

Ho scritto e finito Asimmetria prima che il movimento #metoo si articolasse e prima dell’elezione di Trump. Dunque, il romanzo non è un contributo consapevole al discorso pubblico. Cercavo semplicemente di raccontare una storia sulla formazione di un’aspirante scrittrice e sulla coscienza. Le relazioni tra uomini e donne, e l’istinto di difendere il proprio territorio (un istinto spesso accompagnato dalla paura dell’altro) non sono temi nuovi; sono vecchi come l’umanità, e oltretutto hanno avuto un ruolo centrale nella letteratura sin da quando gli esseri umani scrivono.

Non penso sia fondamentale scrivere del proprio tempo. Credo, al contrario, che ognuno debba scrivere di ciò che vuole, basta farlo con umiltà e rigore. È vero che sono attratta dalla fiction che è consapevole dei suoi limiti nel soppiantare la realtà: mi piace la fiction che interagisce in modo sottile ma significativo con il mondo in cui viene scritta.  Anche se per scrivere – per difendere il tempo e la tranquillità che a molti scrittori serve per scrivere – ­ bisogna sottrarsi dal clamore e dalle distrazioni del mondo, almeno poche ore al giorno, ogni giorno.

Per quanto riguarda uomini, donne e potere: Ezra è uno scrittore. Alice aspira a diventarlo. Entrambi hanno una sensibilità da scrittori: curiosa, sensuale, giocosa, immaginativa. La loro asimmetria, così come le sottili simmetrie che si rivelano, ha molto peso nella loro compatibilità. Le loro differenze arricchiscono il tempo che passano insieme. Imparano l’uno dall’altra; si prendono cura l’uno dell’altra. Si ascoltano e si divertono. In sintesi, è una storia d’amore non così diversa dalle altre. Tutte le relazioni sono asimmetriche in qualche modo. Tutte le relazioni comportano squilibri che si spostano ed evolvono. Sia Alice che Ezra vogliono avere questa storia, nonostante comporti dei rischi. Quindi il movimento #metoo non è stato così rilevante per me. Magari per qualcuno è così; magari il libro può servire da esempio o da contro esempio. Questa è ovviamente una caratteristiche della letteratura: la sua soggettività, la sua capacità di acquisire significati diversi nel corso del tempo.

ⓢ Nel tuo libro si parla anche molto di scrittura e di quanto questa sia importante per le vite dei personaggi. Non hai la sensazione che sempre più velocemente la scrittura (intesa come letteratura) stia perdendo rilevanza? Che interessi ormai a un cerchia sempre più stretta di persone? O che sia un mezzo espressivo che in qualche modo sta perdendo la sua potenza?

Non sono in grado di conoscere e di predire il futuro della letteratura. Naturalmente spero che non perda la sua rilevanza o il suo potere. Non credo succederà finché rimarrà un piacere. Di recente ho letto sul New York Times qualcosa collegato a questo discorso: in un articolo che parlava di politica delle identità, veniva citata questa frase della teorica della letteratura Gayatri Chakravorty Spivak: «Per me la domanda “Chi dovrebbe parlare?” è meno importante della domanda “Chi ascolterà?”». Come fare in modo che la gente legga? La risposta, io penso, è scrivere nel miglior modo possibile: con chiarezza, generosità, urgenza, passione. Fare in modo che alle persone interessi. Fare in modo che ascoltino.